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Altra retromarcia di Meloni, stavolta su Poste Italiane

Era il 2018. Giorgia Meloni, come di consueto, era arrabbiata, arrabbiatissima. “Per Fratelli d’Italia Poste italiane è un gioiello che deve rimanere in mano italiana e pubblica, è un presidio di legalità e di presenza dello Stato. Ci batteremo in tutti i modi possibili per evitarne la svendita”, scriveva. 

Ce l’aveva con Matteo Renzi, a capo del governo che stava prendendo in considerazione la privatizzazione di Poste. 

C’è anche un video d’epoca. Meloni si mette in posa di fronte a uno striscione “Poste bene pubblico: giù le mani!”. Tra i reggi striscione c’è un giovane Donzelli, ora uno dei big del partito, che ride fragorosamente. Meloni lo sgrida, lui si rimette buono. Si avvicinano i giornalisti e Meloni parla degli “oltre 141 mila dipendenti” e dei ”13 mila presidi aperti sul territorio” e “oltre 500 miliardi dei risparmi degli italiani” per dire che “Poste italiane è un gioiello che la sinistra tenta in tutti i modi di svendere”. 

Finita la dichiarazione alla stampa la giovane Meloni si avvicina a Pif, lì presente in veste di inviato,  e gli sussurra: “Con voi di sinistra siamo d’accordo contro questi del PD, che stanno con le banche. Perché vogliono dare via Poste? Perché CDP gli fa concorrenza. Capito?”.

Renzi privatizzò un pezzo di Poste. Il governo di Meloni sta facendo il resto. Dopo il disco verde della scorsa settimana al Dpcm che regolamenta l’alienazione di una quota della partecipazione detenuta dal Mef in Poste Italiane, il ministero dell’Economia e la società sarebbero già al lavoro per cedere la seconda tranche del capitale, pari ad una quota del 15%, entro un mese.

Il presidio di legalità e di presenza dello Stato al miglior offerente. 

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Elezioni regionali, Scholz si salva ma non esulta. I Socialdemocratici restano primo partito, ma Afd li tallona da vicino

Con un insperato colpo di scena il Partito Socialdemocratico (SPD) ha mantenuto la sua posizione di forza dominante nel Land del Brandeburgo, respingendo l’assalto dell’ultradestra Alternative für Deutschland (AfD). Le elezioni statali di domenica 22 settembre 2024 hanno visto una rimonta spettacolare della SPD guidata dal popolare governatore uscente Dietmar Woidke, che è riuscito a superare l’AfD sul filo di lana dopo mesi di sondaggi sfavorevoli.

Secondo i risultati ufficiali provvisori, la SPD ha ottenuto il 30,9% dei voti, in aumento rispetto al 26% del 2019. L’AfD, pur registrando una crescita significativa, si è fermata al 29,2%, mancando per poco quella che sarebbe stata una vittoria storica. La sorpresa della giornata è stata il debutto della Sahra Wagenknecht Alliance (BSW), un nuovo partito di sinistra conservatrice, che ha conquistato il 12% dei consensi.

La strategia vincente di Woidke: distanza da Berlino e focus sul territorio

La campagna elettorale è stata caratterizzata da una strategia insolita da parte di Woidke: prendere le distanze dal cancelliere federale Olaf Scholz e dal governo di coalizione “semaforo” a Berlino. La mossa, che inizialmente sembrava rischiosa, si è rivelata vincente. Woidke ha fatto leva sulla sua popolarità personale e sul suo record di governo, presentandosi come un leader locale attento alle esigenze del territorio più che come esponente del partito nazionale.

Il risultato rappresenta un sollievo per il cancelliere Scholz, la cui popolarità a livello nazionale è ai minimi storici. Tuttavia, la vittoria della SPD in Brandeburgo sembra essere più un successo personale di Woidke che un endorsement della leadership di Scholz. Il governatore aveva addirittura escluso il cancelliere dalla sua campagna elettorale, temendo che la sua presenza potesse avere un impatto negativo.

Per l’AfD, classificata come organizzazione estremista di destra nel Brandeburgo dalle agenzie di intelligence, il risultato rappresenta comunque un progresso significativo. Il partito ha consolidato la sua posizione come seconda forza politica nello stato, guadagnando circa 6 punti percentuali rispetto alle elezioni del 2019.

La CDU, il partito conservatore che un tempo dominava la politica tedesca, ha subito una pesante sconfitta, ottenendo solo il 12% dei voti, il suo peggior risultato dalla riunificazione tedesca. Questo crollo potrebbe avere ripercussioni a livello nazionale, alimentando le richieste di elezioni anticipate da parte dell’opposizione.

I Verdi, partner della coalizione “semaforo” a livello federale, hanno registrato un risultato deludente, non riuscendo a superare la soglia del 5% necessaria per entrare nel parlamento statale.

Il successo della BSW, il nuovo partito fondato dall’ex leader della sinistra Sahra Wagenknecht, aggiunge un elemento di incertezza al panorama politico. Con la sua piattaforma che combina politiche di sinistra su questioni economiche con posizioni più conservatrici sull’immigrazione e critiche verso il sostegno militare all’Ucraina, la BSW potrebbe giocare un ruolo chiave nella formazione del nuovo governo statale.

Scenari post-voto: nuovi equilibri e possibili coalizioni

Woidke ha già annunciato l’intenzione di avviare colloqui per formare una nuova coalizione di governo, indicando la possibilità di un’alleanza a tre che includa la CDU e la BSW. Il risultato del voto propone diversi spunti. Da un lato, dimostra che i partiti tradizionali possono ancora resistere all’avanzata dell’estrema destra se si radicano fortemente nel territorio e si concentrano sulle questioni locali. Dall’altro, evidenzia la crescente frammentazione del paesaggio politico, con l’emergere di nuovi attori come la BSW che sfidano le dinamiche consolidate. Il “muro anti-sovranisti” ha retto in Brandeburgo ma la sfida dell’estrema destra rimane viva in Germania.

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Contratti scaduti e paghe da fame, la sanità privata scoppia

Oggi, 23 settembre 2024, la sanità privata italiana si ferma. Oltre 200mila lavoratori tra infermieri, fisioterapisti e operatori sanitari hanno incrociato le braccia, stanchi di attendere un rinnovo contrattuale che tarda ad arrivare. La mobilitazione, indetta da Cgil, Cisl e Uil, vede presidi in tutto il Paese, da Ancona a Catanzaro, passando per le grandi città come Roma, Milano e Napoli.

Sanità, la disparità che fa male: numeri e cifre di un’ingiustizia

Al centro della protesta, la disparità di trattamento tra i dipendenti del settore pubblico e quelli del privato. Nonostante – dicono le associazioni di categoria – svolgano le medesime mansioni, con pari responsabilità e fatica, questi ultimi percepiscono stipendi significativamente inferiori. Un infermiere del privato guadagna in media 170 euro in meno al mese rispetto a un collega del pubblico. La situazione è ancor più critica per chi opera nelle Rsa, con una differenza salariale che può superare i 350 euro mensili.

Ma non è solo una questione di denaro. I lavoratori del settore privato lamentano anche una carenza di diritti fondamentali come quelli legati alla malattia. Mentre nel pubblico le assenze per malattia sono pienamente retribuite, nel privato – soprattutto nelle Rsa – si assiste a un sistema a scalare che può portare alla totale mancanza di retribuzione.

Dal tavolo delle trattative alle piazze: cronaca di un dialogo fallito

La radice del problema affonda in un passato non troppo lontano. Nel 2012, Aiop e Aris siglarono due accordi che non sono mai stati rinnovati. Dopo un paziente lavoro sindacale tra ottobre 2023 e gennaio 2024 sembrava si fosse giunti a un punto di svolta con l’apertura di tavoli di trattativa per un contratto unico. Tuttavia, le condizioni poste da Aiop e Aris per sedersi al tavolo sono state giudicate inaccettabili dai sindacati.

“Ci è stato risposto che per rinnovare il contratto e scriverne uno unico, con anche la parte normativa adeguata, c’era bisogno che i soldi li mettesse il governo”, dichiara Barbara Francavilla, segretaria della Fp Cgil. Una richiesta che suona come un déjà-vu: la stessa situazione si era verificata la scorsa settimana con lo sciopero dei dipendenti Uneba.

La posta in gioco è alta. I sindacati chiedono a gran voce la revoca dell’accreditamento alle strutture che non rinnovano i contratti o che applicano contratti lesivi della dignità del lavoro. “Queste strutture, destinatarie di appositi finanziamenti pubblici da parte delle singole regioni, stanno continuando a svilire e sottopagare oltre 200mila lavoratrici e lavoratori che ogni giorno si prendono cura di chi ha bisogno di assistenza”, denunciano i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil.

Anche gli Ordini dei Medici hanno annunciato la loro partecipazione a una manifestazione prevista per il 25 settembre al teatro Brancaccio di Roma. “Dal nostro osservatorio registriamo un malessere crescente tra i colleghi”, afferma Filippo Anelli, presidente della Fnomceo, sottolineando come il disagio sia trasversale alle diverse declinazioni della professione, sia nel pubblico che nel privato.

La situazione attuale mette in luce le profonde contraddizioni di un sistema sanitario sempre più frammentato. Da un lato, abbiamo una sanità pubblica allo sfacelo, con liste d’attesa interminabili e personale ridotto all’osso. Dall’altro, un settore privato che, pur beneficiando di finanziamenti pubblici sembra più interessato a massimizzare i profitti che a garantire condizioni di lavoro dignitose ai propri dipendenti.

È evidente che a guadagnare da questo sfacelo del Sistema Sanitario Nazionale non sono certo i lavoratori, ma i soliti noti: grandi gruppi e imprenditori che vedono nella sanità un’opportunità di business, più che un servizio essenziale per la comunità. Mentre i pazienti si trovano stretti tra l’incudine di un pubblico in affanno e il martello di un privato sempre più costoso sono i lavoratori a pagare il prezzo più alto di una crisi ormai sistemica.

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Dalla Chiesa, Andreotti e il passato che non passa

A forza di mitigare la memoria accadono fine settimana come quello appena trascorso in cui l’Italia si sveglia di soprassalto per le scontate parole di Rita Dalla Chiesa, conduttrice televisiva prestata alla politica nelle fila di Forza Italia nonché figlia del generale Carlo Alberto ucciso a Palermo nel 1982.

Dalla Chiesa ha detto ciò che chiunque si interessi minimamente alla storia di questo Paese sa: il generale dei carabinieri venne ucciso sì dalla mafia ma dietro al suo omicidio ci furono menti raffinatissime che erano esterne a Cosa nostra. La sentenza del 2002 scrive: “Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”. 

L’8 marzo del 2017 Roberto Scarpinato, al tempo Procuratore Generale di Palermo (oggi senatore), rivelò in una seduta secretata alla commissione antimafia che Gioacchino Pennino (medico, uomo di Cosa nostra e massone, diventato collaboratore di giustizia) raccontò di aver saputo da altri massoni che “l’ordine di eliminare Carlo Alberto dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma, dal deputato Francesco Cosentino”, democristiano, fedelissimo di Giulio Andreotti, segretario generale della Camera e personaggio di rilievo della loggia massonica P2 di Licio Gelli.

Proprio a Andreotti ha fatto riferimento Rita Dalla Chiesa pur senza farne il nome per “rispetto alla famiglia” (qualsiasi cosa voglia dire). 

Intorno stupore e costernazione. C’è da capirli: avevano convenuto di non parlare più di mafia e ora qualcuno si mette a ripassare la storia. Poi magari un giorno la parlamentare di Forza Italia potrebbe anche dirci degli accordi tra la mafia e alcuni fondatori del partito in cui milita. 

Buon lunedì. 

Nella foto: il cartello apparso sul luogo dell’assassinio del generale e di sua moglie

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Patrimoniale sull’ignoranza

Che al governo risultino sgraditi coloro che da tempo cercano di accendere l’attenzione sui catastrofici effetti del cambiamento climatico non è un mistero. L’infantilizzazione dell’attivismo climatico è un progetto ampio che poggia su reti televisive private compiacenti, dirigenti compiacenti delle reti pubbliche e una larga schiera di giornali appartenenti all’aerea di destra e cosiddetta liberale. Per tacciare i contestatori hanno pensato addirittura ad una legge ad hoc. E fa niente se comprime la libertà di tutti: l’elettore di destra è contento che quelli vengano puniti e questo lo rende felice anche se ha il culo appoggiato su un pianeta in ebollizione che minaccia l’estinzione della sua specie.

“L’abbiamo fatto per proteggere le opere d’arte e i cittadini”, spiegano dalla maggioranza. Che per il cambiamento climatico siano a rischio l’arte e i cittadini a loro poco importa. Poi è accaduto che da qualche giorno il cuore dell’Europa sia sotto una tempesta che a parere di gran parte della comunità scientifica ha effetti devastanti a causa dell’innalzamento delle temperature. Dalle nostre parti qualcuno sorrideva sornione spiegando che “fa troppo freddo per esserci il cambiamento climatico”. E giù di risate soddisfatte e di applausi, gli stessi riservati alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni quando urla che il Green Deal europeo è da bloccare con forza, con più forza della crisi climatica.

Quindi è finita sott’acqua una parte d’Italia, la stessa già martoriata un anno fa. Sono iniziate le puerili rivendicazioni politiche e il ministro Nello Musumeci ha avuto una grande idea: a pagare i costi dei danni dell’emergenza climatica – che la sua maggioranza non perde occasione di minimizzare – potrebbero essere i cittadini con una bella assicurazione obbligatoria. Ma come, ma mica le alluvioni ci sono sempre state? Le assicurazioni dicono che il 2023 è stato l’anno peggiore di sempre. E quindi il cittadino pagherà i danni provocati da un fenomeno che nel centrodestra in molti negano. Una vera e propria patrimoniale. Sull’ignoranza.

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Il paradosso italiano: boom delle rinnovabili ma il governo frena

Il settore dell’energia solare sta vivendo una crescita senza precedenti a livello globale, superando anche le previsioni più ottimistiche degli esperti. Secondo un recente rapporto del think tank energetico Ember, le installazioni di impianti fotovoltaici raggiungeranno i 593 GW entro la fine del 2024, segnando un incremento del 29% rispetto all’anno precedente. 

Il boom del fotovoltaico: quando la realtà supera le previsioni

Questi numeri confermano il fotovoltaico come la fonte di energia più economica al mondo, evidenziando un’accelerazione del settore che va oltre le aspettative. Le proiezioni di Ember superano di quasi 200 GW le stime fornite a gennaio dall’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), sottolineando come il mercato stia evolvendo a un ritmo difficile da prevedere persino per gli addetti ai lavori.

La crescita è guidata da cinque paesi chiave – Cina, Stati Uniti, India, Germania e Brasile – che rappresenteranno il 75% delle nuove installazioni globali nel 2024. La Cina, in particolare, si conferma leader indiscusso, con una previsione di 334 GW di nuova capacità entro fine anno, pari al 56% del totale mondiale.

Non sono solo i mercati consolidati a trainare questa espansione. Paesi emergenti come Pakistan, Arabia Saudita, Filippine, Emirati Arabi Uniti, Thailandia e Oman stanno registrando una crescita significativa, beneficiando dell’export di tecnologie solari dalla Cina.

Italia al bivio: opportunità verde o retromarcia fossile?

L’Italia non è da meno in questo scenario di espansione. Al 30 giugno 2024, il nostro paese ha registrato oltre 1,7 milioni di impianti fotovoltaici connessi, per una potenza complessiva di 33,62 GW. Nei primi sei mesi dell’anno sono stati installati 169.003 nuovi impianti, per un totale di 3,34 GW, con un aumento del 44% rispetto allo stesso periodo del 2023.

I dati si inseriscono in un contesto più ampio di transizione energetica. Nel primo semestre del 2024, per la prima volta nella storia, l’Italia ha prodotto più elettricità da fonti rinnovabili che da fonti fossili. Un traguardo storico che segna un punto di svolta nel panorama energetico nazionale.

La crescita esponenziale del fotovoltaico porta con sé alcune sfide tecniche. Gli esperti sottolineano la necessità di potenziare le reti elettriche e sviluppare sistemi di stoccaggio efficaci per gestire la distribuzione dell’energia e coprire le ore in cui la produzione solare non è al massimo. Queste sfide richiedono investimenti e politiche mirate, aspetti che il Green Deal si propone di affrontare.

Il contrasto tra l’espansione globale del fotovoltaico e la posizione del governo italiano sul Green Deal evidenzia la complessità del processo di transizione energetica. Da un lato, un settore in forte crescita che promette di rivoluzionare il panorama energetico mondiale; dall’altro, la retorica contro la transizione ecologica di Meloni e dei paesi sovranisti europei. 

La questione non è puramente ambientale, ma anche economica. Il fotovoltaico sta dimostrando di essere non solo sostenibile dal punto di vista ecologico, ma anche estremamente competitivo in termini di costi. L’Italia si trova ora a un un incrocio:può sfruttare il momentum del settore fotovoltaico per rafforzare la sua posizione nel mercato delle energie rinnovabili; oppure può adagiarsi sulla demonizzazione dell’energia verde con buona pace delle lobby del fossile. 

Le decisioni che verranno prese nei prossimi mesi riguardo al Green Deal e alle politiche energetiche nazionali avranno un impatto significativo non solo sul settore delle energie rinnovabili, ma sull’intero futuro economico e ambientale del paese. Le premesse, tocca ammetterlo, non sono proprio le migliori. 

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Consiglieri ministeriali, una giungla tra poca trasparenza e troppa burocrazia

Sotto il gossip dell’ex ministro alla Cultura Gennaro Sangiuliano e la ex non consulente Maria Rosaria Boccia cova un’opacità permanente: i consiglieri – quelli che non si sono ritrovati la nomina stracciata – dei ministeri. Faticoso sapere chi siano, difficile sapere quanto pesino nelle decisioni. 

Il labirinto dei numeri: un esercito nell’ombra

Partiamo dai numeri, o meglio, da quelli che si è riusciti a racimolare. Secondo le stime di Pagella Politica, i consiglieri sarebbero almeno 155. Un esercito silenzioso di esperti, diplomatici e tuttologi vari, pronti a dispensare la loro sapienza ai 24 ministri del governo Meloni. Ma attenzione: il condizionale è d’obbligo, perché in questo campo nulla è certo e tutto è possibile.

La trasparenza, si diceva. Come ricostruisce il sito di Fact Checking, su 24 ministeri, solo 9 si degnano di fornire informazioni complete e facilmente accessibili sui loro consiglieri. Per gli altri 15, è come cercare un ago in un pagliaio digitale. Curriculum, compensi, durata degli incarichi sono avvolti in una comoda foschia. 

Compensi da capogiro: dalla gratuità al bonus consigli

E qui si apre il capitolo più succulento: i compensi. Perché se è vero che 63 consiglieri prestano la loro opera a titolo gratuito per gli altri si spalanca un ventaglio di possibilità. Si va dai 4.500 euro lordi annui del consigliere diplomatico del ministro Calderoli, ai 125.000 euro del guru della comunicazione agli Esteri.

Al Ministero della Giustizia dove il consigliere diplomatico, oltre a un compenso base di 98.000 euro, può contare su un “trattamento accessorio” di altri 93.000. Una sorta di “bonus” per i buoni consigli. 

Il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, si era circondato di ben 20 consiglieri, tra cui spiccano nomi noti come la direttrice d’orchestra Beatrice Venezi (30.000 euro l’anno) e il paroliere Mogol (a titolo gratuito). All’estremo opposto troviamo il ministro Nello Musumeci, che vanta 9 consiglieri tutti rigorosamente non retribuiti.

E poi ci sono i casi limite. Il Ministero dell’Università e della Ricerca, dove dell’unico consigliere noto si conoscono solo le spese di viaggio (5.000 euro nel 2023). O il Ministero della Difesa, un vero e proprio fortino dell’opacità, dove i consiglieri compaiono e scompaiono tra elenchi discordanti e dichiarazioni contraddittorie.

Al Ministero dell’Ambiente, il ministro Pichetto Fratin può contare su ben 8 consiglieri giuridici. Un plotone di toghe pronte a destreggiarsi tra commi e cavilli, con compensi che oscillano tra i 20.000 e i 48.000 euro annui.

La giungla dei consiglieri ministeriali

La vicenda Sangiuliano-Boccia, con la nomina poi smentita di una consigliera per i “grandi eventi”, ha acceso i riflettori su questo mondo sommerso ma nemmeno il recente scandalo ha fatto luce. 

Resta il fatto che, nonostante una legge del 2013 obblighi le pubbliche amministrazioni a pubblicare tutti i dati relativi agli incarichi di collaboratori e consulenti, compresi i compensi, molti ministeri continuano a navigare in un limbo di semi-trasparenza. Un limbo dove le informazioni sono frammentarie, incomplete o semplicemente assenti.

Avventurarsi nel rovistare tra i consiglieri ministeriali è un esercizio di archeologia contemporanea, tra indizi sparsi e disorganizzati da mettere in fila. Eppure la “trasparenza” come antidoto del cosiddetto “amichettismo di sinistra” era una delle principali promesse della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Che fine ha fatto? La risposta, come direbbero i consiglieri più saggi, è tutta politica.

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Déjà vu a Bruxelles: Orbán torna a ricattare l’Europa

Non c’è termometro migliore della disunità europea di lui. Non contento di tenere in ostaggio l’Unione Europea il premier ungherese, Viktor Orbán, ora estende la sua ombra persino sul G7.

Come scrivono David Carretta e Christian Spillmann nel loro Mattinale Europeo, Orbán sta ostacolando un prestito di 50 miliardi di dollari promesso dal G7 all’Ucraina. Il finanziamento, cruciale per sostenere Kyiv nell’acquisto di armi e nel mantenimento del bilancio corrente, rischia di naufragare a causa del possibile veto ungherese all’architettura finanziaria che l’UE sta cercando faticosamente di costruire.

Il meccanismo proposto prevedeva l’utilizzo dei proventi degli attivi sovrani russi congelati con le sanzioni. Un piano apparentemente semplice che si scontra con la realtà di un’Unione europea paralizzata dalla regola dell’unanimità. Orbán, con il suo diritto di veto, si trova nella posizione di poter bloccare non solo l’assistenza europea ma potenzialmente anche quella del G7.

Il piano B dell’Ue: aggirare il veto a tutti i costi

La situazione è talmente critica che, come rivelato dal Financial Times, l’UE sta già preparando un “piano B”. La Commissione potrebbe proporre un nuovo programma di assistenza macrofinanziaria, utilizzando il bilancio comunitario per fornire fino a 40 miliardi di euro a Kyiv. Una mossa che potrebbe essere approvata a maggioranza qualificata, aggirando così il veto ungherese.

Ma perché Orbán si ostina in questa posizione? Il premier ungherese sembra giocare una partita più ampia, scommettendo sul possibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. La sua strategia quindi è di temporeggiare fino alle elezioni presidenziali americane del 5 novembre, nella convinzione che un’eventuale vittoria di Trump cambierebbe radicalmente gli equilibri e l’approccio occidentale verso l’Ucraina.

La scommessa di Orbán: temporeggiare fino alle elezioni USA

Non è la prima volta che Orbán usa il suo potere di veto come arma di ricatto politico. Dal blocco dei rimborsi per le armi fornite all’Ucraina al congelamento del Fondo di assistenza da 5 miliardi di euro il leader ungherese ha dimostrato di non avere remore nell’usare la sua posizione per perseguire interessi nazionali, spesso in contrasto con quelli dell’Unione.

La frustrazione all’interno dell’UE è palpabile. Josep Borrell, Alto rappresentante per gli affari esteri, ha espresso pubblicamente la sua esasperazione, promettendo di trovare un modo per aggirare il veto ungherese. Ma la realtà è che l’Unione si trova di fronte a un limite strutturale della sua capacità di azione imposto dalla regola dell’unanimità.

Mentre il primo ministro ungherese firma accordi su petrolio e gas con la Russia, sfruttando la sua posizione di “free rider” all’interno dell’UE, gli altri leader europei sembrano incapaci di trovare una soluzione efficace per contenere le sue azioni.

La situazione attuale mette in luce non solo la fragilità del consenso europeo su questioni cruciali come il sostegno all’Ucraina ma anche l’urgente necessità di riformare i meccanismi decisionali dell’Unione. La ricerca continua di espedienti per aggirare il veto di un singolo stato membro è un sintomo di un problema più ampio che richiede una riflessione seria sul futuro dell’integrazione europea.

Dove porta questo scenario è perfino scontato: l’Ucraina è la vittima collaterale di giochi politici interni all’Ue. Con un fabbisogno finanziario stimato di 35 miliardi di dollari per il prossimo anno, il paese ha un disperato bisogno di assistenza. Il tempo stringe, e mentre l’Ue cerca soluzioni alternative, la Russia continua la sua offensiva. Le tanto auspicate vie diplomatiche rimangono in pausa in attesa dell’evolversi degli eventi. La guerra intanto infiamma e Orbàn sorride. 

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Ius Scholae e altre illusioni: viaggio nel Parlamento dei Ddl fantasma

Mentre l’estate italiana si tingeva d’oro grazie alle imprese olimpiche di atleti di seconda generazione, il dibattito sulla cittadinanza tornava prepotentemente alla ribalta. Antonio Tajani, leader di Forza Italia, dichiarava con enfasi l’8 settembre: “Guai se abbiamo paura di concedere diritti meritati: saremmo un centrodestra oscurantista che non si rende conto dei cambiamenti della società”. Parole al vento, come spesso accade dalle parti degli ex berlusconiani fortissimi con i propositi e molto meno nelle azioni. 

Lo ius scholae, cavallo di battaglia estivo di Tajani, in fondo è solo l’ennesimo miraggio legislativo in un Parlamento che sembra aver smarrito la sua funzione primaria. Un’analisi approfondita condotta da Openpolis rivela un quadro desolante: su 2.900 proposte di legge presentate dall’inizio della legislatura al 2 settembre 2024, solo 144 (il 5%) hanno visto la luce. Il resto sono polvere nei cassetti di Montecitorio e Palazzo Madama.

Non solo Ius scholae, la fabbrica dei Ddl fantasma: un Parlamento di carta

Lo ius scholae non è solo. È in ottima compagnia nella terra dei Ddl fantasma, quel limbo legislativo utile per un comunicato stampa. Ben 2.143 proposte non hanno ancora mosso un passo nel loro iter parlamentare. Il 95% di queste sono di iniziativa parlamentare.

Il gioco è fin troppo chiaro: i parlamentari presentano Ddl sapendo perfettamente che non vedranno mai la luce del dibattito in aula. Un esercizio di stile, un modo per marcare il territorio ideologico, per strizzare l’occhio all’elettorato. Di sostanza poca, pochissima.I numeri parlano chiaro: solo l’1,34% delle proposte di iniziativa parlamentare è diventato legge. Un dato che fa riflettere sulla reale capacità del Parlamento di incidere sull’agenda legislativa del Paese.

Governo vs Parlamento: una partita impari

E il governo? Ah, il governo se la ride. Le sue proposte hanno la corsia preferenziale: il 59% dei Ddl governativi è già legge, contro il misero 1,34% di quelli parlamentari. Una sproporzione che grida vendetta e che racconta di un Parlamento sempre più marginale, ridotto a camera di ratifica delle decisioni dell’esecutivo.

Attualmente giacciono in Parlamento 31 proposte di legge sulla cittadinanza: 25 del centrosinistra, 6 della maggioranza. Quattro hanno iniziato la discussione in commissione, ma si tratta di dettagli marginali. Il resto è fermo al palo, come la proposta di Azione bocciata recentemente dall’aula di Montecitorio.

Non è solo la cittadinanza a essere ostaggio di questa paralisi legislativa. Il fine vita, la giustizia, la sicurezza, i diritti dei lavoratori, la tutela delle persone con disabilità: tutti temi cruciali impantanati nelle sabbie mobili della burocrazia parlamentare. E poi ci sono le proposte “esotiche”: dall’albo dei sindaci emeriti alla giornata nazionale del panettone, fino al divieto di insegnamento delle “teorie del gender”. Folklore parlamentare che difficilmente vedrà la luce.

I tempi di approvazione raccontano un’altra storia di disparità. Le leggi di iniziativa governativa volano: 43 proposte approvate in meno di 60 giorni, con picchi di efficienza come i 9 giorni per il decreto agricoltura o i 30 per la legge di bilancio 2023. Le proposte parlamentari? Una media di 290 giorni per vedere la luce, quando va bene.

Il Parlamento che avrebbe dovuto essere il cuore pulsante della democrazia rappresentativa sembra aver perso i battiti. Si è ridotto a mero palcoscenico per dichiarazioni roboanti e promesse vuote mentre il vero potere legislativo si è spostato altrove. Lo Ius scholae di Tajani è solo l’ultimo esempio di questa triste parabola.

“Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti”, era la visionaria affermazione di Andy Warhol nel lontano 1968. Oggi qualcuno per quindici minuti può anche depositare un disegno di legge in Parlamento. 

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Gazebata pro Salvini. E riparte lo scontro coi pm

“Non c’è alcuna volontà di acutizzare uno scontro con la magistratura”, spiegava nei giorni scorsi al termine del consiglio federale la senatrice leghista Giulia Bongiorno. A proposito del processo a suo carico per la vicenda Open Arms l’altro ieri Libero titolava “Salvini smorza i toni contro i magistrati”. Verrebbe da pensare che finalmente il leader della Lega – su spinta decisa della presidente del Consiglio Giorgia Meloni – si sia convinto che il berlusconissimo scontro continuo con la magistratura è un veleno inopportuno. La separazione dei poteri del resto nel diritto, è uno dei principi giuridici fondamentali dello Stato di diritto e della democrazia liberale.

Sembrerebbe un lieto fine se non fosse che ieri il deputato della Lega Fabrizio Cecchetti, coordinatore regionale lombardo del partito ha annunciato “banchetti e gazebo in Lombardia per sostegno a Salvini”, in una sorta di quarto grado giudizio – quello di piazza – che contraddice i buoni propositi. “Nei prossimi due fine settimana la Lega sarà nelle piazze della Lombardia per due ‘gazebate’ consecutive, con centinaia tra banchetti e gazebo, per permettere ai cittadini di firmare a sostegno dell’azione politica del nostro movimento e del nostro segretario e ribadire che la difesa dei nostri confini nazionali non è un reato”, spiega Cecchetti.

Così gli elettori leghisti più infoiati potranno illudersi di poter scrivere una legge che consenta di violare le leggi semplicemente appoggiandosi su un banchetto con vista Duomo e dandosi di gomito con i propri compagni di partito. A quel punto – è già scontato – il ministro Salvini confezionerà un altro bel video da sparare sui social per dirci che non c’è nessuno scontro con i magistrati. Lui ce l’ha solo con quelli che lo devono giudicare, tutti gli altri non gli arrecano nessun disturbo.

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