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Un milione di morti nella guerra, cala l’inverno demografico

Scrive il Wall Street Journal che il numero di ucraini e russi uccisi e feriti avrebbe raggiunto la quota di un milione. 

Ovviamente di dati ufficiali non ce ne sono. Una stima ucraina riservata di inizio anno ipotizzava il numero di soldati ucraini morti a 80.000 e i feriti a 400.000. Le stime dell’intelligence occidentale sulle vittime russe variano, con alcune che ipotizzano il numero di morti a quasi 200.000 e i feriti a circa 400.000.

L’impatto nei due paesi che già erano alle prese con il declino della popolazione viene definito “devastante”. “La demografia è una priorità per Putin, e lui vuole usare l’Ucraina e la sua gente per consolidare il nucleo slavo della Russia”, ha detto al quotidiano Usa Ivan Krastev , politologo di origine bulgara e autore di un libro in uscita sulla demografia europea. “Ma per l’Ucraina, il dilemma è esistenziale: quante persone puoi perdere in una guerra prima di perdere il tuo futuro?”

Il censimento più recente in Ucraina, nel 2001, ha registrato 48 milioni di abitanti. All’inizio del 2022, prima dell’invasione russa, erano scesi a 40 milioni, comprese regioni come la Crimea che la Russia aveva annesso con il referendum del 2014. Con oltre sei milioni di persone in fuga dall’Ucraina dall’inizio della guerra nel febbraio 2022, secondo le Nazioni Unite, e la Russia che si è impossessata di ulteriori territori, la popolazione totale nel territorio controllato da Kiev è ora scesa tra 25 e 27 milioni. 

Oltre alle morti militari, anche il tasso di natalità dell’Ucraina è crollato al livello più basso mai registrato: nella prima metà di quest’anno, sono morte tre volte più persone di quante ne siano nate, secondo i dati governativi.

Eccola, la guerra. 

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L’Europa annega ma in Italia si continua a scherzare sul freddo

Mentre in Italia qualcuno nella classe dirigente scambia il clima con il meteo e ironizza sul freddo, nell’Europa centrale si vivono giorni di angoscia e distruzione. La tempesta Boris ha scatenato una furia d’acqua che ha travolto intere regioni, lasciando dietro di sé un bilancio sempre più pesante di vittime, sfollati e danni. 

Al momento, le cifre parlano di almeno 15 morti: sei in Romania, cinque in Polonia, tre in Austria e uno nella Repubblica Ceca. Nella Repubblica Ceca, quattro persone risultano disperse, tre delle quali travolte da un fiume mentre erano in auto nella città di Lipová-lázne. È una corsa contro il tempo, con i soccorritori che lottano instancabilmente contro le acque tumultuose.

Il bilancio della devastazione: morti, dispersi e città sommerse

In Austria, la situazione è apocalittica. La Bassa Austria, che circonda Vienna, è stata dichiarata zona disastrata. Un vigile del fuoco ha perso la vita cercando di salvare delle persone, mentre due cittadini sono annegati nelle loro stesse case. Come se non bastasse, alcune aree del Tirolo si sono ritrovate sotto un metro di neve in uno scenario surreale per metà settembre, tanto più che solo una settimana fa nella zona si godeva di temperature a dir poco estive.

La Polonia non è da meno. Il primo ministro Donald Tusk, visitando le zone colpite, ha descritto una situazione “molto drammatica”. A Kłodzko, il fiume locale ha raggiunto livelli mai visti prima, superando persino il terribile record del 1997. Circa 1.600 persone sono state evacuate, e l’esercito è stato chiamato a supporto dei vigili del fuoco, in una lotta impari contro la forza della natura.

In Romania, il dramma si consuma nel sud-est del paese. Nella sola regione di Galati, 5.000 case sono state danneggiate. Il sindaco di Slobozia Conachi, Emil Dragomir, non usa mezzi termini: “Questa è una catastrofe di proporzioni epiche”. Le sue parole risuonano come un monito, mentre 700 case del suo villaggio giacciono sommerse. In questo scenario drammatico, anche le grandi capitali tremano. A Budapest, il Danubio minaccia di superare gli 8,5 metri, avvicinandosi pericolosamente al record storico del 2013. Bratislava ha dichiarato lo stato di emergenza, preparandosi al peggio.

La risposta all’emergenza: governi in azione e solidarietà popolare

Di fronte a questa catastrofe, i governi si mobilitano. La Polonia ha stanziato 1 miliardo di zloty (circa 260 milioni di euro) per i soccorsi. L’Austria ha messo a disposizione un fondo di 300 milioni di euro, pronto ad essere aumentato se necessario. Le previsioni non lasciano spazio all’ottimismo. Le piogge continueranno almeno fino a lunedì in Repubblica Ceca e Polonia, mentre Ungheria, Slovacchia e Austria si preparano a giorni ancora difficili.

Mentre i fiumi continuano a gonfiarsi e le città a sommergersi, una domanda serpeggia tra le popolazioni colpite: è questa la nuova normalità? Le autorità e i cittadini si trovano di fronte a una sfida senza precedenti, costretti a ripensare le proprie strategie di difesa e di adattamento di fronte a eventi climatici sempre più estremi e imprevedibili.

L’Europa centrale è in ginocchio, ma non si arrende. Tra le acque che salgono e le case che crollano, emergono storie di solidarietà e resilienza. Vigili del fuoco, volontari, militari e semplici cittadini lavorano fianco a fianco, in una corsa contro il tempo per salvare vite e limitare i danni.

Insomma la tempesta Boris si allontana lentamente, lasciando dietro di sé non solo distruzione ma anche la consapevolezza che il futuro potrebbe riservare sfide ancora più grandi. L’Europa centrale, e con essa l’intero continente, si trova di fronte a un bivio: imparare da questa catastrofe per costruire un futuro più resiliente o rischiare di soccombere alla prossima tempesta che, inevitabilmente, si abbatterà sulle sue terre. Con buona pace dei nostri ironici negazionisti. 

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Il triangolo d’oro Putin-Erdogan-Occidente: affari opachi dietro le quinte della guerra in Ucraina

Mentre l’Ucraina combatte per la propria sopravvivenza, l’Occidente si invischia in un paradosso: nonostante le sanzioni imposte alla Russia, miliardi di dollari continuano a fluire nelle casse di Mosca attraverso un escamotage nel sistema sanzionatorio. 

Un recente rapporto, che verrà presentato congiuntamente dal Center for Research on Energy and Clean Air e dal Center for the Study of Democracy, racconta la contraddizione. Secondo l’analisi, anticipata in esclusiva da Politico, nella prima metà del 2024 gli alleati occidentali avrebbero acquistato carburanti derivati dal petrolio russo per un valore di circa 2 miliardi di dollari. Gli acquisti, tecnicamente legali, sfruttano un “buco” nelle sanzioni che permette di importare prodotti petroliferi di origine russa purché siano stati precedentemente lavorati in un paese terzo.

Il triangolo del petrolio: Russia, Turchia e Occidente

Il principale protagonista di questo triangolo commerciale è la Turchia. Ankara, approfittando degli sconti offerti da Mosca (dai 5 ai 20 dollari al barile), ha incrementato gli acquisti di greggio russo del 34% nel 2023 e addirittura del 70% quest’anno. Tre raffinerie turche si sono specializzate nella lavorazione di questo petrolio a buon mercato, rivendendolo poi sotto forma di benzina, diesel e altri derivati ai paesi occidentali.

“Quando l’Ue importa benzina dalla Turchia, costa il 10% in meno rispetto a quella proveniente dall’Arabia Saudita”, ha detto a Politico Vaibhav Raghunandan, analista del Center for Research on Energy and Clean Air. “Ma questi risparmi non si traducono in benefici per i consumatori: sono le aziende e i commercianti a trarne profitto. Qualcuno sta facendo fortuna con questo commercio, ma non sono certo i cittadini comuni”.

Il meccanismo è tanto semplice quanto efficace: la Russia vende petrolio a prezzi scontati alla Turchia, che lo raffina e lo rivende all’Occidente come prodotto “turco”, aggirando così le sanzioni. Un esempio emblematico è la raffineria Star Aegean, di proprietà azera, che dipende per il 98% dal greggio russo, con il 73% delle forniture provenienti dal colosso energetico Lukoil, sanzionato dagli Stati Uniti. Nonostante ciò, quasi nove barili su dieci prodotti da questa raffineria finiscono nei paesi alleati che sostengono l’Ucraina.

Le conseguenze: finanziamento involontario della guerra russa di Putin

Le implicazioni di questo commercio vanno ben oltre il mero aspetto economico. Secondo il rapporto, i ricavi fiscali che Mosca ricava dalla vendita di questi carburanti ai paesi occidentali consentirebbero alla Russia di reclutare altri 6.200 soldati al mese da inviare in Ucraina. Un dato che fa riflettere sulla reale efficacia delle sanzioni e sulla coerenza dell’approccio occidentale al conflitto.

Già lo scorso anno, Oleg Ustenko, allora consigliere economico del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy, aveva lanciato un appello al G7 affinché imponesse “un divieto per tutti i prodotti raffinati destinati ai paesi del G7” per frenare il flusso di denaro che il Cremlino riesce a ottenere attraverso intermediari come Turchia, India e Cina.

“Quello che sta accadendo è una violazione diretta dello spirito della legge sulle sanzioni”, ha spiegato Martin Vladimirov, esperto di energia del Center for the Study of Democracy. “La nostra raccomandazione è che l’Ue e i paesi del G7 dovrebbero vietare l’importazione di prodotti petroliferi raffinati dal petrolio russo, è semplice come questo.”

Il dibattito su come chiudere questo “buco” nelle sanzioni è più che mai attuale. Alcuni analisti suggeriscono di implementare un sistema di tracciabilità più stringente per i prodotti petroliferi, altri propongono sanzioni secondarie per i paesi che fungono da intermediari. Ciò che è certo è che, finché persisterà questa ambiguità, l’efficacia delle sanzioni contro la Russia rimane una chimera

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Commissione Ue, von der Leyen svela la sua squadra. Tra equilibri difficili e tante incognite

In un’atmosfera carica di aspettative, Ursula von der Leyen ha finalmente alzato il sipario sulla sua nuova squadra di commissari europei. L’annuncio, giunto questa mattina a Strasburgo, segna un momento cruciale per il futuro dell’Unione Europea, delineando le figure che guideranno le politiche comunitarie nei prossimi cinque anni.

“Oggi presento una squadra di donne e uomini competenti e motivati, pronti a lavorare insieme per un’Unione più forte, più sicura e più competitiva,” ha dichiarato von der Leyen, aprendo la conferenza stampa. Le sue parole hanno dato il via a una presentazione che ha rivelato una Commissione rinnovata, con un equilibrio delicato tra continuità e cambiamento.

La squadra per sfide cruciali

Al centro dell’attenzione, sei vicepresidenze esecutive che incarnano le priorità dell’Unione. L’italiano Raffaele Fitto, dei Conservatori europei, guiderà Coesione e Riforme, una scelta che ha sollevato più di un sopracciglio negli ambienti progressisti. La spagnola Teresa Ribera si occuperà di Transizione ecologica e Concorrenza, sottolineando l’impegno dell’Ue verso una decarbonizzazione competitiva. Il francese Stéphane Séjourné, subentrato in extremis al dimissionario Thierry Breton, gestirà Prosperità e Strategia industriale.

Completano il quadro delle vicepresidenze la finlandese Henna Virkkunen per Sicurezza e Sovranità tecnologica, l’estone Kaja Kallas come Alto Rappresentante per gli Affari Esteri, e la romena Roxana Mînzatu per Persone, Competenze e Preparazione.

La composizione riflette anche le sfide geopolitiche attuali. Il nuovo portafoglio della Difesa, affidato al lituano Andrius Kubilius, segnala la volontà dell’Ue di rafforzare la propria autonomia strategica. Maroš Šefčovič della Slovacchia si occuperà del delicato dossier del Commercio, mentre il polacco Piotr Serafin gestirà il Bilancio.

L’austriaco Magnus Brunner avrà la responsabilità degli Affari Interni e Migrazioni, un tema sempre caldo nell’agenda europea. Wopke Hoekstra dei Paesi Bassi manterrà il portafoglio dell’Azione per il Clima, sottolineando la continuità dell’impegno europeo in questo ambito. L’ungherese Oliver Varhelyi passerà dall’Allargamento alla Salute e al Benessere degli Animali, mentre il lettone Valdis Dombrovskis si occuperà di Economia e Semplificazione.

Il danese Dan Jorgensen avrà la cruciale delega all’Energia, il greco Apostolos Tzitzikostas ai Trasporti, mentre l’agricoltura sarà affidata al lussemburghese Christophe Hansen. Infine, l’irlandese Michael McGrath si occuperà di Giustizia e Stato di Diritto.

Un percorso accidentato verso l’approvazione

Von der Leyen ha delineato tre filoni principali che guideranno l’azione della Commissione: prosperità, sicurezza e democrazia, con le transizioni gemelle – decarbonizzazione e digitalizzazione – come sfide trasversali. “Dobbiamo garantire una transizione equa per tutti,” ha sottolineato la presidente, “e per farlo serve una coraggiosa strategia industriale che abbracci l’innovazione senza lasciare indietro nessuno.”

Il percorso che ha portato a questa composizione non è stato privo di ostacoli. Le intense trattative hanno visto momenti di tensione tra le diverse famiglie politiche europee, con l’irritazione dei liberali, l’ultimatum dei socialisti e le perplessità dei verdi. Le dimissioni di Breton hanno aggiunto un elemento di dramma dell’ultima ora. Nonostante le difficoltà, von der Leyen ha cercato di trasmettere un messaggio di unità. “I commissari non rappresentano i loro paesi, ma l’Europa e la nostra causa comune,” ha ribadito, sottolineando l’importanza di un approccio coeso alle sfide future.

Ora si apre la fase delle audizioni parlamentari, un passaggio non scontato che potrebbe riservare sorprese. Solo al termine di questo processo, con il voto finale dell’Europarlamento, sapremo se la nuova Commissione avrà la forza necessaria per guidare l’Unione Europea attraverso le turbolenze che si profilano all’orizzonte, dalle crisi climatiche alle tensioni geopolitiche, fino al rilancio della competitività globale.

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Un referendum che conta e il tempo che stringe

C’è un referendum importante e c’è il tempo che stringe. Lo scorso 4 settembre Riccardo Magi di +Europa ha depositato alla Corte di Cassazione un nuovo referendum abrogativo che propone di modificare la legge che regola la concessione della cittadinanza italiana ai cittadini stranieri.

Mentre nel Parlamento si scioglievano i propositi estivi di Antonio Tajani e di Forza Italia il referendum propone di intervenire su due lettere del primo comma dell’articolo 9 della legge sulla cittadinanza, quello che stabilisce le modalità di concessione della cittadinanza italiana agli stranieri.

Si vuole portare per tutti gli stranieri maggiorenni a cinque anni il periodo di residenza legale nel nostro Paese necessario a chiedere la cittadinanza italiana. Come spiega Paolo Bonetti, professore di Diritto Costituzionale e pubblico dell’Università degli Studi di Milano Bicocca, «la legge del 1992 ha deciso, invece, uno spezzettamento di questi termini, riducendoli a quattro anni per i cittadini dell’Unione europea e portandoli da cinque a dieci anni per i cittadini degli Stati extra-Ue». 

Portare a cinque anni il tempo per richiedere la cittadinanza – sempre rispettando gli altri requisiti come conoscere la lingua, pagare le tasse e avere stabilità economica – allineerebbe l’Italia alle altre legislazioni dei paesi europei, come ad esempio la Germania che è intervenuta sullo stesso punto a fine giugno. 

Il quesito referendario deve essere depositato come le 500 mila firme richieste entro fine settembre. Si firma qui https://pnri.firmereferendum.giustizia.it/referendum/open/dettaglio-open/1100000

Buon martedì. 

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Quel Patto con la Tunisia e il cimitero di sabbia

Il deserto come discarica umana. Questo il piano del presidente tunisino Kaïs Saïed, l’”alleato affidabile” di Giorgia Meloni nella gestione dei flussi migratori. Ma affidabile per cosa Per abbandonare esseri umani nel deserto senza acqua né cibo?

I fatti parlano chiaro: 29 migranti della Sierra Leone, parte di un gruppo di 42, risultano dispersi dopo essere stati abbandonati dalle autorità tunisine al confine con l’Algeria. Tra loro, bambini e donne incinte. Anderson, 24 anni, racconta di 12 giorni nel deserto prima del salvataggio. Il suo crimine? Viaggiare da Sfax a Tunisi per rinnovare lo status di richiedente asilo.

Questa non è un’eccezione, ma una pratica sistematica. Human Rights Watch denuncia: da un anno i migranti vengono spinti verso i confini desertici, violando palesemente il diritto internazionale. L’Oim stima 15mila migranti solo nel campo di Sfax, molti dei quali rischiano lo stesso destino.

Intanto, sei corpi di migranti, incluso un bambino, sono stati recuperati al largo di Monastir. Numeri che si aggiungono a una tragedia in corso, mentre l’Italia stringe accordi con Saïed.

Intanto il presidente tunisino si prepara a elezioni farsa, negando l’accreditamento agli osservatori internazionali. Un’ulteriore prova della deriva autoritaria che l’Italia e l’Europa fingono di non vedere.

La Tunisia è diventata una trappola mortale per i migranti. Gruppi come Rifugiati in Libia lanciano l’allarme: “La situazione sta andando di male in peggio”. Le morti aumentano, i diritti vengono calpestati, e il clima repressivo rende persino illegale aiutare i richiedenti asilo.

Eppure il governo italiano continua a stringere la mano a Saïed, chiudendo entrambi gli occhi. In nome di cosa Di una “stabilità” che sa di sabbia e sangue.

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Perché il caso Open Arms che vede imputato Salvini è diverso da quelli della Diciotti e della Gregoretti

La destra di governo, nel tentativo di difendere Matteo Salvini dal processo Open Arms, sta cercando di equiparare questo caso a quelli della Gregoretti e della Diciotti. Ma un’analisi attenta rivela differenze sostanziali che non possono essere ignorate.

Partiamo dai fatti. Nel caso Diciotti (agosto 2018) e Gregoretti (luglio 2019), Salvini non è stato processato. Per l’Open Arms (agosto 2019), invece, è stato rinviato a giudizio. Stessa accusa di sequestro di persona, esiti diversi. Perché?

Le differenze cruciali: navi, contesto politico e azioni legali

La prima differenza cruciale riguarda la natura delle imbarcazioni. Diciotti e Gregoretti sono navi militari italiane, quindi sotto diretto controllo statale. L’Open Arms, al contrario, è una nave umanitaria di una Ong spagnola. Questa distinzione non è marginale: il decreto sicurezza-bis, in vigore all’epoca dei fatti Gregoretti e Open Arms, escludeva esplicitamente il divieto di ingresso per navi militari italiane.

Il contesto politico è un altro elemento chiave. Nel caso Diciotti, Lega e M5S governavano insieme e il Senato negò l’autorizzazione a procedere. Per la Gregoretti, il decreto sicurezza-bis era appena entrato in vigore e l’azione di Salvini poteva essere interpretata come una “legittima conseguenza di scelte politiche condivise dall’esecutivo”, come ha stabilito il giudice di Catania. 

Per l’Open Arms, lo scenario era radicalmente mutato. Il governo Conte I era in piena crisi, con una netta divisione interna sulle politiche migratorie. L’allora premier Conte e parte del governo si dissociarono apertamente dalle scelte di Salvini, come dimostrato dal carteggio citato nell’atto d’accusa del tribunale dei ministri di Palermo.

Un altro aspetto fondamentale riguarda le azioni legali. Nel caso Open Arms, un ricorso al Tar del Lazio sospese il divieto di ingresso, creando un precedente giuridico significativo. I giudici amministrativi ritennero che non si potesse applicare il divieto a una nave di soccorso con naufraghi a bordo. Salvini, ignorando questa decisione, si espose a contestazioni più gravi.

Emergenza umanitaria e responsabilità individuale: i fattori chiave del caso Open Arms

Le condizioni a bordo delle navi rappresentano un ulteriore elemento di distinzione. Diciotti e Gregoretti, pur non essendo attrezzate per lunghe permanenze, erano comunque navi militari con standard minimi garantiti. L’Open Arms, bloccata per 19 giorni, si trovò in una situazione di emergenza sanitaria e psicologica ben più grave, come documentato da diverse relazioni mediche.

Nel caso Gregoretti, ad esempio, il Tribunale dei Ministri ha evidenziato che la nave non era attrezzata per ospitare un elevato numero di persone per diversi giorni. I migranti erano sul ponte di coperta, esposti agli agenti atmosferici, con temperature di 35 gradi. La relazione medica riportava casi di scabbia, micosi cutanee e persino un caso sospetto di tubercolosi.

Infine, c’è la questione della responsabilità politica. Nei casi Diciotti e Gregoretti, l’azione di Salvini sembrava rientrare in una linea condivisa dal governo. Per l’Open Arms, le 114 pagine dell’atto d’accusa dei giudici del tribunale dei ministri di Palermo presentano un quadro diverso: mail con il premier Conte, atti amministrativi e testimonianze di alti funzionari del Viminale indicano che quella decisione fu “espressione dell’attività amministrativa e non di indirizzo politico” ascrivibile solo a Salvini

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Commissione Ue, Breton sbatte la porta in faccia a von der Leyen

In un’Europa già provata da crisi su crisi l’ultima novità che giunge da Bruxelles ha il sapore amaro dell’ennesimo incaglio. La Commissione von der Leyen, ancora in fase embrionale, sta perdendo pezzi come un vecchio orologio mal assemblato. L’ultimo ingranaggio a saltare è stato nientemeno che Thierry Breton, il commissario francese che ha deciso di abbandonare la nave prima ancora che salpasse, lanciando accuse che fanno tremare i vetri del Berlaymont.

Il terremoto Breton: accuse e dimissioni scuotono Bruxelles

Ma andiamo con ordine, se di ordine si può parlare in questo caos istituzionale che sta facendo impallidire persino i più cinici osservatori della politica europea. Breton, indicato da Macron per un secondo mandato, ha improvvisamente gettato la spugna, accusando Ursula von der Leyen di aver giocato sporco. Secondo il commissario dimissionario, la presidente avrebbe tentato di convincere Macron a scaricarlo, promettendo in cambio un portafoglio più succulento per la Francia. Una mossa degna del più basso mercanteggiamento politico, che fa sembrare le trattative per un governo italiano un esempio di fair play.

Von der Leyen, nel suo tentativo di creare una Commissione equilibrata dal punto di vista di genere – un nobile intento, non c’è dubbio – sembra aver scambiato Bruxelles per un set televisivo dove si possono sostituire i concorrenti a piacimento. Slovenia e Romania hanno già dovuto ritirare i loro candidati maschi, sostituendoli con figure femminili. 

Ora c’è la lettera di dimissioni di Breton, un documento che meriterebbe di essere incorniciato e appeso nelle aule di scienze politiche come esempio di come non gestire una transizione di potere. Il commissario uscente accusa von der Leyen di una “governance discutibile”, un eufemismo che nasconde probabilmente un giudizio ben più severo. E quando un uomo che ha passato gli ultimi cinque anni a navigare le acque della politica europea parla di “governance discutibile”, c’è da preoccuparsi seriamente.

“Negli ultimi cinque anni, mi sono sforzato incessantemente di sostenere e promuovere il bene comune europeo, al di sopra degli interessi nazionali e di partito. È stato un onore”, ha scritto Breton nella sua lettera. “Tuttavia, alla luce di questi ultimi sviluppi – ulteriore testimonianza di governance discutibile – devo concludere che non posso più esercitare i miei doveri”

Una Commissione in bilico: le sfide dell’Europa nell’era dell’incertezza

Il timing di questa débâcle non potrebbe essere peggiore. L’Europa si trova ad affrontare sfide epocali: una guerra alle porte, una crisi energetica che minaccia di mandare in tilt le economie del continente, per non parlare dei venti di populismo che soffiano sempre più forti.

La mossa di Breton getta ora Parigi nel caos. Macron si trova a dover nominare un nuovo candidato commissario, in un momento in cui la Francia avrebbe bisogno di tutta la sua influenza a Bruxelles. E non è un segreto che i rapporti tra l’Eliseo e la Commissione fossero già tesi prima di questo incidente diplomatico.

Quello che emerge da questo pantano istituzionale è l’immagine di un’Europa incapace di gestire persino i suoi processi interni più basilari. Se questo è il livello di competenza e coesione che possiamo aspettarci dalla nuova Commissione, c’è da chiedersi come potrà affrontare le sfide titaniche che l’attendono.

La strada per la nuova Commissione si preannuncia lunga e tortuosa. E mentre a Bruxelles si gioca a scacchi con le poltrone, il resto del mondo non aspetta. La speranza è che da questo caos possa emergere una leadership all’altezza delle sfide che ci attendono. Ma al momento, l’unica certezza è che la Commissione von der Leyen sta perdendo pezzi ancora prima di partire. E con essa, rischia di sgretolarsi anche la credibilità dell’intero progetto europeo.

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Caso Asso 29, il Tribunale di Roma ordina un visto per chi fu respinto in Libia

Nel cuore dell’estate del 2018, mentre le spiagge italiane si riempivano di vacanzieri, nel Mediterraneo si consumava l’ennesima illegalità di Stato. La nave mercantile Asso 29 diventava protagonista involontaria di un episodio destinato a lasciare il segno nella storia giuridica italiana. Oggi, a distanza di sei anni, il Tribunale di Roma ha emesso una sentenza che potrebbe cambiare le carte in tavola nel complesso scenario dei respingimenti in mare, smontando il castello di norme su cui si basa la retorica di governo. 

Il caso Asso 29: anatomia di un respingimento controverso

Era il 2 luglio 2018 quando l’Asso 29, seguendo le indicazioni delle autorità italiane, imbarcava oltre 260 persone precedentemente intercettate dalla motovedetta libica Zuwara. Fin qui, potrebbe sembrare un’operazione di routine nel controverso panorama dei soccorsi in mare. Ma è quello che accadde dopo a sollevare un polverone: anziché dirigersi verso un porto italiano, l’Asso 29 fece rotta su Tripoli, riportando i naufraghi in Libia.

La decisione di ricondurre i naufraghi in territorio libico non è passata inosservata. Da quel momento, è iniziata una battaglia legale che ha visto coinvolti attivisti, avvocati e, naturalmente, i sopravvissuti a quel respingimento. Una battaglia che, passo dopo passo, sta mettendo in discussione per l’ennesima volta l’intero sistema dei respingimenti verso la Libia.

La sentenza che cambia tutto: un visto per riparare l’illegalità

La sentenza emessa dal Tribunale di Roma nei giorni scorsi rappresenta l’ultimo, significativo tassello di questo percorso. Già a fine giugno i giudici avevano stabilito che le autorità italiane e il comandante della Asso 29 avrebbero dovuto garantire lo sbarco dei naufraghi in un luogo sicuro. E la Libia, sottolineano i togati, non può essere considerata tale.

Ma c’è di più. Il Tribunale della capitale nei giorni scorsi ha ordinato all’Ambasciata italiana a Tripoli di rilasciare un visto d’ingresso a uno dei ricorrenti, permettendogli di entrare in Italia e chiedere protezione internazionale. Una decisione che apre scenari inediti e potenzialmente dirompenti.

Le implicazioni di questa sentenza vanno ben oltre il caso specifico dell’Asso 29. Mettono in discussione l’intera architettura degli accordi tra Italia e Libia in materia di gestione dei flussi migratori. Se la Libia non è un porto sicuro, come si giustificano i respingimenti operati con il supporto della guardia costiera libica lautamente finanziata dal governo italiano?

Il caso Asso 29: le reazioni

Le reazioni non si sono fatte attendere. Le avvocate Lucia Gennari del progetto Sciabaca&Oruka di ASGI e Ginevra Maccarone del collegio difensivo hanno accolto con favore la decisione. “Questo ragionamento si applica evidentemente a tutti i casi in cui le autorità offrono supporto ai libici nell’operare le intercettazioni”, hanno dichiarato, sottolineando come ogni volta che ciò accade si configuri una violazione del principio di non-refoulement.

Non è la prima volta che la magistratura italiana si esprime in questi termini. Già a giugno, lo stesso Tribunale di Roma aveva condannato le autorità italiane a risarcire altri cinque ricorrenti coinvolti nel caso Asso 29. Ma la sentenza di questi giorni fa un passo ulteriore, ordinando concretamente il rilascio di un visto d’ingresso.

Mentre le aule dei tribunali dibattono, la situazione sul terreno rimane drammatica. Molte delle persone respinte dalla Asso 29 si trovano ancora in Libia, in condizioni che i rapporti internazionali descrivono come altamente pericolose. Organizzazioni per i diritti umani stanno lavorando per permettere loro di entrare legalmente in Italia e chiedere protezione.

La sentenza del Tribunale di Roma riafferma principi fondamentali del diritto internazionale e potrebbe avere ripercussioni significative sulle future politiche migratorie italiane ed europee. Nono stante il vittimismo di qualche ministro italiano. 

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Difesa respinta

Il responsabile editoriale di Pagella politica Carlo Canepa in poche righe ha demolito la retorica di Matteo Salvini sul caso Open Arms mettendo in fila i fatti.

Salvini afferma di essere a processo per aver “difeso i confini”, ma la realtà è più complessa. Il Tribunale dei Ministri lo ha indagato per possibile sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio, in relazione al blocco della nave Open Arms nell’agosto 2019.

La cronologia presentata da Salvini non corrisponde a quella ricostruita dalle autorità. La Open Arms non stava “vagando” per raccogliere migranti, ma effettuava salvataggi e chiedeva ripetutamente l’assegnazione di un porto sicuro. Le offerte di aiuto da parte di Malta e Spagna, citate da Salvini, erano in realtà limitate o impraticabili date le condizioni a bordo.

Contrariamente a quanto affermato, lo sbarco di minorenni e persone vulnerabili non fu immediato, ma avvenne dopo giorni e diverse opposizioni. Inoltre, il secondo decreto di divieto d’ingresso nelle acque italiane fu firmato solo da Salvini, non da altri ministri come lui sostiene.

I dati sugli sbarchi citati dall’ex ministro sono parziali e non tengono conto che il calo era iniziato prima del suo mandato. Inoltre, sebbene il numero assoluto di morti in mare sia diminuito, la percentuale rispetto alle partenze è aumentata durante la sua gestione.

Infine, l’interpretazione di Salvini dell’articolo 52 della Costituzione sulla “difesa della patria” in relazione ai migranti appare forzata e discutibile.

Difesa repinta.

Buon lunedì.

Nella foto: la Open Arms attracca al porto di Crotone, gennaio 2024 (Francesco Placco)

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