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Il ministro forte con i deboli, debole con la legge

C’è una domanda semplice per smontare il ministro Matteo Salvini a proposito del suo imbarazzante video su sfondo nero in cui dichiara di essere colpevole di “avere difeso l’Italia: da chi? 

Da chi ha difeso l’Italia Matteo Salvini tenendo una banda di disperati su una nave. Ci ha difeso da donne e bambini? Da chi ci ha difeso Matteo Salvini colpevole di omissione di soccorso poiché con la nave bloccata al porto l’operazione Sar – di ricerca e soccorso – era ancora attiva Ci ha difeso dagli scafisti che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva promesso di scovare in tutto l’orbe terraqueo prima di stringere le mani dei governi che sugli scafisti reggono il proprio potere ricattatorio?

Salvini non è “colpevole di avere difeso l’Italia”. Salvini è politicamente colpevole di essere forte con i deboli e debole con i forti. Salvini è politicamente colpevole di essere parte di un governo che vede lui sotto processo, Delmastro che sarà a processo, Santanchè che sarà a processo, Pozzolo che sarà a processo, Montaruli già condannata, Sangiuliano probabilmente indagato, Toti ai servizi sociali. 

Salvini è politicamente colpevole di alimentare il giogo che ha trasformato Rainews in un triste megafono di governo. Salvini è politicamente colpevole di avere inventato la concimazione dei bassi istinti come metodo elettorale. Salvini è politicamente colpevole di avere trascinato l’Italia in un grottesco processo in cui rivendica di essere al di sopra del diritto internazionale. 

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La crociata contro gli eco-attivisti, dal Regno Unito all’Italia di Giorgia Meloni – Lettera43

In Gran Bretagna chi protesta per il clima rischia il carcere. Con pene superiori a quelle previste per aggressione a sfondo razziale. Le organizzazioni per i diritti lanciano l’allarme, ma l’esempio britannico pare aver già attecchito nel nostro Paese. Come dimostrano il giro di vite sul blocco stradale e il caso Baggio. Questa destra non si fa mancare proprio nulla.

La crociata contro gli eco-attivisti, dal Regno Unito all’Italia di Giorgia Meloni

Stephen Gingell ha 57 anni e lo scorso 12 novembre insieme a una quarantina di persone ha trascorso mezz’ora su Holloway Road nel nord di Londra. Una marcia lenta per protestare contro i combustibili fossili e il cambiamento climatico. La campagna Just stop oil nel Regno Unito sta coinvolgendo giovani e adulti. A dicembre 2023 si è dichiarato colpevole di fronte al tribunale di Wimbledon. Il suo caso è stato trasferito al tribunale di Manchester che ha emesso la sentenza definitiva: sei mesi di carcere per avere violato l’articolo 7 del Public Order Act 2023 che vieta «qualsiasi atto che impedisca a macchine da stampa di giornali, centrali elettriche, siti di estrazione o distribuzione di petrolio e gas, porti, aeroporti, ferrovie o strade di essere utilizzati o gestiti in qualsiasi misura». L’organizzazione per i diritti umani Liberty ha criticato la condanna di Gingell. Katy Watts, un avvocato dell’organizzazione, ha detto che «è scioccante vedere sentenze così dure impartite ai manifestanti». «Questa», ha aggiunto, «è un’altra legge inutile e draconiana introdotta da un governo che è deciso a scoraggiare le persone dal difendere ciò in cui credono. È un chiaro tentativo di mettere a tacere le persone e per il governo di nascondersi da ogni responsabilità». All’avvocato per i diritti umani è toccato ricordare che «la protesta è un diritto fondamentale, non un dono dello Stato. Il governo dovrebbe proteggere il nostro diritto di protestare, non criminalizzarlo».

La crociata contro gli eco-attivisti, dal Regno Unito all'Italia di Giorgia Meloni
Una manifestazione di Just Stop Oil nel Regno Unito (Getty Images).

Nel Regno Unito da quando nell’aprile 2022 è iniziata la campagna Just Stop Oil sono stati arrestati 2 mila attivisti

Nell’ottobre del 2022 due attivisti sempre di Just Stop Oil hanno scalato un ponte sul Dartford Crossing, costringendo la polizia a chiuderlo al traffico. Morgan Trowland, 40 anni, e Marcus Decker, 34 anni, sono stati condannati a fine aprile del 2023 a più di due anni e mezzo ciascuno per aver causato un «disturbo pubblico». Il giudice Collery pronunciando la sentenza ha detto di avere voluto essere estremamente severo per evitare emulazioni. Da quando la campagna Just Stop Oil è iniziata, il primo aprile 2022, più di 2 mila persone sono state arrestate e 138 hanno trascorso del tempo in prigione. Lo scorso luglio, in un caso che ha avuto risonanza a livello internazionale, cinque manifestanti inglesi (tra cui il co-fondatore di Just Stop Oil Roger Hallam) sono stati condannati dai quattro ai cinque anni per avere partecipato a una riunione su Zoom in cui si pianificava una manifestazione di protesta sull’autostrada M25 che circonda la Greater London.

La crociata contro gli eco-attivisti, dal Regno Unito all'Italia di Giorgia Meloni
Protesta contro la condanna di Daniel Shaw, Louise Lancaster, Lucia Whittaker De Abreu, Cressida Gethin e Roger Hallam (Getty Images).

Il caso Baggio, l’applicazione della sorveglianza speciale e il Ddl anti-Gandhi

L’inquietante linea repressiva britannica ha lo stesso retrogusto dell’applicazione, in Italia, della sorveglianza speciale per Giacomo Baggio, attivista di Ultima Generazione. Per lui recentemente la questura di Roma ha chiesto due anni di obbligo di permanenza nel Comune di residenza, coprifuoco notturno dalle 20:00 alle 7:00, obbligo di firma quotidiano e divieto di partecipare a qualsiasi manifestazione a sfondo politico, compresi gli eventi culturali. Tutto questo mentre si discute alla Camera il cosiddetto “Ddl anti-Gandhi” che vorrebbe inasprire le pene per il blocco stradale e introdurre nuove fattispecie di reato specificamente modellate sulle proteste ambientaliste. Anche nel caso italiano lo scopo sarebbe quello di ottenere un effetto deterrente.

La crociata contro gli eco-attivisti, dal Regno Unito all'Italia di Giorgia Meloni
Giacomo Baggio (da youtube).

L’esempio di Londra sarà seguito dai Paesi autoritari. A partire dall’Italia meloniana

Linda Lakhdhir, direttrice legale di Climate Rights International, sul Guardian racconta che nel Regno Unito nel 2023, l’allora ministro degli Interni Suella Braverman ha introdotto una legge che consente alla polizia di fermare le proteste se disturbano anche «in misura minore» le persone che svolgono le loro attività quotidiane. Le novità legislative sotto i Tories hanno reso la pena per i manifestanti che si “attaccano” a un oggetto, per terra o a un’altra persona con una qualche forma di adesivo o manette più di due volte superiore a quella per aggressione a sfondo razziale. «Che a uno piacciano o meno le tattiche dei manifestanti climatici, la protesta pacifica – compresa la disobbedienza civile pacifica – è un diritto fondamentale», spiega Lakhdhir. «Coloro che si impegnano nella disobbedienza civile sono disposti a pagarne le conseguenze. Ma, in una società democratica, le leggi e la loro applicazione dovrebbero essere ragionevoli e le conseguenze proporzionate. In più di 10 anni di ricerca e difesa sul diritto di protestare, ho visto come le restrizioni a quel diritto portino a un soffocamento della società civile e a un governo che si isola dalle critiche dei suoi cittadini». Per Lakhdhir «l’esempio che sta dando il Regno Unito è quello che sarà seguito da Paesi autoritari desiderosi di giustificare i propri giri di vite sulle proteste». La sensazione è che il primo Paese autoritario che ha raccolto l’esempio sia proprio l’Italia di Giorgia Meloni.

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Il Pnrr tra ritardi e ostacoli: a rimetterci è pure il Terzo settore

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) doveva rappresentare un’opportunità storica per l’Italia e per il Terzo settore. Tuttavia, l’analisi dei dati forniti da Openpolis rivela un quadro preoccupante, caratterizzato da ritardi, complessità burocratiche e scarso coinvolgimento del no profit.

I numeri parlano chiaro: su diverse misure cruciali per il Terzo settore, l’attuazione procede a rilento. Nel settore sanitario, ad esempio, il progetto delle Centrali Operative Territoriali (Cot) mostra significativi ritardi. Al 22 gennaio 2024, risultavano stipulati 574 contratti per la realizzazione di altrettante Cot, a fronte di un obiettivo di 600 centrali operative entro fine 2024. Alcune Regioni hanno accumulato ritardi tali da rendere necessari piani di rientro.

Ritardi e complessità: il Pnrr zoppica sui progetti chiave

Ancora più critica la situazione degli interventi di contrasto alla povertà educativa nel Mezzogiorno, unica misura che vede gli enti del Terzo settore come soggetti attuatori. Dei 220 milioni stanziati, risultano attivati progetti per soli 62,4 milioni di euro. Un dato che evidenzia le difficoltà del settore nell’accedere e gestire i fondi del Pnrr.

La rigenerazione urbana, altro ambito di interesse per il no profit, presenta incongruenze preoccupanti. Per i Piani Urbani Integrati, risultano attivi progetti per 2,9 miliardi di euro, una cifra che supera di gran lunga l’attuale importo assegnato alla misura (1,4 miliardi). Questa discrepanza solleva dubbi sulla effettiva realizzabilità di tutti gli interventi previsti.

Un nodo cruciale riguarda la distribuzione territoriale delle risorse. Nonostante l’obiettivo di destinare il 40% dei fondi al Sud, diverse misure mostrano percentuali inferiori. È il caso dei progetti per le Green communities, con solo il 36,3% delle risorse al Mezzogiorno, o degli interventi per il miglioramento della qualità dei servizi pubblici digitali, fermi al 34,3% per il Sud.

Trasparenza e monitoraggio: le zone d’ombra del Piano

La scarsa trasparenza e la difficoltà di monitoraggio di molti progetti rappresentano un’ulteriore criticità. Con l’uscita dal perimetro del Pnrr di alcune misure, vengono meno gli stringenti obblighi di rendicontazione previsti dal Piano. È il caso, ad esempio, degli 803 progetti per le infrastrutture sociali di comunità, del valore di circa 500 milioni, non più inclusi nel Pnrr. O ancora dei 254 interventi sui beni confiscati, per 300 milioni complessivi.

Anche laddove i progetti rimangono nel Piano, si registrano riduzioni degli obiettivi o slittamenti temporali. L’investimento per asili nido e scuole dell’infanzia, ad esempio, ha visto una revisione al ribasso del target di nuovi posti da creare (da 264.480 a 150.480). Per l’housing sociale e le stazioni di posta per i senza fissa dimora, è stato posticipato di un anno il termine per il completamento degli interventi.

La capacità di spesa rappresenta un altro elemento di preoccupazione. Per diverse misure di interesse per il Terzo settore, le risorse effettivamente assegnate sono ancora ben al di sotto degli stanziamenti previsti. Per il Servizio Civile, ad esempio, dei 650 milioni stanziati, risultano assegnati progetti per soli 428 milioni di euro.

La complessità delle procedure burocratiche amplifica queste criticità. Il programma Gol (Garanzia Occupabilità Lavoratori) è emblematico: nonostante diversi interventi correttivi per semplificare l’accesso ai fondi, al 18 aprile 2024 risultavano attivi solo 968 progetti per un importo di 658,4 milioni, a fronte di uno stanziamento complessivo di 5,5 miliardi.

Il quadro che emerge è quello di un’opportunità che rischia di essere mancata. La mancanza di un coinvolgimento strutturale del Terzo settore nella progettazione e attuazione degli interventi limita l’efficacia del Pnrr proprio in quei settori – dal welfare all’inclusione sociale – in cui il no profit potrebbe giocare un ruolo chiave.

Per invertire la rotta, servirebbe un cambio di passo deciso: procedure più snelle per l’accesso ai fondi, un maggiore ruolo degli enti nella co-progettazione degli interventi, e soprattutto un monitoraggio costante e trasparente dell’attuazione del Piano. Solo così il Pnrr potrà trasformarsi da semplice elenco di progetti e risorse in un vero motore di cambiamento, capace di valorizzare appieno il contributo del Terzo settore per una ripresa equa e sostenibile.

I dati di Openpolis lanciano un chiaro allarme: senza un intervento deciso, il rischio è che questa occasione storica si trasformi in un’ennesima promessa mancata per il Terzo settore e, di conseguenza, per tutto il Paese.

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Cercasi commissario Ue alla Salute: il ruolo che nessuno vuole

C’era una volta, in un’Europa non troppo lontana, un’unità sanitaria che brillava sotto i riflettori. Reduce dalla pandemia di Covid-19, si era vista assegnare 5 miliardi di euro in più e persino una nuova agenzia per affrontare le crisi sanitarie. A guidarla, una commissaria esperta – Stella Kyriakides – con quattro decenni di esperienza nel ministero della salute del suo Paese.

Ma il vento è cambiato. Oggi, mentre i Paesi membri si contendono le poltrone di vertice della Commissione europea, il ruolo di commissario per la Salute sembra essere diventato l’ultimo dei desideri. Come riporta Politico, è sempre più probabile che finisca nelle mani di un piccolo Paese UE senza particolare interesse per il settore, e a un commissario privo di esperienza in materia.

La salute passa in secondo piano

È la parabola discendente di un settore che, dopo essere stato catapultato in cima all’agenda europea dalla pandemia, ora si ritrova a combattere per non precipitare nell’irrilevanza. Finanza e difesa lo stanno spingendo ai margini, mentre gli operatori del settore assistono impotenti al declino di un’opportunità che sembrava d’oro.

La European Public Health Alliance (EPHA) di Bruxelles non usa mezzi termini: “Le lezioni sulla centralità della salute in ogni area politica sembrano essere andate perse nella fretta di voltare pagina dopo la pandemia”. E non è difficile capire perché: con un neofita al timone, chi si occuperà dei dossier cruciali come la massiccia revisione delle regole che governano industrie come quella farmaceutica, un settore in cui l’Europa – come ha recentemente ammonito l’ex presidente della BCE Mario Draghi – è già in affanno rispetto a Stati Uniti e Asia

Il paradosso è che i due candidati più ovvi per il ruolo si siano tirati indietro. Il ministro della Salute belga Frank Vandenbroucke, apprezzato per la sua lotta al tabagismo, e l’ex ministro della Salute maltese Chris Fearne, stimato per il suo lavoro sulla resistenza antimicrobica, sono fuori dai giochi. Il primo per una questione di quote rosa, il secondo per uno scandalo nazionale. Tra i nomi rimasti in lizza, nessuno sembra avere l’esperienza o l’interesse necessari per il ruolo.

Non solo una questione di nomi

Ma non è solo una questione di persone. I tagli al programma EU4Health, che ha visto sfumare un miliardo dei suoi 5,3 miliardi di euro per sostenere l’Ucraina, sono un altro segnale preoccupante. Un programma che ha finanziato di tutto, dalla ricerca sul long-Covid alle misure per trattenere gli infermieri, e che potrebbe non essere rinnovato dopo il 2027.

“Investire nella salute e nel benessere è una scelta ovvia da ogni punto di vista, inclusi quello finanziario, del mercato del lavoro, della coesione sociale e della democrazia”, afferma Silvia Ganzerla di EuroHealthNet. “La pandemia di Covid-19 è stata un campanello d’allarme per l’Europa, ma sembra che le lezioni siano già state dimenticate”.

C’è chi, come il deputato europeo del PPE Tomislav Sokol, vede in questi tagli un messaggio pericoloso: “Si sta mandando il messaggio che l’assistenza sanitaria non è importante, ed è un segnale contro cui dobbiamo assolutamente lottare” dice. 

In tutto questo, l’unica speranza sembra essere riposta nella presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Sarà lei, in ultima analisi, a decidere quanto peso dare alla salute nel prossimo mandato. E qualche segnale positivo c’è: nel suo primo discorso ha accennato all’impatto dei social media sulla salute mentale dei giovani e ha promesso di affrontare gli attacchi informatici alle infrastrutture ospedaliere nei primi 100 giorni.

Basterà? In un’Europa che sembra aver già dimenticato le lezioni della pandemia, con un Parlamento sempre più polarizzato e una destra in ascesa, il rischio è che la salute torni ad essere il fanalino di coda dell’agenda politica. E questa volta, non ci sarà nessun virus a ricordarci quanto sia fondamentale.

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Da “tradimento” a “dovere”: l’incredibile piroetta di Bucci

In un’inaspettata svolta degli eventi il sindaco di Genova Marco Bucci ha annunciato la sua candidatura alla presidenza della Regione Liguria, contraddicendo le sue precedenti dichiarazioni e sollevando interrogativi sulla coerenza politica e l’integrità delle promesse elettorali.

L’11 settembre, Bucci ha dichiarato su Facebook: “Ho deciso di candidarmi alla presidenza della Regione Liguria”. Una mossa che ha lasciato attoniti molti, considerando le sue ferme assicurazioni di appena due settimane prima. In un’intervista a Libero, Bucci aveva categoricamente escluso questa possibilità: “Mi sarebbe piaciuto ma ho subito risposto di no per due ragioni: ho preso un impegno con i genovesi fino al 2027 e sarebbe un tradimento non rispettarlo e poi non godo di ottima salute e non potrei garantire il mio impegno assoluto per i prossimi cinque anni. Candidarsi pertanto avrebbe significato prendere in giro gli elettori”.

La piroetta di Bucci: via dal Comune per la Regione

È l’ennesimo politico capace di passare dal definire una potenziale candidatura una “presa in giro degli elettori” all’abbracciarla con entusiasmo nel giro di qualche ora. La giustificazione offerta suona come un cliché: “Negli ultimi giorni ho ricevuto richieste da tutti i leader politici del centrodestra e dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni con la quale ho avuto un colloquio lungo e amichevole”.

Ciò che rende questa vicenda ancora più controversa sono le condizioni di salute di Bucci, che lui stesso aveva citato come ostacolo. Il sindaco ha recentemente rivelato di essere affetto da un “cancro metastatico alle ghiandole linfatiche nel collo”, per il quale è in cura. Appare difficile comprendere come possa, in buona fede, garantire ora quell’”impegno assoluto per i prossimi cinque anni” che solo due settimane fa riteneva impossibile.

Il caso Bucci: specchio di un fenomeno più ampio

La storia di Bucci non è un caso isolato. Come riportato da Pagella Politica, le recenti elezioni europee hanno visto scenari simili. Carlo Calenda di Azione e Emma Bonino di Più Europa avevano criticato l’idea di candidarsi senza l’intenzione di mantenere il seggio, definendola una “presa in giro” degli elettori. Eppure, entrambi hanno finito per fare esattamente ciò che avevano condannato.

Al di là delle vaghe giustificazioni il comportamento indubbiamente mina la credibilità dei rappresentanti politici. Le promesse fatte ai cittadini e le dichiarazioni dei leader sembrano perdere valore quando vengono così facilmente accantonate per nuove opportunità politiche.

Il caso Bucci però è emblematico di un problema più ampio nella politica italiana: la tendenza a considerare le promesse elettorali come semplici strumenti di convenienza, facilmente accantonabili quando si presentano nuove opportunità. Questo atteggiamento non solo erode la fiducia dei cittadini nel processo democratico, ma alimenta anche il cinismo e l’apatia politica.

L’effetto domino: le conseguenze per Genova e la Liguria

La decisione di Bucci potrebbe avere conseguenze significative per Genova. Se dovesse vincere, la città si troverebbe ad affrontare elezioni anticipate in primavera, con Pietro Piciocchi come sindaco ad interim. Un cambio di leadership che potrebbe interrompere progetti e iniziative in corso, proprio quelli che Bucci aveva promesso di portare a termine.

E mentre il sindaco si prepara a sfidare Andrea Orlando nelle prossime elezioni regionali i cittadini liguri e genovesi si trovano di fronte a una situazione complessa. La fiducia in un leader che ha così rapidamente cambiato posizione su una questione fondamentale è inevitabilmente messa a dura prova.

Qualunque sia l’esito delle elezioni, una cosa è certa: per l’ennesima volta le promesse vengono stracciate in nome di “richieste superiori”. Non stupisce che i cittadini, lì in basso, poi vengano colti dalla voglia di astenersi. 

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Abbiamo scherzato

Lui aveva giurato di essere sicuro della sua innocenza. L’avevano giurato, mettendo la mano sul fuoco, anche molti dei politici della maggioranza e molte autorevoli firme di giornali di destra (e del cosiddetto Terzo polo). Il ritornello era sempre lo stesso: “giustizia a orologeria”, “accuse infondate” e tutta la letteratura dei garantisti de noantri, sempre pronti a difendere la categoria.

Invece Giovanni Toti, ex presidente della Regione Liguria, si è accordato, attraverso il suo avvocato Stefano Savi, con la Procura di Genova per patteggiare (che tecnicamente non è un’ammissione di colpa) una pena di due anni e un mese, da scontare tramite 1.500 ore di lavori di pubblica utilità che andranno definiti prossimamente, e la confisca di 84.100 euro.

Ora toccherà al gup valutare la congruità della pena patteggiata ma è evidente che il professato innocente ci abbia ripensato spiazzando persino i suoi supporter. L’ex presidente della Liguria si dice “amareggiato” per “non avere perseguito fino in fondo” le sue “ragioni di innocenza” ma un innocente che cerca il patteggiamento è una favola troppo grossa anche per questo fantascientifico centrodestra.

Oggi sui giornali non leggerete nessun mea culpa. La responsabilità ricade sempre sulla magistratura sporca e cattiva che ha costretto il povero politico “a scendere a patti”. Emerge comunque una considerazione: in questo Paese di questi tempi vanno in carcere i ragazzotti di Caivano, vanno in carcere i sospettati ingiustamente di terrorismo e i poveri cristi. Gli altri non ci finiscono quasi mai.

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Pensioni nel mirino, giovani abbandonati

Il governo dei “patrioti” colpisce ancora. E come sempre, a pagare il conto sono i soliti noti: i pensionati. Mentre gli evasori fiscali continuano indisturbati a svuotare le casse dello Stato, l’esecutivo potrebbe decidere di mettere nuovamente le mani nelle tasche di chi ha lavorato una vita intera.

La manovra che si profila all’orizzonte avrebbe del grottesco, se non fosse tragicamente reale. Dopo aver già alleggerito le pensioni di 10 miliardi quest’anno, il governo starebbe pensando di replicare il meccanismo anche per il 2025, sottraendo un altro miliardo ai nostri anziani. 

Ma facciamo due conti, tanto per capirci. Una pensione netta di 1.732 euro al mese potrebbe subire un taglio complessivo di 968 euro. Per chi ne prende 2.029, la perdita salirebbe a 3.571 euro. E per i “fortunati” che arrivano a 2.646 euro netti? Ebbene, potrebbero dire addio a ben 4.534 euro. 

Insomma, mentre i grandi evasori brindano e i capitali continuano a fuggire all’estero, il governo pensa bene di raschiare il fondo del barile colpendo chi ha già dato. E non una, ma due, tre volte. Perché questi tagli, proiettati sull’aspettativa di vita media, potrebbero tradursi in perdite da capogiro: dai quasi 9.000 euro per i pensionati meno abbienti, fino a oltre 44.000 euro per quelli più “ricchi”.

Ma tranquilli, ci rassicurano dal governo: è tutta una questione di “solidarietà tra generazioni”. Peccato che di investimenti per i giovani non si veda nemmeno l’ombra. L’unica cosa certa è che si continuerà a penalizzare chi ha già dato, mentre chi evade e si arricchisce alle spalle della collettività può dormire sonni tranquilli.

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La forma, la sostanza e Mussolini

In un’intervista a Lorenzo De Cicco di Repubblica la nipote di Benito Mussolini, Rachele, annuncia di lasciare Fratelli d’Italia perché si ritiene più «moderata» del partito di Giorgia Meloni: «non sono così a destra», spiega.

Tra i motivi della distanza ci sarebbe lo ius scholae che Mussolini ritiene «naturale» per chi ha completato «un ciclo di studi di 10 anni», per «un ragazzo che magari è nato in Italia e parla il dialetto romano meglio di me!»  Spiega Mussolini che sarebbe «un modo per sedare i problemi di integrazione, che altrimenti si acuiscono. Ed è anche un arricchimento se le culture s’incontrano, nel rispetto delle tradizioni». 

Rachele Mussolini sottolinea anche l’ipocrisia a destra sulla cosiddetta famiglia tradizionale: «se due persone si vogliono bene, devono avere diritti». La consigliera comunale a Roma ha raccontato anche di avere ricevuto il “benvenuta” dalla più nota sorella Alessandra, anche lei traslocata in Forza Italia per divergenze con Giorgia Meloni per le sue posizioni considerate troppo estreme. 

Rachele Mussolini fino a poco tempo fa scaldava i cuori degli elettori meloniani esponendo cartelli contro l’anniversario della Liberazione nazifascista (celebre il suo “il 25 aprile festeggio solo San Marco”) e puntando sulla nostalgia nera. 

È significativo però che Meloni non abbia candidato alle elezioni europee Rachele Mussolini – così dicono – per il suo cognome che avrebbe appannato la sua percezione di “moderata” a Bruxelles. Sempre a proposito della forma e della sostanza. 

Buon venerdì. 

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In gol con la trasparenza, l’esempio del Porto

Una delle più prestigiose squadre del Portogallo e del calcio europeo ha deciso di intraprendere una strada destabilizzante per tutti gli altri: mettere online tutti i suoi dati economici a partire dai compensi dei suoi dirigenti, le commissioni agli agenti dei calciatori, i dettagli dell’accordo che il club ha preso con i gruppi ultras e le transazioni di ogni singolo pagamento. È il culto della trasparenza – diventato un feticcio in politica e nell’imprenditoria – che viene praticato senza remore in una società calcistica che sull’opacità finanziaria aveva costruito per anni il suo successo.

Autore della rivoluzione è il nuovo presidente André Villas Boas, ex allenatore vincente della squadra. Il suo predecessore Jorge Nuno Lima Pinto Da Costa è stato uno dei presidenti più vincenti nella storia del calcio ed è stato un antesignano della finanziarizzazione delle società calcistiche legandosi a discutibili fondi d’investimento e ad aziende che pur non avendo nulla a che vedere con il calcio hanno acquisito in tutto o in parte i diritti economici di sportivi professionisti al fine di ricavare profitto da eventuali trasferimenti futuri.

Con la promessa della trasparenza Villas Boas ha vinto le elezioni presidenziali del club con l’80% dei voti, seppellendo il suo predecessore che si era presentato alla sfida. Immaginate cosa potrebbe accadere se il buon esempio dei portoghesi arrivasse qui in Italia dove il calcio è diventato uno dei simboli del degrado economico e etico del Paese. Immaginate cosa accadrebbe se alle società calcistiche, di rilevante peso nella discussione pubblica, venisse chiesto di sottomettersi alla verifica come accade in altri campi. Sarebbe uno splendido autogol.

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Brutto segnale dalla Germania: Scholz resuscita il Muro e seppellisce l’Europa

C’era una volta un’Unione Europea che sognava di abbattere frontiere. Poi è arrivata la paura, quella cieca e irrazionale, e quel sogno si è trasformato in un incubo fatto di filo spinato e muri. L’incubo continua. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz, in preda al panico elettorale, ha deciso di gettare alle ortiche decenni di conquiste europee per inseguire i fantasmi dell’estrema destra. Dal 16 settembre, la Germania reintrodurrà i controlli alle frontiere con tutti i nove paesi confinanti. Un gesto tanto simbolico quanto inutile, che fa felice solo Viktor Orbàn e i suoi sodali nazionalisti.

La Germania e il domino delle frontiere: l’effetto Scholz sull’Europa

Come ci ricordano David Carretta e Christian Spillmann nel loro Mattinale Europeo, è bastato il successo di Alternativa per la Germania in un paio di elezioni regionali per far crollare il castello di carte dell’integrazione europea. Scholz, terrorizzato dallo spettro di AfD, ha deciso di giocare la carta più facile e demagogica: fingere di poter sigillare ermeticamente i confini nazionali. La verità è che “nell’Ue è impossibile sigillare le frontiere, a meno di non sacrificare il mercato unico”. Scholz lo sa benissimo, ma preferisce rassicurare l’elettorato con l’illusione di una Germania-fortezza inespugnabile.

Il risultato è un effetto domino che rischia di far crollare uno dei pilastri dell’Unione: l’area Schengen. L’Olanda, sotto la spinta dell’ultradestra di Geert Wilders, si prepara a seguire l’esempio tedesco. La Polonia minaccia ritorsioni. L’Austria alza le barricate. E così, mattone dopo mattone, si ricostruisce quel muro che credevamo di aver abbattuto per sempre nel 1989.

La sinistra europea, ancora una volta, cade nella trappola di rincorrere la destra sul suo terreno. Pensano di poter battere i populisti giocando la loro stessa partita ma finiscono solo per legittimarli e rafforzarli. È la solita, triste storia: più la sinistra si sposta a destra, più la destra si radicalizza. E alla fine l’unico vincitore è l’estremismo.

Nel frattempo la Commissione europea balbetta timidi richiami alla “proporzionalità” delle misure, ma non ha il coraggio di alzare davvero la voce contro la deriva securitaria tedesca. Bruxelles, terrorizzata dall’idea di scontentare Berlino, si limita a raccomandare che i controlli siano adottati come “ultima risorsa”. Ma ormai è tardi: il vaso di Pandora è stato scoperchiato.

Schengen sotto assedio: il prezzo della paura

E mentre i grandi della politica giocano la loro partita a scacchi, sono i cittadini comuni a pagarne il prezzo. Come ci racconta Vincenzo Genovese per Euronews gli abitanti delle zone di confine guardano con apprensione al ritorno delle frontiere. “Non ho niente da nascondere, ma non lo trovo molto giusto. Dovrebbero evolversi, non tornare al passato”, dice Marijke Van Caekenberghe, una cittadina belga intervistata al confine con la Germania.

La decisione tedesca si inserisce in un contesto già teso. Solo nel 2024, dieci Paesi dell’area Schengen hanno reintrodotto controlli ad alcune delle proprie frontiere, per motivi di lotta al terrorismo e controllo dell’immigrazione irregolare. La Germania, in particolare, ha esteso i controlli a tutti i suoi confini terrestri per i prossimi sei mesi, dal 16 settembre 2024 al 15 marzo 2025.

Quella tedesca non è una mossa isolata. L’Austria ha controlli in vigore ai confini con Slovenia, Ungheria e Slovacchia dal 2015, introdotti per cercare di fermare i flussi in arrivo via la rotta dei Balcani. La Francia ha reintrodotto controlli a luglio, mentre quelli con Svizzera, Polonia e Repubblica Ceca sono in vigore da giugno.

Il Codice Schengen prevede la possibilità di reintrodurre temporaneamente i controlli alle frontiere in caso di minaccia alla sicurezza nazionale o per ragioni di ordine pubblico. Tuttavia, come sottolineano Carretta e Spillmann, ciò che dovrebbe essere una misura temporanea ed eccezionale rischia di diventare la norma.

Dal settembre 2015, quando la Germania per prima reintrodusse i controlli alle frontiere per fermare i flussi di rifugiati sulla rotta dei Balcani, la lista delle notifiche si è gonfiata sempre più. Da 37 casi di reintroduzione temporanea dei controlli alle frontiere registrati tra il 2006 e il 2015, nei nove anni successivi si è passati a 442 notifiche.

La svolta in Germania e i reali rischi per l’Europa

Il rischio concreto è che questa tendenza porti a un progressivo smantellamento dell’area Schengen. L’Ungheria e i Paesi Bassi chiedono già un “opt-out” dalle politiche migratorie comuni dell’UE. Il premier ungherese Viktor Orban, in particolare, sta spingendo per una gestione esclusivamente nazionale delle frontiere.

Tutto questo avviene nonostante gli sforzi fatti negli ultimi anni per rafforzare la gestione comune delle frontiere esterne dell’UE. La Commissione von der Leyen aveva presentato un nuovo Patto su migrazione e asilo come soluzione ai problemi di gestione dei flussi migratori. Tuttavia il dispositivo – che prevede centri chiusi ed espulsioni più sbrigative sul modello delle isole in Grecia – non sarà pienamente operativo prima di due anni.

Sullo sfondo Orbàn e i suoi amici sorridono soddisfatti. 

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