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Stretta contro gli attivisti per il clima, così l’Italia sceglie la parte sbagliata della storia

In un’escalation preoccupante della stretta repressiva contro i movimenti ambientalisti, la Questura di Roma ha richiesto l’applicazione della sorveglianza speciale per Giacomo Baggio, attivista di Ultima Generazione. Una misura draconiana, solitamente riservata a pericolosi criminali, che si abbatte su un giovane la cui unica “colpa” è aver partecipato a manifestazioni pacifiche per la giustizia climatica.

La richiesta prevede due anni di impossibilità di allontanarsi dal proprio Comune di residenza, coprifuoco notturno dalle 20:00 alle 7:00, obbligo di firma quotidiano e divieto di partecipare a qualsiasi manifestazione a sfondo politico. Un provvedimento che, se confermato, limiterebbe drasticamente la libertà personale di Baggio.

“Si tratta di una richiesta molto dura, il tipo di sorveglianza più limitativo della libertà personale”, spiega l’avvocato Paola Bevere, difensore di Baggio. “Questa richiesta si basa sul sospetto che questo attivista, tra l’altro incensurato, sia pericoloso per la sicurezza pubblica. Come legali sosteniamo che queste persone non possono essere equiparate ai mafiosi”.

Dalla sorveglianza speciale al Ddl anti-Gandhi

Il caso di Baggio non è isolato, ma si inserisce in un contesto più ampio di criminalizzazione del dissenso. Proprio in questi giorni, la Camera sta discutendo il cosiddetto “Ddl anti-Gandhi”, un provvedimento che inasprisce le pene per il blocco stradale e introduce nuove fattispecie di reato specificamente modellate sulle proteste ambientaliste. 

Una strategia repressiva che mira a colpire l’intero movimento per la giustizia climatica. L’obiettivo sembra essere quello di creare un effetto deterrente, il chilling effect, per scoraggiare la partecipazione alle mobilitazioni. Un approccio miope che, anziché affrontare le cause del disagio sociale, cerca di soffocare le voci di chi chiede un cambiamento urgente di fronte alla catastrofe climatica.

Disobbedienza civile sotto attacco: il caso emblematico di Giacomo Baggio

La vicenda di Baggio è emblematica della deriva autoritaria. Il 33enne consulente legale veneto si è distinto per il suo impegno nella difesa dell’ambiente attraverso azioni di disobbedienza civile nonviolenta. Il 13 maggio scorso, dopo una protesta pacifica, è stato fermato dalla polizia e, secondo la sua denuncia, maltrattato in commissariato.

“Quello che ho visto non è l’applicazione della legge che ho studiato all’università”, racconta Baggio. “La siccità sta facendo danni ovunque e il primo atto discusso alla Camera dopo la pausa estiva è il Ddl Anti-Gandhi. Non serve essere ambientalisti per provare indignazione di fronte alla devastazione del nostro territorio. Mi rifiuto di tacere davanti a un governo che pensa solo a silenziare l’opposizione”, afferma Baggio. “Il problema non è la disobbedienza civile ma l’obbedienza davanti a questa assurdità”.

La richiesta di sorveglianza speciale per Baggio sarà discussa il 14 ottobre presso il Tribunale di Roma. Ultima Generazione ha già annunciato un presidio di solidarietà. Sarà un banco di prova importante per verificare lo stato di salute della nostra democrazia. La posta in gioco va ben oltre il destino di un singolo attivista. Quello che è in discussione è il diritto stesso al dissenso, la possibilità di esprimere pacificamente il proprio disaccordo con le politiche governative. Un diritto fondamentale in ogni società democratica.

La vicenda di Baggio ci pone di fronte a un interrogativo cruciale: chi dovrebbe essere veramente sorvegliato? Gli attivisti che, con mezzi pacifici, cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica su una minaccia esistenziale come la crisi climatica O piuttosto un governo che sembra più interessato a reprimere il dissenso che ad affrontare le sfide epocali del nostro tempo?

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Buio Fitto

La politica è un esercizio semplice nei suoi fondamentali. Nell’atto di composizione di un governo i voti marcano una linea tra chi accetta le regole di ingaggio e decide di appoggiarne la guida, evidentemente condividendo linee e contenuti. Dall’altra parte ci sono coloro che legittimamente ritengono che la proposta sia irricevibile e decidono quindi di stare all’opposizione in attesa di risultare più convincenti con la loro proposta.

Il governo italiano, rappresentato dalla sua presidente del Consiglio, ha deciso che il programma proposto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen non meritasse l’appoggio. Il partito di riferimento di Fratelli d’Itala in Europa (Ecr) si è seduto dalla parte dell’opposizione. I Sovranisti europei a cui fa riferimento la Lega di Matteo Salvini (altro partito di governo italiano) ha iniziato la sua opera di mostrificazione dell’Unione europea e di von der Leyen un secondo dopo la chiusura delle urne. Il terzo partito della maggioranza italiana, Forza Italia, con il Ppe invece ha scelto di stare in maggioranza. 

L’esercizio semplice della politica ci dice che è piuttosto curioso che la premier che votò contro von der Leyen pretenda per l’Italia un posto di peso nella Commissione a cui si oppone, tanto più per un membro del suo stesso partito, il ministro Fitto. Rifugiarsi dietro la “rilevanza dell’Italia” è un patetico tentativo di deresponsabilizzare le proprie scelte politiche. Un paese è credibile per quanto è credibile il suo governo e per come votano i suoi leader.

Questo stanno facendo notare a Meloni. Solo questo. 

Buon giovedì.

Nella foto: Raffaele Fitto, Parlamento europeo, 3 luglio 2019

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Bucci candidato in Liguria, sarà Renzi contro Renzi?

Matteo Renzi, 25 maggio 2022: “Orgoglioso di sostenere Marco Bucci che è un ottimo Sindaco di Genova e che continuerà ad esserlo anche con il sostegno di Italia Viva. Grazie a Lella Paita per il suo lavoro”. Quello stesso giorno, intervistato da il Secolo XIX, su Bucci dice Renzi: “Ci ha convinti lui, la sua serietà, il suo stile di governo. È un sindaco civico formidabile soprattutto nella sua credibilità sulle infrastrutture come abbiamo visto per il Ponte Morandi”. 

Mercoledì 25 maggio 2022: “Bucci si è rimboccato le maniche, – prosegue Renzi – ha rimesso a posto la speranza di una città, ha delle idee che noi apprezziamo, rispetto allo sguardo cinico del M5s, preferiamo quello civico di Marco Bucci”. Poi, il 26 novembre 2022: “Bucci? E’ bravo, non vogliamo minimamente farlo cadere. W Bucci, che possa governare bene”. 

Il giornalista Mario Lavia (sempre oltremodo amichevole con Renzi) su Linkiesta (sempre oltremodo amichevole con Renzi) il 21 aprile  del 2022 scriveva un sentitissimo articolo per spiegarci che l’appoggio del leader di Italia Viva a Bucci “è uno strappo politico e simbolico, ma viene consumato in nome della coerenza (prima i programmi, poi le bandiere) e del fatto che, in realtà, il sindaco non ha niente a che vedere con le istanze di Lega e Fratelli d’Italia”. “È da chiedersi infatti – scriveva Lavia – cosa c’entri un amministratore serio come Marco Bucci con i sovranisti che si sono sempre mostrati più che inadeguati a governare le città, o anche solo a candidarsi per diventare sindaci”. 

Ora Marco Bucci è il candidato del centrodestra per le regionali in cui Renzi vorrebbe invece abbracciare il Pd e il M5S. Non è tutto bellissimo?

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Ius Scholae, abbiamo scherzato! Alla prova del voto Forza Italia batte in ritirata

L’estate italiana del 2024 aveva il sapore della speranza. Forza Italia, con il piglio di chi vuole lasciare il segno, si era fatta portavoce dello Ius scholae. Un’estate di promesse, di diritti civili cantati come tormentoni da spiaggia. Ma si sa, le stagioni cambiano e con loro anche il clima politico.

Oggi l’aula della Camera è stata palcoscenico di una farsa in tre atti. Primo atto: la proposta dello Ius scholae. Secondo atto: il voto. Terzo atto: 169 voti contrari, 126 favorevoli, 3 astenuti. Sipario. E Forza Italia In platea ad applaudire il “no”.

Ius scholae, la grande illusione: dall’estate dei diritti all’autunno del ripensamento

Paolo Emilio Russo, nelle vesti di portavoce azzurro, ha tentato di spiegare questa metamorfosi politica. “Stiamo lavorando a un testo”, ha detto, come se stesse annunciando l’arrivo di un’opera magna. “Vogliamo semplificare le procedure”, ha aggiunto, mentre la semplificazione più evidente sembrava essere quella delle promesse estive, ormai ridotte a un lontano ricordo.

Secondo Russo “si tratta di un tema di democrazia e diritti e non di un tema di sicurezza nazionale”. E Antonio Tajani, il leader che parlava di diritti “sacrosanti”? Il suo nome è riecheggiato nell’Aula come un’eco distante, evocato da Russo in un tentativo di ricucire il filo di una coerenza sempre più sottile. “È stata Forza Italia,” ha ricordato Russo, “a promuovere, questa estate, un confronto sul tema”. Un confronto che, evidentemente, si è concluso con un nulla di fatto.

Parole e promesse da Forza Italia che si scontrano contro quelle degli alleati. “La Lega fermerà, come ha già fatto in passato, ogni tentativo in questa direzione. Non a caso stiamo preparando una proposta di legge che va verso una maggiore severità nel rilascio delle cittadinanze”, tuona il leghista Igor Iezzi. 

Alfonso Colucci del M5S ha commentato quei “proclami estivi” definendoli “diversivi da ombrellone”. I politici che giocano con i diritti come bambini con i castelli di sabbia, destinati a svanire con la prima marea, in effetti ci sono tutti. Colucci ha poi articolato una critica più ampia: “Dunque i proclami estivi di Forza Italia sullo Ius Scholae erano solo diversivi per ingannare il tempo sotto l’ombrellone. Alla prova dei fatti il partito di Tajani si è ritirato in buon ordine sotto gli ordini di Meloni e Salvini e ha votato contro gli emendamenti che avrebbero introdotto questo strumento di civiltà.”

Le reazioni: tra critiche e delusione, l’eco di una promessa infranta

Il deputato pentastellato ha continuato, delineando l’importanza dello Ius scholae: “Chi meglio della scuola può certificare l’avvenuta integrazione dei bambini figli di immigrati? L’introduzione dello Ius scholae sarebbe un volano per realizzare in Italia un’integrazione sana, reale e sicura. Non è vero, come dicono alcuni, che non vi è differenza tra chi ha la cittadinanza e chi non ce l’ha. C’è un gap di diritti e di difficoltà burocratiche che crea una condizione di ingiustizia permanente.”

Per Mauro Berruto del Pd conta l’immagine della nazionale di pallavolo femminile. Un’Italia vincente, diversa, unita. Un’Italia che esiste già, ma che la politica sembra faticare a riconoscere. “Un’immagine conta più di mille parole”, ha detto, dipingendo un quadro di “un’Italia migliore, aperta dove non ci sono differenze”. ”Questa Italia  – ha spiegato il dem – è anche in ogni settore giovanile sportivo e nelle scuole dove ragazzi e ragazze hanno colore della pelle, religione, provenienza geografica differenti. Perché questi ragazzi che vivono e studiano in Italia non sono italiani?”

Ouidad Bakkali, sempre del Pd, ha chiuso il cerchio con una metafora matematica: “Sosteniamo qualsiasi emendamento che migliori anche solo di un centimetro la legge del ’92”. Un centimetro che, nella geometria politica di Forza Italia, sembra essere diventato una distanza incolmabile.

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Autonomia differenziata, ecco il manifesto di Flick per il referendum

Il 10 aprile 2024, come un orologio di precisione in una stanza di orologi fuori sincrono, Giovanni Maria Flick ha fatto il suo ingresso nella commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati. Il presidente emerito della Corte costituzionale, recentemente eletto presidente del Comitato promotore del referendum sull’Autonomia differenziata, portava con sé non solo il peso della sua esperienza ma anche un fardello di interrogativi sul disegno di legge per l’autonomia differenziata delle Regioni.

Flick, con la meticolosità di un archivista e l’acume di un filosofo del diritto, ha iniziato a dipanare la matassa del progetto di riforma, mettendo in luce le sue potenziali criticità. Il disegno di legge, che mira ad attuare l’articolo 116, comma 3, della Costituzione, è stato oggetto di un intenso dibattito parlamentare. Secondo Flick, questa attuazione rischia di riaprire le fratture mai del tutto sanate della riforma del Titolo V del 2001.

Autonomia, le criticità costituzionali e i Lep

“La riflessione sulle ulteriori autonomie da riconoscere alle Regioni dovrebbe essere portata a livello costituzionale”, ha sottolineato Flick, “e non essere devoluta alla legge ordinaria”. Un’osservazione che risuona come un monito: si sta forse cercando di ridisegnare l’architettura costituzionale con strumenti inadeguati?

Sui Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep), Flick è stato particolarmente incisivo: “Non basta elencarli, occorre garantirne l’effettività e le risorse su tutto il territorio nazionale”. Ha poi aggiunto: “La mancata determinazione organica dei Lep rischia di consolidare e persino esasperare le disuguaglianze già esistenti tra le regioni”.

Riguardo al ruolo del Parlamento, Flick ha lanciato un allarme: “Il ruolo del Parlamento appare sminuito. Il disegno di legge sembra conferire un potere preminente al Governo, e in particolare al presidente del Consiglio”. Ha poi specificato: “Questo sbilanciamento dei poteri potrebbe minare il principio di rappresentanza democratica alla base del nostro sistema costituzionale”.

Rischi finanziari e pericolo separatista

Sulla questione finanziaria, il presidente emerito è stato categorico: “La disciplina dell’Autonomia differenziata rischia di risolversi in un’illusione che non tiene conto dei vincoli di finanza pubblica”. Ha poi elaborato: “Non è chiaro quali risorse dovranno contribuire al sostentamento delle iniziative di trasferimento e al loro mantenimento nel tempo. Questa incertezza potrebbe tradursi in un aggravamento delle disparità economiche tra le Regioni”.

Flick ha anche messo in guardia contro il rischio di derive separatiste: “C’è il pericolo concreto di una ‘prospettiva separatista’ verso la Padania, con il passaggio da un regionalismo differenziato e solidale a uno competitivo”. Ha poi aggiunto: “Questo scenario metterebbe a repentaglio i principi costituzionali di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, nonché quello perequativo di solidarietà”.

Un altro punto critico sollevato da Flick riguarda la distinzione tra funzioni legate ai Lep e altre funzioni: “Il criterio di distinzione non è esplicitato chiaramente nel disegno di legge. Questa ambiguità potrebbe portare a interpretazioni discrezionali e potenzialmente dannose per l’equità tra le Regioni”.

Infine, Flick ha sottolineato l’importanza di una visione d’insieme: “Il trasferimento di funzioni, sia per quelle relative ai Lep che per le altre, richiede comunque l’individuazione di una copertura finanziaria globale. Senza questa visione complessiva, rischiamo di creare un sistema a macchia di leopardo, dove alcune regioni prosperano a discapito di altre”.

Le sue domande, precise come bisturi, rimangono sospese, in attesa di risposte che non arriveranno. L’intervento di Flick anche oggi, dopo mesi, è prezioso perché contiene l’architettura del comitato referendario che spaventa così tanto il ministro Calderoli e il governo. La posta in gioco? Niente meno che il futuro dell’assetto istituzionale del paese. Un dettaglio da poco.

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Altro che Piano Marshall: mentre l’Italia esulta, l’Ue boccia il Piano di Draghi per l’Ue

Mentre l’Italia si abbandona all’ennesimo delirio di onnipotenza, l’Europa guarda con freddo pragmatismo al “piano Marshall” di Mario Draghi. Le prime pagine dei quotidiani nazionali grondano entusiasmo: “Ue, il piano Marshall di Draghi” (La Stampa), “L’Ue rischia l’agonia” (Repubblica), “Appello per salvare l’Europa” (Corriere della Sera). Il messaggio è chiaro: solo Super Mario può salvare il Vecchio Continente. Peccato che, come spesso accade, la realtà sia ben diversa dalle fantasie italiche. Politico, in un articolo del 10 settembre, smonta pezzo per pezzo l’illusione di un’Europa pronta a seguire ciecamente le ricette dell’ex premier italiano.

Draghi dipinge un quadro fosco: “Diventeremo una società che fondamentalmente si restringe”, dice, parlando di una “torta che diventa sempre più piccola”. La sua soluzione? Un piano da 800 miliardi di euro all’anno tra investimenti pubblici e privati. Sulla carta, una rivoluzione. Nella pratica, un’utopia.

Il piano Draghi: tra ambizione italiana e freddezza europea

Il primo ostacolo, ci ricorda Politico, è la macchina decisionale dell’Ue, un labirinto di veti incrociati e interessi nazionali. Ma il vero scoglio è il denaro. Draghi propone un aumento del debito comune, idea che fa rabbrividire i paesi “frugali” del nord. Tanto che il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, appena tre ore dopo la presentazione del piano, ha già messo in chiaro che “la Germania non sarà d’accordo”.

È il solito valzer europeo: nord contro sud, austerità contro spesa. E mentre si balla, l’Europa perde terreno nei confronti di Stati Uniti e Cina. Ma c’è di più. Politico sottolinea come il problema non sia solo politico, ma strutturale. L’Ue ha una produttività inferiore agli Usa, è in ritardo nella transizione digitale e ha un sistema di ricerca e sviluppo frammentato. Problemi che non si risolvono con un colpo di bacchetta magica, nemmeno se a impugnarla è Mario Draghi.

L’Europa al bivio: stagnazione strutturale vs riforme radicali

Il confronto con gli Stati Uniti è impietoso. Mentre l’America ha saputo reinventarsi, passando dall’industria automobilistica al digitale, l’Europa è rimasta ancorata al passato. “Le aziende leader nella ricerca e negli investimenti sono le stesse di 20 anni fa: le auto”, dice Draghi. Un’ammissione di fallimento che nessun piano, per quanto ambizioso, può cancellare dall’oggi al domani.

E qui sta il punto: mentre l’Italia si crogiola nel mito di Draghi salvatore, l’Europa si scontra con una realtà fatta di ostacoli apparentemente insormontabili. Non si tratta di pessimismo, ma di pragmatismo. Come ricorda Politico, “una crescita più lenta dell’1% è quasi impercettibile in un anno, ma su un decennio o due diventa un divario incolmabile”.

In questo contesto, discutere del piano Draghi sembra quasi un esercizio di futilità. Non perché le sue idee siano valide o meno ma perché le condizioni per realizzarle semplicemente non esistono. L’Europa è un gigante con i piedi d’argilla, paralizzato da divisioni interne e incapace di prendere decisioni rapide e coraggiose.

Mentre i media italiani sognano una nuova età dell’oro targata Draghi la realtà europea ci ricorda che i miracoli, in economia come in politica, non esistono. Il “Whatever it takes” che ha salvato l’euro non può salvare un’Europa che non vuole essere salvata.

Non c’è tempo per discutere di piani irrealizzabili, forse sarebbe il caso di chiedersi perché l’Europa si trova in questa situazione. E soprattutto se ha ancora senso parlare di un’Unione che di unito ha ben poco, se non la moneta. L’Ue che non riesce a essere unione per le evidenti differenze tra gli interessi particolari degli stati membri è un problema atavico che non si risolve con un piano Marshall. 

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Dall’arresto al CPR: l’odissea dei palestinesi ingiustamente accusati di terrorismo

A marzo di quest’anno aveva fatto molto rumore l’arresto di tre palestinesi residenti in Italia. Secondo il gip distrettuale de L’Aquila Anan Kamal Afif Yaeesh, Ali Saji Ribhi Irar e Mansour Doghmosh stavano progettando un’azione terroristica da compiersi nell’insediamento israeliano di Avnei Hefetz, in Cisgiordania mediante l’utilizzo di un’autobomba. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere era stata emessa dal gip, su richiesta della Procura – Direzione distrettuale Antimafia e Antiterrorismo del capoluogo abruzzese in coordinamento con la Procura nazionale Antiterrorismo.

“Soddisfazione per la cattura all’Aquila di tre pericolosi terroristi, operazione che conferma il continuo impegno e la grande capacità investigativa delle nostre Forze dell’ordine”, diceva l’11 marzo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, definendoli “membri di una cellula militare legata alle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, che pianificavano attentati, pure suicidari, verso obiettivi civili e militari anche di Stati esteri”.

A luglio la Cassazione aveva deciso di annullare la richiesta del mandato di cattura, pur rimandando l’ultima decisione per la loro scarcerazione allo stesso Tribunale del Riesame che si è pronunciato due giorni fa annullando il provvedimento cautelare e ordinando l’immediata liberazione per due di loro Ali Irar e Mansour Doghmosh. Non erano terroristi.

Da ‘pericolosi terroristi’ a liberi cittadini: il ribaltamento giudiziario

“Tutto quello che possono dire sui miei assistiti – ha spiegato l’avvocato Flavio Rossi Albertini – è che ‘forse’ hanno qualche ruolo nella resistenza in Cisgiordania ma questo non è reato in Italia. Diventa reato solo se è configurato come terrorismo, così come definito dalla convenzione di New York del 1999. O riescono a dimostrare che hanno travalicato quei limiti posti dal diritto internazionale, oppure, in assenza di altre prove, non possono trattenerli”.

Con Mansour Doghmosh ed Ali Irar, sempre con l’accusa di terrorismo, in marzo a L’Aquila, anche un terzo cittadino palestinese, Anan Yaeesh – già in carcere da fine gennaio – era stato raggiunto da un ulteriore analogo provvedimento di custodia cautelare. La Corte d’Appello dell’Aquila aveva però respinto la richiesta di estradizione avanzata per lui dalle autorità israeliane. Richiesta poi ritirata da Israele a fine aprile con una nota inviata al ministero della Giustizia. Yaeesh è l’unico per il quale, fin da questa estate con l’udienza in Corte di Cassazione, era stata confermata la misura della detenzione.

Per il comitato ‘Palestina L’Aquila’ i due appena scarcerati erano “stati accusati ingiustamente a causa di una vera e propria montatura politica. Il loro arresto è avvenuto a distanza di un paio di settimane da quello di Yaeesh con il quale hanno legami di amicizia, conoscenza. Quest’ultimo è stato arrestato su procura di Israele per il suo attivismo pro-Palestina mentre, in quanto rifugiato politico, godeva della protezione internazionale”.

Il limbo dei ‘non terroristi’: tra scarcerazione e rischio rimpatrio

Dopo l’udienza di scarcerazione Mansour Doghmosh però è stato trasferito immediatamente in un Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) e quindi la domanda è fin troppo facile: dove vorrebbero rimpatriare Doghmosh? In Palestina dove da 11 mesi si sta consumando una guerra che conta 40 mila vittime? Oppure da detenuto politico in un carcere israeliano dove per la stessa Corte d’Appello de L’Aquila si consumano “torture e trattamenti inumani e degradanti”?

Il Comitato per la liberazione di Anan Yaeesh chiede alle forze politiche di intervenire. Il ministro (e il governo) per ora tace. La moglie e i tre figli di Mansour Doghmosh attendono di conoscere il loro futuro.

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L’assedio fantasma: le ossessioni di Palazzo Chigi

«Occhio ai nani e alle ballerine», avrebbe detto ieri il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia alla sua truppa parlamentare – lo scrive anche Repubblica – in una giornata che ha denudato il re.

Giorgia Meloni e i suoi in sole ventiquattro ore hanno fabbricato una sfilza di ossessioni di complotti che non sarebbe credibile nemmeno in un telefilm di quart’ordine. 

Sono nemici i poliziotti – di questo s’è detto – che rassicurano la premier solo con la loro assenza. Ma sono nemici anche i figli di Berlusconi, Marina e Pier Silvio, che secondo Palazzo Chigi starebbero tutto il giorno a brigare sugli affari mutandeschi dell’ex fidanzatino di Meloni e delle ipotetiche fidanzate dei suoi ministri.

Sono nemici i leader europei che non si sono bevuti la favola del ministro Fitto come autorevole commissario quando ne hanno visto la denominazione d’origine del governo più a destra tra i paesi che contano in Europa. Sono nemici , ça va sans dire, quelli dell’opposizione perché sono traditori e nemici della patria. 

Sono nemici gli alleati di Forza Italia perché si impuntano sui diritti civili e sono nemici gli alleati della Lega perché vogliono rosicchiare i voti a destra. Sono nemici perfino i commessi e gli uscieri di Palazzo Chigi, immaginari come gole profonde al servizio dei poteri forti. 

Sono nemici perfino i giornalisti amici come Sallusti che si arrogano il diritto di vedere complotti ovunque come una sorella Meloni qualsiasi. Sono nemici i giornalisti, quasi tutti nonostante i camerieri. 

Ha ragione Foti, mancano solo i nani e le ballerine. 

Buon mercoledì. 

In foto: La presidente del Consiglio Meloni con la pugile Angela Carini che gridò al complotto dopo essere stata sconfitta da Imane Khelif

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Niente accordo a Bruxelles, slitta il via libera alla squadra di Ursula

In un’inattesa mossa che ha colto di sorpresa gli osservatori politici di Bruxelles, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha posticipato l’annuncio della composizione del suo nuovo esecutivo. La decisione, comunicata in via ufficiosa, ha generato un fermento di speculazioni nei corridoi delle istituzioni europee, sollevando interrogativi sulle dinamiche interne che stanno plasmando il futuro assetto dell’organo esecutivo dell’Unione.

Il rinvio, inizialmente previsto per oggi, è stato ufficializzato attraverso lo spostamento dell’incontro tra von der Leyen e i leader dei gruppi politici del Parlamento europeo a martedì 17 settembre. Questo slittamento, apparentemente motivato da ragioni procedurali legate alla nomina del commissario sloveno, cela in realtà una complessa rete di negoziazioni e bilanciamenti politici.

La motivazione ufficiale addotta per il rinvio è legata alla recente designazione da parte della Slovenia dell’ex ambasciatrice Marta Kos come candidata commissaria. La mossa, che risponde all’appello di von der Leyen per una maggiore parità di genere nella Commissione, richiede ancora la ratifica del parlamento sloveno, prevista per venerdì. Tuttavia fonti autorevoli suggeriscono che questa formalità procedurale potrebbe essere un pretesto per guadagnare tempo e affinare la distribuzione degli incarichi.

Il valzer delle nomine: un gioco di equilibri e pretesti

Il portavoce capo della Commissione, Eric Mamer, in una dichiarazione congiunta con il servizio stampa del Parlamento europeo, ha sottolineato che “è solo dopo questo passaggio che la nomina del candidato sarà completa e ufficiale”. Questa precisazione, apparentemente banale, nasconde la complessità di un processo decisionale che va ben oltre le mere formalità istituzionali.

L’attribuzione dei portafogli ai 26 commissari designati rappresenta un delicato esercizio di equilibrismo politico, geografico e di genere. Von der Leyen si trova a dover navigare tra le pressioni dei governi nazionali, le aspettative dei gruppi politici europei e l’imperativo di garantire una rappresentanza equa e diversificata. La sua richiesta iniziale alle capitali europee di proporre sia un candidato maschile che femminile è stata largamente disattesa, costringendo la Presidente a sollecitare attivamente la nomina di candidate donne da parte di diversi paesi.

Il cambio di rotta della Slovenia, che ha sostituito il candidato iniziale Tomaž Vesel con Marta Kos, è emblematico di questa dinamica. Se confermata, la nuova composizione della Commissione vedrebbe la presenza di 11 donne su 27 membri, un passo avanti significativo verso l’obiettivo di parità di genere, seppur ancora non pienamente raggiunto.

Il rinvio dell’annuncio offre a von der Leyen un margine temporale prezioso per condurre ulteriori consultazioni con le capitali europee, i commissari designati e altri attori chiave. Questo tempo aggiuntivo potrebbe rivelarsi cruciale per dirimere le controversie emergenti e placare i malumori che si stanno manifestando in seno ai gruppi politici del Parlamento europeo.

Malumori e resistenze: la Commissione sotto pressione

In particolare Verdi e Liberali hanno espresso aperta contrarietà alla prospettata nomina dell’italiano Raffaele Fitto, esponente di Fratelli d’Italia, a vicepresidente esecutivo. Questa designazione, che eleverebbe un rappresentante dei Conservatori a una posizione di primo piano, sta generando frizioni all’interno della coalizione parlamentare. Analogamente, i Socialisti non hanno ancora metabolizzato l’esclusione del loro Spitzenkandidat, Nicolas Schmit, a favore del popolare Christophe Hansen.

La composizione finale della Commissione dovrà necessariamente tenere conto di questi equilibri politici, bilanciando le ambizioni dei singoli stati membri con la necessità di un esecutivo coeso e funzionale. Von der Leyen si trova così a dover orchestrare un delicato gioco diplomatico, cercando di soddisfare le aspettative contrastanti senza compromettere l’efficacia operativa della futura Commissione.

In questo contesto di intense negoziazioni il rinvio dell’annuncio appare non tanto come un segno di debolezza quanto piuttosto come una mossa strategica volta a garantire una composizione ottimale dell’esecutivo europeo. La Presidente dimostra così di voler privilegiare la sostanza sulla forma, anche a costo di affrontare critiche per il mancato rispetto della scadenza inizialmente prevista.

L’attesa per la presentazione ufficiale della nuova Commissione si protrae dunque di una settimana, con l’appuntamento ora fissato per martedì prossimo a Strasburgo. Sarà quella l’occasione per von der Leyen di svelare al Parlamento europeo, e all’intera Unione, la squadra che guiderà l’esecutivo comunitario nei prossimi cinque anni, affrontando sfide cruciali per il futuro del progetto europeo. Al fianco delle altisonanti visioni di Mario Draghi la Commissione appare già come un’anatra nata zoppa.

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La paladina della sicurezza, ora teme i suoi guardiani

La giornata inizia con un’anticipazione de La Stampa: Giorgia Meloni avrebbe ordinato la rimozione degli agenti di polizia dal piano del suo ufficio a Palazzo Chigi. Un fatto senza precedenti nella storia della Repubblica.

Secondo le fonti del quotidiano, la premier avrebbe comunicato la decisione al cerimoniale e all’ispettorato, senza fornire spiegazioni ufficiali. La richiesta includerebbe anche un maggiore filtro sui commessi più vicini al suo ufficio.

Le motivazioni sarebbero molteplici: un clima intossicato da scandali, ombre e sospetti; la preoccupazione personale della premier, già espressa in passato; il caso del ministro della Cultura Sangiuliano. 

La Stampa riporta che Meloni si fiderebbe ormai solo della propria scorta, guidata da Giuseppe Napoli, marito della sua segretaria storica Patrizia Scurti. Del resto i nemici immaginari e le “opache manovre” sono una costante nella narrazione meloniana. 

La notizia fa il giro dei media, suscitando reazioni e commenti. Poi, il colpo di scena: Palazzo Chigi emette un comunicato che smentisce categoricamente l’articolo: “È priva di fondamento la notizia secondo la quale sono state date nuove disposizioni alle forze di polizia presenti a Palazzo Chigi nei confronti delle quali il presidente del Consiglio da sempre ripone piena e totale fiducia”.

La vicenda sembra chiudersi qui ma c’è un ulteriore sviluppo: viene diffusa una nuova nota che smentisce la precedente smentita, riportando lo stesso testo del primo comunicato. I poliziotti smentiscono Palazzo Chigi. La presidente regina della retorica sulle forze dell’ordine non si fida. Resta da vedere come potrebbero fidarsi di lei i cittadini.

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