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Renzi nel centrosinistra. Il veto arriva dagli elettori

Dicono che non bisogna porre veti, che bisogna sconfiggere la destra e soprattutto che ciò che conta sono i numeri e non le antipatie. I numeri, appunto. Un sondaggio commissionato dal Fatto a Cluster17, quotata società francese di rilevazioni, dice che il 59% dell’elettorato complessivo si dice “contrario” al fatto che Avs, Pd e M5S “concludano un’alleanza elettorale con Matteo Renzi e il suo partito Italia Viva”. La percentuale sale al 65% tra l’elettorato del centrosinistra all’interno del quale è suddivisa tra il 78% dei 5 Stelle, il 65% di Avs e il 53% del Pd dove il 43% si dice invece favorevole. L’unico partito che si esprime maggioritariamente a favore dell’alleanza è Azione di Carlo Calenda con il 56% di sì. Nessuno, tranne stavolta gli elettori di Stati Uniti d’Europa, crede che l’ingresso di Renzi “potrebbe rafforzare le probabilità di vittoria del centrosinistra”.

Non lo credono quelli del M5S, 85% di No, quelli di Avs, 71%, del Pd, 61% e nemmeno gli elettori ed elettrici di Azione, 60% di No. Quelli potrebbero dire: contano i voti, non le avversioni. I voti, appunto. Non sarebbero disposti a votare una coalizione con Renzi l’82% dell’elettorato 5 Stelle, il 63% di Avs, il 42% di Stati Uniti d’Europa e il 37% del Pd. Il 50% degli elettori della coalizione di centrosinistra sono convinti che Renzi una volta eletto tradirà. Sono il 57% nel Pd e 56% in Avs, 68% nel M5S e 44% perfino tra i “suoi” di Stati Uniti d’Europa. Secondo il sondaggio il Partito democratico perderebbe un elettore su quattro. Non è questione di veti o di antipatie: Renzi porta in dote una contrarietà molto più pesante del suo risicato nugolo di voti. Lo dicono i numeri.

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Boccia smentisce ancora Sangiuliano: sui Social della non consigliera le mail del ministero sulla nomina e i biglietti aerei. Spunta pure un audio

Maria Rosaria Boccia vien di notte. Mentre il ministro e la presidente del Consiglio si affidano ai macchinosi ingranaggi della comunicazione tradizionale la quasi consigliera del ministero della Cultura impugna il suo telefono e attraverso il suo profilo Instagram sgretola la versione del governo. Il colpo d’occhio è impietoso: Meloni e Sangiuliano impegnati a tessere la tela per ore e Boccia che disfa tutto nel tempo di un clic. 

Le prove social che incastrano il ministero

Ieri sera Boccia ha pubblicato la nomina che secondo il ministro non sarebbe mai avvenuta. La mail è del 10 luglio e arriva da uno dei funzionari del gabinetto del ministero: “Gentilissima dottoressa Boccia – si legge – dando seguito a quanto anticipato per le vie brevi poco fa, le allego i contatti miei e del mio collega per qualsiasi esigenza legata alla sua nomina quale consigliere del ministro per ‘I grandi eventi’”. In allegato c’è anche la registrazione della telefonata tra Boccia e un funzionario ministeriale. 

Arrivano direttamente dalla segreteria del ministro invece la due mail che Boccia mostra sui social. In una ci sono i biglietti aerei, con check in già fatto, che sembrerebbero smentire l’asserzione di Meloni su “nessun soldo pubblico speso” per Boccia mentre nell’altra c’è il ‘timing’ per il 23 luglio per la ‘cerimonia di consegna chiavi della città di Pompei’. 

Ieri durante il faccia a faccia durato un’ora e mezza la presidente Meloni aveva chiesto al suo ministro rassicurazioni sul fatto che non ci fosse un solo euro pubblico speso per la non consulente molto vicina al ministro. A Palazzo Chigi si temeva soprattutto un’eventuale accusa di peculato. Fonti ben informate vicino al ministro dicono che la linea di Sangiuliano sia sempre la stessa. “Ho pagato tutto io”, avrebbe detto alla premier. La linea del governo fino a ieri sera era di un commissariamento dolce nei confronti di Sangiuliano fino al prossimo G7 della Cultura che si terrà tra una quindicina di giorni. Poi si vedrà, dicono da Palazzo Chigi. 

Alcuni paesi che parteciperanno al prossimo G7 hanno chiesto delucidazioni su eventuali falle di sicurezza. La quasi consulente Boccia ha dimostrato, con prove, di conoscere i dettagli della data a Pompei del 20 settembre in cui le delegazioni avrebbero visitato gli scavi archeologici prima del concerto e della cena. Oggi in Prefettura si discuterà della possibilità di modificare gli eventi. 

Oltre al gossip il “caso Boccia” propone anche interrogativi per le falle sulla sicurezza. L’imprenditrice campana ha filmato le sue visite all’interno del ministero, ha evidentemente registrato le sue conversazioni telefoniche ed è riuscita ad accreditarsi con i funzionari del ministero pur non avendo nessun incarico ufficiale. La possibilità che Sangiuliano sia in qualche modo ricattabile rimanda di colpo a Ruby, la finta “nipote di Mubarak”, che aveva imbarazzato Silvio Berlusconi agli occhi del mondo. 

Sangiuliano si difende: ‘Ho pagato tutto io’

“Non capisco come si possano chiedere le mie dimissioni. Non ho fatto nulla di male, né a livello giuridico, né a livello istituzionale”, dice Sangiuliano a La Stampa. “Ho pagato tutto io con la mia carta di credito personale”, spiega il ministro, aggiungendo che le prenotazioni “non le ha fatte la segreteria del ministero, ma io direttamente dal pc o dall’Ipad”. Parole che si scontrano con i documenti pubblicati da Boccia. Sullo sfondo rimane anche l’ombra sull’utilizzo dell’auto della scorta: “Cosa credete che facesse Salvini con la Isoardi? E poi con la Verdini, anche prima di stabilizzare la loro relazione? E Franceschini con la De Biase, prima che diventasse sua moglie?”, si sfoga Sangiuliano. Meloni dice che è “solo gossip”. Ma il suo ministro ci si è già rifugiato come scudo. 

Ma Boccia prende l’ultima parola e in mattinata pubblica una storia indirizzata direttamente al ministro: “Te l’ho detto ieri pomeriggio al telefono e te lo ripeto stamattina: Sono pronta ad applaudirti se la smetti di storpiare la realtà per coprire gente che non merita i tuoi sani valori: lealtà, rispetto, responsabilità. P.s. Gradirei non leggere più dichiarazioni inesatte da una persona che stimo e voglio bene”. Al di là dell’italiano claudicante sembra che la telenovela sia destinata a durare ancora.

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Carceri in Albania: la xenofobia costa un miliardo agli italiani

A proposito del pecoreccio caso in cui è rimasto invischiato il suo ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha dichiarato che l’unica cosa che veramente la preoccupa è che non siano stati spesi «soldi pubblici, dei cittadini».

Sullo sperpero di soldi pubblici la premier però non risponde quando si parla di Albania, là dove il suo governo ha deciso di impiantare come cattedrali nel deserto due carceri illegali per migranti che servono per sfamare la xenofobia di una parte del suo elettorato. Per quello di Gjader serviranno, solo per il personale, 30 mila euro al giorno, 900 mila in un mese. I posti disponibili per gli agenti sono 45 e sono già arrivate 3 mila domande. Anche perché le regole d’ingaggio sono vantaggiose: 130 euro lordi in più al giorno per 4-6 mesi di servizio. Con la possibilità di rientrare in Italia a spese dell’amministrazione.

Il sindacato di polizia fa notare come «una volta si tendeva a chiudere le carceri sotto i cento posti perché antieconomiche. Ora se ne costruisce una molto piccola, con un rapporto agenti – detenuti decisamente sproporzionato. Se in Italia c’è un poliziotto ogni tre reclusi, circa 25mila per oltre 61mila persone, lì ce ne saranno tre per ogni detenuto». 

Si parla di un miliardo di euro – ma i costi potrebbero lievitare ancora – per una campagna pubblicitaria senza nessuna reale ricaduta sul flusso di sbarchi e di accoglienza per l’Italia. Un miliardo di euro per un progetto al sapore di porti chiusi da offrire ai propri elettori. Altro che caso Sangiuliano. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: La presidente del Consiglio Meloni e il presidente albanese Edi Rama in visita alle strutture del porto di Shengjin, 5 giugno 2024

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Collaboratori di giustizia, pentiti di essersi pentiti

Qualche giorno fa l’avvocato Luigi Li Gotti in un’intervista a Antimafiaduemila ha raccontato che l’Agenzia delle Entrate confisca ai collaboratori di giustizia – volgarmente detti pentiti – i soldi che dovrebbero servire a ricostruirsi una vita attraverso l’acquisto di una casa o l’inizio di un nuovo lavoro. Li Gotti ha difeso collaboratori di primo piano (Tommaso Buscetta, Totuccio Contorno, Giovanni Brusca, Francesco Marino Mannoia e Gaspare Mutolo) che sono stati fondamentali nella lotta alla mafia, così com’era stata pensata da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. 

Diventa difficile immaginare che un mafioso possa quindi accettare un percorso di collaborazione con la magistratura sapendo che alla fine si ritroverebbe isolato non solo socialmente ma anche economicamente. “Questo sistema che si è messo in moto – dice Li Gotti – è un freno totale a nuove collaborazioni. Chi dovesse decidere di collaborare, pensando a quello che succede dopo che la sua collaborazione non serve più, e che viene messo in mezzo ad una strada, ci pensa mille volte prima di collaborare. Quindi da una parte si incide sulla possibilità di raccogliere e sollecitare le collaborazioni con la giustizia e dall’altra parte i collaboratori vengono esposti al rischio di ritorsioni”.

Giovanni Falcone diceva che i “pentiti” ci sono solamente quando lo Stato dimostra di volere fare sul serio nella lotta contro la mafia. Al linciaggio dei pentiti ci siamo abituati in questi anni, da parte di partiti e testate più o meno interessate e coinvolte in amicizie particolarmente pericolose. Mettere le mani in tasca ai pentiti invece dei mafiosi invece è una novità che fa spavento. 

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La Sanità è da terapia intensiva: l’Italia fanalino di coda tra i Paesi del G7

Mentre il governo si appresta a discutere la Legge di Bilancio 2025, i numeri sulla spesa sanitaria italiana del 2023 dipingono un quadro allarmante. La Fondazione Gimbe, nel suo recente rapporto, mette nero su bianco dati che non lasciano spazio all’interpretazione: il nostro Servizio Sanitario Nazionale è un paziente in terapia intensiva, che necessita di cure urgenti e sostanziose iniezioni di fondi.

Nel 2023, l’Italia ha investito nella sanità pubblica il 6,2% del suo PIL. Un dato che, di per sé, potrebbe non dire molto, ma che assume contorni preoccupanti quando confrontato con la media OCSE del 6,9% e quella europea del 6,8%. In pratica, stiamo investendo meno della media dei paesi sviluppati in un settore cruciale come la salute pubblica.

Ma i numeri diventano ancora più eloquenti quando si guarda alla spesa pro-capite. Con 3.574 dollari per abitante, l’Italia si posiziona al 16° posto tra i 27 paesi europei dell’area OCSE. Per capire la portata di questo dato, basta guardare al divario con la media europea: 896 dollari in meno per ogni cittadino italiano. Tradotto in euro e moltiplicato per la popolazione italiana, significa un gap di oltre 47,6 miliardi di euro.

Il divario crescente sulla sanità: l’Italia fanalino di coda nel G7

Il confronto con i “big” dell’economia mondiale è ancora più impietoso. Nel G7, l’Italia occupa stabilmente l’ultima posizione per spesa sanitaria pro-capite dal 2008. E se nel 2008 le differenze erano contenute, oggi sono diventate abissali. Mentre l’Italia spende 3.574 dollari pro-capite, la Germania ne investe 7.253, più del doppio.

Anche durante la pandemia, quando tutti i paesi hanno aumentato gli investimenti in sanità, l’Italia è rimasta indietro. Tra il 2019 e il 2023, la spesa sanitaria pro-capite italiana è cresciuta di soli 772 dollari, contro i 1.511 della Germania, i 1.329 del Regno Unito e i 1.280 della Francia.

Questi numeri non sono solo cifre su un foglio di calcolo. Rappresentano liste d’attesa interminabili, pronto soccorso sovraffollati, difficoltà nel trovare un medico di famiglia, disparità regionali inaccettabili, migrazione sanitaria e un aumento della spesa privata che porta le famiglie a rinunciare alle cure o a impoverirsi per ottenerle.

Dall’allarme all’azione: le richieste per salvare il SSN

Non è un caso che la sanità sia diventata una priorità assoluta per i cittadini italiani. Sondaggi e indagini confermano che la popolazione è sempre più gravata da problemi legati all’accesso e alla qualità delle cure. E le istituzioni sembrano finalmente prenderne atto: la Corte dei Conti, la Corte Costituzionale e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio hanno più volte sottolineato il sottofinanziamento del SSN.

Cinque regioni e le opposizioni hanno presentato disegni di legge per aumentare il finanziamento pubblico almeno al 7% del Pil. Lo stesso ministro della Salute, Schillaci, ha dichiarato che il 7% del Pil è il livello minimo su cui attestarsi per il finanziamento della sanità pubblica.

Ma le dichiarazioni d’intenti non bastano più. La Fondazione Gimbe chiede al governo un progressivo e consistente rilancio del finanziamento pubblico per la sanità, accompagnato da coraggiose riforme di sistema. L’obiettivo è chiaro: garantire a tutti la tutela della salute, un diritto costituzionale fondamentale e inalienabile.

Il rischio, in caso contrario, è quello di perdere un Servizio Sanitario Nazionale pubblico, finanziato dalla fiscalità generale e fondato su principi di universalità, eguaglianza ed equità. Un disastro sanitario, economico e sociale senza precedenti che porterebbe l’Italia a scivolare da un sistema nazionale a 21 sistemi sanitari regionali regolati dalle leggi del libero mercato.

In questo scenario, le prestazioni sanitarie diventerebbero accessibili solo a chi può pagarle di tasca propria o a chi ha sottoscritto costose polizze assicurative. La prossima Legge di Bilancio rappresenta quindi un banco di prova cruciale per il governo. I numeri sono sul tavolo, le criticità sono evidenti.

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Commissione Ue, troppi uomini in squadra: von der Leyen e il rebus delle quote rosa

A Bruxelles un intrigo politico minaccia la credibilità dell‘Unione europea. Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea, affronta una sfida imprevista: comporre una Commissione che rispecchi l’equilibrio di genere, principio tanto sbandierato quanto apparentemente irraggiungibile.

Dopo aver guidato l’Ue attraverso pandemia e crisi ucraina, von der Leyen si trova ora impantanata in una palude di resistenze che minacciano di vanificare gli sforzi per la parità di genere. Il quadro è preoccupante: solo nove donne nominate dai paesi membri, escludendo la Presidente stessa. Un numero che rappresenterebbe un passo indietro, un colpo all’immagine di un’Unione che si vanta di promuovere l’uguaglianza.

La situazione assume contorni grotteschi considerando l’esistenza di una “commissaria per l’uguaglianza”. Come può un’istituzione che predica l’uguaglianza fallire così clamorosamente nel metterla in pratica È una domanda che genera imbarazzo e frustrazione nei corridoi di Bruxelles.

Il paradosso dell’uguaglianza: quando la teoria si scontra con la pratica

Le ragioni addotte dai paesi membri per giustificare la penuria di candidature femminili sono varie e, in alcuni casi, francamente deboli. Si va dalle dinamiche di coalizione interne ai singoli paesi, che limiterebbero la libertà di scelta dei leader, a considerazioni di politica domestica che vedrebbero nella nomina a commissario europeo un modo per “liberarsi” di figure scomode o, al contrario, per premiare fedeli alleati. Motivazioni che, se possono avere una logica nella miope prospettiva nazionale, appaiono francamente inadeguate di fronte alla sfida di costruire un’Europa più equa e rappresentativa.

Von der Leyen non si arrende. Sta cercando di persuadere, pressare e quasi costringere i paesi recalcitranti a riconsiderare le loro scelte. Belgio e Romania hanno ceduto, altri come Slovenia e Malta sono sotto pressione. È una partita a scacchi politica dove ogni mossa può determinare il successo o il fallimento di un principio fondamentale.

Il rischio è che questa battaglia si trasformi in un boomerang per von der Leyen. La sua richiesta di ricevere due nomi (maschio e femmina) per ogni posizione è stata largamente ignorata, in quello che appare come un atto di sfida alla sua autorità. Una sfida che potrebbe minare la sua leadership già all’inizio del secondo mandato.

La partita a scacchi di von der Leyen: strategie e rischi di una battaglia cruciale

C’è chi sussurra che von der Leyen stia pagando il prezzo di un approccio troppo assertivo, percepito come un’ingerenza nelle prerogative nazionali. Altri puntano il dito contro l’apatia dell’opinione pubblica, come se la parità di genere fosse un lusso da tempi di bonaccia.

La verità sta nel mezzo. La battaglia per la parità nelle istituzioni europee riflette una lotta più ampia nelle società dei paesi membri. Una lotta contro pregiudizi radicati, strutture di potere consolidate, una visione della leadership ancora troppo spesso declinata al maschile.

Un eventuale fallimento non sarebbe solo una sconfitta personale per von der Leyen ma un segnale preoccupante per tutta l’Unione. Confermerebbe che, nonostante i proclami, l’Europa è ancora lontana dal realizzare l’uguaglianza che predica.

La speranza è ora riposta nel Parlamento europeo. L’assemblea di Strasburgo potrebbe bocciare alcune nomine maschili, forzando alternative femminili. Una soluzione in extremis, non priva di rischi, ma forse l’ultima chance per salvare il principio della parità nella Commissione.

La palla è nel campo dei leader nazionali: saranno all’altezza della sfida La risposta a questa domanda determinerà non solo il futuro della Commissione von der Leyen ma anche la credibilità dell’Unione Europea come baluardo di uguaglianza e progresso. Il tempo stringe e i cittadini europei osservano. 

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Boccia smonta pezzo per pezzo la versione di Sangiuliano, la poltrona del ministro traballa

Ci sono gli ingredienti per una commedia di fine estate: la collaboratrice del ministro a sua insaputa, i presunti viaggi pagati a nostra insaputa, le delicate riunioni sulla sicurezza del G7 indelicatamente aperte a estranei e ovviamente, come in ogni farsa che si rispetti, le smentite e le contraddizioni. 

La farsa del ministro e la smentita social: quando Instagram diventa tribunale

Lo stillicidio contro il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano per le sue trasferte con la sua consulente-non consulente Maria Rosaria Boccia si arricchisce di una nuova puntata e questa volta a farne le spese è la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ieri la premier ha rassicurato gli italiani durante una comoda intervista a 4 di sera su Rete 4: “Io ho parlato con il ministro Sangiuliano, soprattutto per le questioni che interessano il profilo del governo, e mi dice che effettivamente lui aveva valutato la possibilità di dare a questa persona un incarico di collaborazione non retribuito, poi ha fatto una scelta diversa, ha deciso di non dare quell’incarico di collaborazione per chiarire alcune questioni. Mi garantisce – ha detto Meloni – che questa persona non ha avuto accesso a nessun documento riservato, particolarmente per quello che riguarda il G7, e soprattutto mi garantisce che neanche un euro degli italiani e dei soldi pubblici è stato speso per questa persona”. 

Sculacciato dalla premier il ministro Sangiuliano questa mattina ha vergato una lettera per La Stampa in cui ripete i concetti espressi: la nomina di Boccia non c’è mai stata per alcuni conflitti di interesse riscontrati, nessun euro pubblico è stato speso per le trasferte e la quasi consulente non avrebbe mai partecipato a nessuna riunione operativa. Solo che Boccia decide di non stare zitta e risponde dal suo account Instagram punto su punto. “Dopo otto giorni di silenzio una toppa peggio del buco”, scrive la consulente più veloce del West che aggiunge: “Siamo sicuri che la nomina non ci sia stata A me la voce che chiedeva di strappare la nomina sembrava femminile… la riascoltiamo insieme?”. 

E sui potenziali conflitti di interesse riscontrati dal capo di gabinetto dice: “Quando li avrebbe riscontrati? Durante le vacanze estive? Il capo di gabinetto era presente da remoto alla riunione del 15 agosto perché era in ferie. Sotto l’ombrellone ha verificato i miei potenziali conflitti di interesse? E soprattutto quali sono?”.

Ce n’è anche sui soldi pubblici che Meloni giura non siano mai stati spesi. “Mai speso un euro del Ministero? Io non ho mai pagato nulla, mi è sempre stato detto che il ministero rimborsava le spese dei consiglieri tanto che tutti i viaggi sono sempre stati organizzati dal Capo segreteria del ministro”. E alle affermazioni del ministro sul fatto che lei non abbia mai preso parte alle riunioni operative sul G7, replica: “Quindi non abbiamo mai fatto riunioni operative? Sopralluoghi? Non ci siamo mai scambiati informazioni?”.

“Le uniche vite turbate sono state la mia e quelle della mia famiglia”, scrive ancora Boccia nella storia su Instagram, aggiungendo: “La stampa mi ha definita: influencer, accompagnatrice, sartina, ‘una che si vuole accreditare’, millantatrice, la Anna Delvey della politica italiana, aspirante collaboratrice, consolatrice, badante, un amore culturale. Ad oggi non ho ricevuto né le scuse da parte dei giornalisti (nonostante abbia sempre smentito tempestivamente tutte le dichiarazioni che leggevo ed ascoltavo) né le scuse di chi mi ha coinvolto ingiustamente in questa spiacevole situazione”. 

Meloni, Sangiuliano e Boccia: il triangolo (non) amoroso che fa tremare il governo

La farsa – politicamente serissima – ora arriva al bivio: qualcuno tra il duo Meloni-Sangiuliano e Boccia sta dicendo il falso. La poltrona del ministro alla Cultura pericolosamente traballa. 

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Le carezze agli evasori stanno nei numeri

Il giornalista economico Roberto Seghetti sulla newsletter quotidiana Appunti di Stefano Feltri mette in fila alcune norme entrate in vigore dal primo giorno di settembre. 

Si va dall’abbassamento al 120% (prima era fino al 240%) delle sanzioni per i contribuenti che non presentano la dichiarazione fiscale; c’è poi la sanzione da 250 a 1.000 euro se non ci sono imposte da dichiarare raddoppiata nel caso in cui non si tengano i libri contabili; la sanzione in caso di dichiarazione infedele era dal 90 al 180% e ora è solo del 70%; l’omessa dichiarazione dell’Iva comportava una sanzione fino al 240% e ora si è dimezzata al 120%; l’infedele dichiarazione Iva invece dalla sanzione massima del 180% ora scende al 70%. 

Dalla relazione sul rendiconto generale dello Stato della Corte dei conti sappiamo che i controlli in Italia sono ben al di sotto del periodo prepandemico mentre “consistente è il numero dei contribuenti che non versano quote rilevanti delle imposte dovute e dichiarate: a fronte degli importi richiesti a seguito di comunicazioni di irregolarità, solo poco più del 20 per cento viene corrisposto”. 

“Lo stesso accade – scrive la Corte dei conti –  per i controlli documentali: delle somme dovute sono versate in media meno del 30 per cento. Un fenomeno che risulta ancora più grave quando accompagna misure come le rottamazioni delle cartelle esattoriali con consistenti vantaggi per i singoli contribuenti”. 

Le carezze agli evasori di questo governo stanno tutte nei numeri. Come ai bei tempi di Silvio Berlusconi, semplicemente con l’aggiunta di un furbesco riserbo. 

Buon martedì. 

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Flop formazione e lavoro, roba da Chi l’ha visto?

Eccoci qui, a un anno esatto dall’introduzione del tanto decantato “supporto formazione e lavoro”, l’ennesima panacea del governo Meloni per risolvere il problema della disoccupazione. Di questo strumento miracoloso sappiamo praticamente nulla. Mentre il Reddito di cittadinanza veniva costantemente messo sotto la lente d’ingrandimento, accusato di ogni male possibile, il suo sostituto naviga nell’oblio più totale. La trasparenza tanto sbandierata si è persa nei meandri della burocrazia, o forse qualcuno ha deciso che meno si sa, meglio è. I numeri parlano chiaro: 96.161 beneficiari in dieci mesi. Un risultato che fa impallidire persino il tanto criticato Reddito di cittadinanza. Il vero capolavoro è l’assenza totale di dati su quanti abbiano effettivamente trovato lavoro.

La ministra Calderone si vanta di 11 mila assunzioni, ma da gennaio è calato il silenzio. I numeri non sono così lusinghieri come si vorrebbe far credere. Ci raccontano che la povertà è in calo, ma l’Istat ci svela che il “supporto formazione e lavoro” non ha contribuito minimamente a questo risultato. Anzi, ha persino peggiorato la distribuzione dei redditi. Un capolavoro di inettitudine, non c’è che dire. Il colpo da maestro è la spesa: 107,6 milioni di euro in nove mesi, contro i 122,5 milioni previsti per il solo 2023. Un risparmio che fa gola al governo, certo, ma sulla pelle di chi sta cercando disperatamente di sbarcare il lunario. In questo teatro dell’assurdo, l’unica certezza è che il governo Meloni ha creato un mostro burocratico ancora più opaco e inefficace del suo predecessore. Un bluff colossale. Solo che a questo giro gli indignati tacciono.

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Asse oscurantista Orbán-Trump, contagio illiberale da est a ovest

Viktor Orbán, premier ungherese noto per le sue posizioni autoritarie e filo-russe, sta estendendo la sua influenza alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 2024. La sua alleanza con Donald Trump non è solo una questione di affinità ideologica, ma è supportata da un fitto network di relazioni internazionali. Orbán ha partecipato a eventi organizzati dall’Heritage Foundation e dall’American Conservative Union, dove ha promosso la sua visione illiberale.

Orbán e Trump: un’alleanza costruita su valori illiberali

Durante la Conservative Political Action Conference (CPAC) in Ungheria, Orbán ha espresso il suo sostegno per un secondo mandato di Trump, dichiarando che “la vittoria di Trump è la nostra speranza”. Questa stretta collaborazione si basa su una visione condivisa del nazionalismo e sulla resistenza ai valori progressisti. Entrambi i leader vedono nella loro alleanza una possibilità di riformare l’ordine internazionale a favore di una politica estera isolazionista e di un consolidamento del potere autoritario.

La preoccupazione per questa alleanza è crescente tra gli ex funzionari repubblicani negli Stati Uniti. Figli di una tradizione conservatrice più moderata, vedono nell’abbraccio tra Orbán e Trump un pericolo per la democrazia. Il sostegno di Trump a Orbán è infatti percepito come un segnale di allineamento con posizioni che potrebbero minare ulteriormente la coesione occidentale, in particolare riguardo al sostegno all’Ucraina.

L’influenza di Orbán non si limita però alla retorica. La sua partecipazione attiva alle conferenze della CPAC negli Stati Uniti e il suo coinvolgimento con l’International Republican Institute (IRI) dimostrano come Orbán stia cercando di plasmare il dibattito politico americano dall’interno. La sua strategia è chiara: indebolire l’impegno occidentale in Ucraina e promuovere una politica estera che favorisca gli interessi di Mosca e Pechino, il tutto sotto il manto di una “difesa della civiltà cristiana.”

Le conseguenze globali della strategia di Orbán

Questa alleanza potrebbe avere ripercussioni significative sulle elezioni americane del 2024. Un ritorno di Trump alla Casa Bianca, con Orbán come modello e consigliere, rischierebbe di consolidare un asse illiberale che potrebbe cambiare drasticamente il panorama politico globale.

In Europa, Orbán ha già dimostrato la sua abilità nel dividere e destabilizzare, utilizzando la migrazione e i valori tradizionali come armi politiche. Ora, con Trump al suo fianco, mira a fare lo stesso negli Stati Uniti, mettendo in discussione i fondamenti della democrazia liberale e promuovendo una nuova era di autoritarismo globale.

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