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Il lavoro invisibile che tiene in piedi l’Italia

C’è un esercito silenzioso che ogni giorno si prende cura delle nostre case, dei nostri figli, dei nostri anziani. Sono le badanti, le colf, le baby sitter che permettono a milioni di famiglie italiane di andare avanti. Eppure questo lavoro fondamentale resta ancora in gran parte invisibile, sommerso, privo di adeguate tutele.

L’ultimo rapporto dell’Osservatorio Domina sul lavoro domestico in Italia ci restituisce una fotografia impietosa di un settore che vale l’1% del PIL ma che continua a essere trattato come figlio di un dio minore. Parliamo di quasi 900mila lavoratori regolari, cui si aggiunge una quota stimata di oltre 960mila irregolari. Un esercito di 1,8 milioni di persone, per lo più donne e straniere, che mandano avanti le nostre case mentre noi andiamo in ufficio.

Ma a che prezzo? Il tasso di irregolarità sfiora il 52%, contro una media nazionale dell’11%. Più della metà di questi lavoratori, insomma, non ha un contratto regolare. Niente contributi, niente malattia, niente ferie. Una situazione di sfruttamento legalizzato.

Lavoro domestico, lo sfruttamento invisibile: numeri e paradossi di un settore nell’ombra

E non si tratta solo di sfruttamento economico. Il rapporto evidenzia come il 30% dei lavoratori domestici si trovi sotto la soglia di povertà. Persone che ogni giorno si prendono cura dei nostri cari ma che faticano ad arrivare a fine mese. Una contraddizione stridente in un Paese che si definisce civile.

Ma il paradosso più grande è che a pagare il prezzo più alto sono proprio le donne. Quelle stesse donne che, grazie al lavoro di colf e badanti, possono dedicarsi alla carriera. Il 70% del lavoro domestico è svolto da donne straniere, spesso costrette a lasciare i propri figli nei Paesi d’origine per prendersi cura dei nostri. Gli “orfani bianchi”, li chiamano. Bambini cresciuti senza madri perché queste sono impegnate ad accudire i nostri di figli. Una catena dello sfruttamento globale di cui siamo inconsapevoli beneficiari.

E non finisce qui. Il rapporto evidenzia come la maggior parte dei datori di lavoro domestico siano anziani con pensioni basse. Persone che hanno bisogno di assistenza ma che faticano a pagarla regolarmente. Un cortocircuito del welfare che scarica sulle famiglie costi che magari potrebbero essere a carico dello Stato.

Un welfare insostenibile: il cortocircuito di un sistema al collasso

Di fronte a questo scenario, le proposte del Governo, secondo l’Osservatorio Domina sul lavoro domestico, appaiono del tutto inadeguate. Si parla di voucher, di detrazioni fiscali, di sanatorie una tantum. Toppe che non risolvono il problema strutturale. Perché la verità è che abbiamo costruito un sistema di welfare che si regge sullo sfruttamento di una manodopera a basso costo e priva di diritti.

Servirebbe una rivoluzione culturale prima ancora che normativa. Riconoscere il valore sociale ed economico del lavoro di cura. Garantire diritti e tutele a chi si prende cura dei nostri cari. Costruire un sistema di welfare universalistico che non scarichi sulle famiglie il peso dell’assistenza.

Altrimenti continueremo a sfruttare il lavoro invisibile di milioni di donne, per lo più straniere. Continueremo a fingere che il problema non esista. Continueremo a delegare alle badanti rumene o ucraine la cura dei nostri anziani, alle colf filippine la pulizia delle nostre case finché il sistema regge.

I numeri parlano chiaro: il 35,4% dei lavoratori domestici proviene dall’Est Europa, il 17,2% dall’Asia. Il 48% sono badanti, il 52% colf. L’età media è di 49,6 anni. Solo il 44,4% lavora per più di 29 ore settimanali. Il 26,5% guadagna meno di 3000 euro l’anno.

E le previsioni demografiche non lasciano spazio a ottimismo: nel 2050 gli over 80 saranno il 14,1% della popolazione italiana, contro il 7,6% attuale. Chi si prenderà cura di loro? Con quali tutele? A quale costo per le famiglie e per lo Stato?

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Per cosa è stata votata Schlein

Inutile girarci intorno. Chi ha votato Elly Schlein per la segreteria del Partito democratico l’ha fatto con la speranza che il partito diventasse qualcosa di profondamente diverso da quello che era stato fino a quel momento. 

Nel dicembre del 2022 quando l’attuale segretaria lanciava a Roma la sua candidatura alla guida del partito disse testualmente: «A Renzi, che dice di averci portato in Parlamento, dico di non dimenticare che per quanto mi riguarda a portami in Parlamento furono 50mila preferenze. Renzi ha il merito di aver spinto me e tanti altri fuori dal Pd con una gestione arrogante. Ha ridotto il Pd in macerie e poi se n’è andato».

A gennaio del 2023 Schlein spiegò che «Renzi ha fatto scelte politiche sbagliate che hanno allontanato molti di noi dal Pd e ha fatto le sue scelte e ha lasciato macerie dopo aver fatto errori su lavoro, migrazione, sblocca Italia». A maggio di quest’anno Renzi spiegava che «il Pd di oggi sta con Cgil e Landini» e chiedeva ai riformisti: «ma che ci fate ancora là dentro?». Qualche giorno dopo, in occasione dell’appoggio del Pd al referendum contro il Jobs act, il senatore fiorentino rincarò la dose. «Finalmente si è fatta chiarezza!», disse stentoreo nel suo ennesimo penultimatum. 

Dice Schlein che «il dibattito sulle alleanze non è interessante» ma bisogna «ragionare sui temi». È la stessa frase usata dai dirigenti del vecchio Pd ogni volta che preparavano un compromesso al ribasso. Ma qui non si tratta di alleanze: si tratta di avere coscienza del perché Schlein sia diventata segretaria, preferita a Bonaccini, con i voti di chi non avrebbe mai votato quel Pd. 

Buon lunedì. 

Nella foto: manifestazione a Genova, 18 luglio 2024 (foto pagina Fb Elly Schlein)

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Siamo in quel periodo dell’anno

Ci avviciniamo a quel momento dell’anno in cui il governo in carica deve fare i conti delle sue promesse, metterli in fila e poi spiegare agli italiani che il risultato non è quello sperato. 

Ad oggi le uniche parole ufficiali dicono che la prossima manovra “come le precedenti, sarà seria ed equilibrata”. Mettere aggettivi ai numeri prima ancora che vengano comunicati è solitamente la strategia per raccontare profumato ciò che puzza. 

Siamo in quel periodo dell’anno in cui Matteo Salvini dovrà spiegare ancora una volta ai suoi elettori che la famigerata “quota 41” del pensioni è una fiaba per allocchi. Siamo in quel periodo dell’anno in cui il leader di Forza Italia Antonio Tajani deve tergiversare sull’aumento promesso delle pensioni minime buttandosi sulla malinconia, su quando c’era Silvio. 

Entriamo in quel periodo dell’anno in cui il sostegno economico alla povertà e all’infanzia diventa impossibile per colpa dell’Europa “brutta e cattiva” mentre continuerà ad essere possibilissimo spendere in armamenti come non avremmo mai potuto immaginare nelle peggiori previsioni. 

Siamo in quel periodo dell’anno in cui al governo tocca ammettere di aspettarsi coperture dal concordato biennale proposto a 2,7 milioni di autonomi e imprese sui redditi da dichiarare nel 2024 e 2025 con la garanzia di essere esclusi dai controlli: 2 miliardi di euro attesi dai furbi. 

Ma siamo anche sempre in quel governo in cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha già intimato ai suoi alleati in Parlamento di non presentare emendamenti che lei non ha autorizzato. Insomma, ha consigliato di non svolgere la propria funzione parlamentare. 

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Lo Stato delle cose nel governo

Lo Stato delle cose avvicinandosi l’invio di settembre si potrebbe riassumere in pochi punti. 

Il Consiglio dei ministri di oggi è figlio del rinvio prima della pausa estiva, quando la presidente del Consiglio confidava che le vacanza potessero sopire le fibrillazioni nella maggioranza. Missione fallita. 

Agosto ha svelato un Tajani figliol prodigo della Cei improvvisamente innamorato dei diritti civili, del voto cattolico e della presidenza Rai che deve portare in dono ai fratelli Berlusconi. Nelle stesse settimane Matteo Salvini sente la corda intorno al collo stretta dal generale Vannacci che apparecchia il suo movimento con la buona scusa di non essere benamato all’interno del partito. 

Lega e Forza italia hanno bisogno di uno slancio per rinfrancarsi elettoralmente e lo slancio, quando si è al governo, spesso fa rima con necessarie e riconoscibili frizioni nell’esecutivo. 

Fratelli d’Italia avrà gioco facile quindi nell’usare la carta del vittimismo, questa volta contro i suoi alleati, per resistere al logoramento. Nel partito di Meloni vi sono però anche nodi interni da scegliere: l’ubbidiente Fitto verrà spedito in Ue lasciando libera la delicata casella del Pnrr e la ministra Santanchè dovrà salutare la sua sedia da ministra per il processo che incombe. La voglia di rimpasto degli alleati aggiungerà inevitabili fibrillazioni. 

In tutto questo l’Europa “consiglia” da settimane a Meloni di mettere a cuccia il più possibile e il prima possibile i sovranisti che isolano l’Italia a Bruxelles. Poi ci sarebbe la politica, ad esempio, con la Legge di Bilancio da cominciare a immaginare…

Buon venerdì. 

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Al rientro dalle vacanze le stesse bugie

Al ritorno dalle vacanze Giorgia Meloni e il suo governo hanno sventolato una serie di risultati che, a un’analisi attenta, risultano essere esagerazioni o, in alcuni casi, distorsioni della realtà.

Meloni ha dichiarato che il governo avrebbe rivisto il 55% del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ma in realtà solo il 5% dei progetti è stato modificato. Un’altra affermazione riguarda la flat tax per le partite Iva fino a 100 mila euro, una misura che la premier ha descritto come una novità introdotta dal suo governo. Tuttavia, si tratta di una norma già esistente dal 2019, estesa solo marginalmente da questa amministrazione.

Sul fronte del calo dei reati, Meloni ha parlato di un crollo del 7% rispetto al 2019, ma non ha menzionato che il numero di reati era già in diminuzione negli anni precedenti. Anche l’aumento dell’occupazione è stato attribuito al governo Meloni, ma i dati indicano che l’incremento è in linea con un trend iniziato ben prima del suo insediamento.

La premier ha rivendicato il merito per il rallentamento dell’inflazione ma l’andamento dell’inflazione dipende da fattori globali e, si sa, non può essere attribuito interamente all’azione di un singolo governo. La diminuzione della corruzione sventolata da Meloni fa riferimento a dati addirittura ventennali. Nel quantificare le esportazioni internazionali la presidente del Consiglio ha aggiunto 40 miliardi di euro che non esistono. 

Buon rientro. E buon giovedì. 

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Il nostro nome per la Commissione Ue?

Oggi è mercoledì quindi tra due giorni scade il termine entro cui i Paesi membri devono inviare i nomi proposti come membri della prossima Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen. 

L’Italia – a differenza della gran parte dei Paesi europei – non ha ancora ufficializzato la sua decisione, che dovrebbe comunque ricadere sull’attuale ministro Raffaele Fitto. Soprattutto in Italia, a differenza degli altri Paesi europei, non c’è stato nessun dibattito sulle competenze che il governo richiede al rappresentante italiano, su quali dovrebbero essere gli obiettivi della nostra “nomina”, su quali dovrebbero essere i suoi rapporti con l’Ue. Nulla.

Ieri la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ironizzato sulla sua “scomparsa” nel periodo estivo nientemeno che dal palcoscenico del Tg1. Il principale telegiornale pubblico ha ospitato la scenetta imbarazzante della premier che ha deciso di tornare al lavoro attaccando ovviamente i giornalisti, a suo dire troppo curiosi sui suoi spostamenti.

Forse non ha capito, Meloni, che sono i nostri spostamenti sotto la sua responsabilità a preoccuparci più di tutto il resto: oltre alla nomina italiana alla Commissione europea ci interesserebbe sapere quando Meloni ha intenzione di sciogliere la vicenda Rai, impantanata da mesi. Forse ha tutta l’aria di una “sparizione” anche la riforma dell’Autonomia differenziata che non piace – lo scopriamo ora – nemmeno a un partito della maggioranza, Forza italia. 

Più delle sue colazioni estive ai giornalisti interesserebbe sapere se la linea sulla politica estera italiana sia quella di Meloni in pubblico, di Salvini in pubblico, di Tajani in pubblico o quella di Meloni in privato all’interno del partito. 

Ci faccia sapere. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: il ministro per gli Affari europei, il Sud e la coesione territoriale Raffaele Fitto e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni (governo.it)

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Giorgia, stacce

Che il personale sia politico lo sanno bene dall’altra parte dell’oceano dove l’attuale presidente Usa Joe Biden ha dovuto ritirarsi dalla corsa non per divergenze sul suo operato governativo ma per sue personalissime debolezze. 

Che il personale sia politico lo sanno bene anche i membri della famiglia Meloni che in poco tempo hanno monopolizzato la scena usando la premier, il suo ex compagno Giambruno, la sorella Arianna e il cognato Lollobrigida in metafora di comando, come nelle peggiori dinastie imprenditoriali italiane. 

Hanno poco da lagnarsi quindi quelli del clan (politico) Meloni se il lato famigliare che loro stessi danno in pasto alla stampa poi diventa argomento di dibattito di stampa e di politica. Di mezzo ci sarebbe anche la valutazione di coerenza di una presidente del Consiglio che ha lucrato elettoralmente sulle famiglie degli altri, decidendo cosa fosse tradizionale e cosa no. 

Il 22 aprile del 2015 in occasione della votazione sul cosiddetto divorzio breve Giorgia Meloni scriveva: «Nessuno è obbligato a sposarsi ma se lo fa contrae un impegno serio sul quale la società investe. Non mi convince il fatto che questo vincolo si possa sciogliere in pochi mesi e senza norme in grado di salvaguardare i figli, prime vittime di un rapporto fallito. E dunque non mi convince una legge che rischia di minare la prima cellula della nostra società». 

Giorgia Meloni ha lasciato via social il suo compagno Giambruno per il suo atteggiamento predatorio verso le donne ma ci ripete che Giambruno è il miglior padre possibile per sua figlia, femmina. Il ministro Lollobrigida e la sua ex compagna Arianna Meloni hanno passato anni a decidere cosa fosse “famiglia tradizionale”. Entrambi i nuclei famigliari hanno avuto figli al di fuori dal matrimonio. 

Come direbbero a Roma: Giorgia, stacce.

Buon lunedì. 

Nella foto: frame della trasmissione L’aria che tira, La7, 3 febbraio 2018

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Ultima generazione, gli attivisti derisi mentre la scienza parla di collasso climatico – Lettera43

Il collettivo di giovani viene combattuto a suon di leggi, invece di essere ascoltato. Il problema è che le ricerche parlano di morti per calore in Europa triplicati entro fine secolo, in caso di aumento delle temperature di 3 gradi. E non basterà il bilanciamento dei minori decessi per il freddo. Eppure questi ragazzi vengono invitati a «tornare a studiare».

Ultima generazione, gli attivisti derisi mentre i dati sul collasso climatico sono sotto i nostri occhi

Qualche giorno fa ho ripostato su X un messaggio di Ultima generazione che riportava i risultati di uno studio di Nature medicine pubblicato quest’anno. Diceva: «47 mila i morti per caldo in Europa l’estate scorsa, l’Italia il Paese più colpito, oltre 12 mila. Il collasso climatico è vicino e il governo invece di proteggerci, lo alimenta. Noi di #UltimaGenerazione chiediamo un #FondoRiparazione per far fronte alle catastrofi climatiche».

Restrizioni sulle proteste per non disturbare i benpensanti

Confesso fin da subito di adorare gli attivisti di Ultima generazione, pulviscolo attivo capace di fare impazzire gli ingranaggi dei bolsi negazionisti climatici e dei burocrati scettici che lisciano il governo Meloni. Un giorno racconteremo che in Italia un collettivo formato soprattutto da giovani ha intravisto per primo il disastro all’orizzonte e ha ottenuto come risposta dai responsabili adulti una legge su misura: non una norma per riconoscere e combattere il riscaldamento globale, ma restrizioni sulle proteste per non disturbare la digestione dei benpensanti che odiano gli schiamazzi mentre va a fuoco il Pianeta su cui sono seduti.

Per l’ultra destra il caldo è solo sensazionalismo dei poteri forti

I commenti a quel post – leggo raramente i commenti su quella latrina che è diventata X, quel giorno ho compiuto l’errore – sono un misto di paternalismo canzonatorio e di negazionismo cocciuto. Per molti sostenitori dell’ultra destra al governo non c’è nessuna emergenza climatica, il caldo è sensazionalismo soffiato dai poteri forti e il problema è costituito da quelli di Ultima generazione che imbrattano le teche di musei che nessuno dei loro detrattori ha mai visitato dai tempi delle gite alle scuole elementari. Molti commenti invitano i ragazzi di Ultima generazione a «tornare a scuola» e a «studiare». Qualcuno – con molto coraggio – suggerisce che con il riscaldamento climatico «diminuiranno sensibilmente i morti di freddo» e quindi in fondo è una buona notizia.

Ultima generazione, gli attivisti derisi mentre i dati sul collasso climatico sono sotto i nostri occhi
Vetrine imbrattate di vernice arancione dagli attivisti di Ultima generazione in via del Corso, a Roma (Getty).

I morti per calore in Europa potrebbero triplicare entro il 2100

Studiare, appunto. Lancet Public Health ha pubblicato uno studio secondo cui i morti per calore in Europa potrebbero triplicare entro la fine del secolo, con un aumento sproporzionato dei numeri nei Paesi dell’Europa meridionale come l’Italia, la Grecia e la Spagna. «Si prevede che molte altre morti legate al calore si verificheranno man mano che il clima si riscalda e le popolazioni invecchiano, mentre le morti per freddo diminuiscono solo leggermente», ha spiegato David García-León del Centro comune di ricerca della Commissione europea, coautore dello studio.

Risultati che sfidano le tesi dei negazionisti del clima

I decessi per clima caldo potrebbero colpire circa 129 mila persone all’anno se le temperature salissero di 3 gradi al di sopra dei livelli preindustriali. Oggi le morti legate al calore in Europa si attestano poco sotto i 44 mila. Ma il bilancio annuale delle vittime del freddo e del caldo in Europa potrebbe aumentare da 407 mila persone oggi (di cui 363 mila legate al freddo,  soprattutto nell’Europa orientale e negli Stati baltici, e poco meno di 44 mila per il caldo, come detto) a 450 mila nel 2100 anche se i leader mondiali dovessero raggiungere il loro obiettivo di riscaldamento globale di massimo 1,5 gradi, si legge nello studio. La ricerca analizza la scia di una serie di ondate di calore che hanno devastato tutto il continente. I suoi risultati sfidano le argomentazioni dei negazionisti del clima secondo cui il riscaldamento globale è un bene per la società perché meno persone moriranno di freddo.

Ultima generazione, gli attivisti derisi mentre i dati sul collasso climatico sono sotto i nostri occhi
Gli effetti del caldo asfissiante in Europa, in particolare qui in Polonia (Getty).

Un promemoria sul numero di vite che stiamo mettendo a rischio

Anche in Europa, il continente abitato più fresco, le vite perse a causa di un caldo più forte compenseranno quelle salvate dal freddo più lieve, spiegano i ricercatori. Intanto i Paesi di Asia, Africa, Oceania e Americhe stanno cuocendo a temperature ancora più mortali. «Questa ricerca è un forte promemoria del numero di vite che stiamo mettendo a rischio se non riusciamo ad agire abbastanza rapidamente contro il cambiamento climatico», ha detto Madeleine Thomson, responsabile degli impatti climatici e dell’adattamento presso l’ente di beneficenza per la ricerca sanitaria Wellcome.

Impatti indiretti: guasti alle colture, incendi boschivi e non solo

La prevista triplicazione delle morti per calore diretto in Europa «non era nemmeno il quadro completo», ha aggiunto, «poi ci sono gli impatti indiretti. Abbiamo già visto come gli eventi di calore estremo possano causare guasti alle colture, devastazioni da incendi boschivi, danneggiare le infrastrutture critiche e colpire l’economia, il che avrà tutti effetti a catena sulle nostre vite». I ricercatori hanno modellato i dati su 854 città per stimare i decessi per temperature calde e fredde in tutto il continente. Hanno previsto che il bilancio delle vittime a causa delle temperature aumenterebbe del 13,5 per cento se il Pianeta riscaldasse di 3 gradi, portando a 55 mila morti in più. La maggior parte di coloro che morirebbero avranno più di 85 anni.

Ultima generazione, gli attivisti derisi mentre i dati sul collasso climatico sono sotto i nostri occhi
Quelli di Ultima generazione fuori dalla sede del Pd (Getty).

Per la scienza dobbiamo ridurre drasticamente i gas serra

I ricercatori invitano i governi alla costituzione di un fondo per azioni politiche mirate, come per esempio investire di più nella sanità, preparare piani d’azione per l’emergenza caldo, isolare più e meglio gli edifici. Per quanto riguarda le cause la valutazione è sempre la stessa: bisogna ridurre drasticamente i gas serra. Pensandoci bene, sono le stesse conclusioni degli attivisti di Ultima generazione, quelli che «non studiano» e che irritano una parte della popolazione. Come Cassandra, quelli di Ultima generazioni non hanno bisogno di essere combattuti: basta deriderli. Si sa già che verranno ignorati.

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Lo chiamano “controllo dei confini” ma è la concimazione dei dittatori

«Smettetela di dare soldi alla Tunisia. Smettetela di fare affari sui nostri corpi. Noi lottiamo per la giustizia. Per la libertà. Tutti devono vedere quello che accade, la guerra che fanno contro gente innocente e disarmata. Solo sofferenza. Solo sofferenza. Smettetela di dare soldi alla Tunisia. Qui non possiamo fare niente. Non possiamo affittare una casa. Non possiamo lavorare. Non possiamo chiedere asilo. Nessuno ci fa fare niente. Siamo spinti ai margini dove ci sta solo persecuzione. Persecuzione. Che i leader del West Africa aprano gli occhi. Fate qualcosa. La donna italiana (Meloni) sta pagando la nostra persecuzione. Deve finire. basta». 

Questo è uno dei messaggi arrivati il 19 agosto da alcuni cittadini gambiani in Tunisia alla rete LasciateCIEntrare. In Tunisia, nei pressi di Sfax, la guerra contro i migranti si trascina dal 2015 e ha avuto una significativa accelerazione con la legittimazione europea degli accordi firmati tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente tunisino Kaïs Saïed. 

«In molti casi dopo aver distrutto tutto, caricano le persone sugli autobus e le portano nel deserto. Coloro che si salvano dai rastrellamenti vanno in giro in cerca di cibo ed acqua, ma la popolazione ha paura e chiude loro le porte, soprattutto perché sono tante le persone della società civile che, dopo aver fornito aiuto, sono state incarcerate».

Dal 2011 a oggi il governo tunisino ha ricevuto dall’Ue più di 500 milioni di euro. Denaro utilizzato per fortificare la deriva sicuritaria di un governo che ha sciolto il consiglio della magistratura e che ha stravolto la Costituzione. Lo chiamano “controllo dei confini” ma è la concimazione dei dittatori. 

Buon venerdì. 

Nella foto: frame del video pubblicato da LasciateCIEntrare

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Incartati a destra

Il governo Meloni è in una situazione di stallo sulla questione dello ius scholae, rivelando le profonde divisioni all’interno della coalizione di centrodestra.

La proposta di Antonio Tajani di includere lo ius scholae nel programma di governo ha scatenato una reazione furiosa da parte della premier Meloni. La proposta, apparentemente in linea con le posizioni espresse dalla stessa Meloni nel 2022, ha messo in luce l’incoerenza della sua attuale posizione.

Meloni si trova ora in una situazione paradossale: opporsi a un’idea che ha precedentemente sostenuto. La sua giustificazione, basata sul fatto che lo ius scholae non sia nel programma di governo, appare debole e opportunistica.

Matteo Salvini, nel frattempo, rimane ancorato alla sua opposizione, temendo probabilmente la concorrenza elettorale del generale Vannacci. Ad aprire è invece il suo ministro dell’Interno Piantedosi, creando ulteriori tensioni all’interno del governo.

Forza Italia, cercando di posizionarsi “tra Meloni e Schlein”, rischia di alienarsi sia gli alleati di governo che l’opposizione. 

Il risultato è chre il governo appare più preoccupato di gestire i conflitti interni che di affrontare le sfide concrete del Paese.

Mentre la coalizione di centrodestra si dibatte in queste contraddizioni le opposizioni osservano, pronte a sfruttare queste divisioni. Il rischio per il governo è di apparire paralizzato, incapace di agire su una questione cruciale per il futuro dell’Italia.

La vicenda dello ius scholae però mette in luce le debolezze strutturali di questa maggioranza: l’incapacità di conciliare le diverse anime della coalizione, la tendenza a privilegiare il calcolo elettorale sulla coerenza politica e la difficoltà nel mantenere una linea comune su temi fondamentali.

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