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Salvataggi da ricchi e salvataggi da poveri

Per un giornalista de Il Foglio il naufragio dello yacht a Porticello e i naufragi dei migranti sarebbero «fattispecie totalmente diverse». La differenziazione ovviamente non stupisce: i primi sono poveri naufragi, i secondi sono semplicemente dei migranti. I primi vengono identificati con la tragedia subita i secondi invece con la provenienza.

Dice il collega che i primi sono naufraghi “veri”, quindi hanno ogni diritto a essere soccorsi immediatamente e condotti nel porto più vicino, ai sensi delle convenzioni internazionali. I secondi invece no, perché non sempre stanno per affondare, quindi non sarebbero naufraghi, e comunque le disposizioni normative sono diverse.

Il giornalista di Radio radicale Sergio Scandura ricorda che «qualsiasi imbarcazione stracarica, che lascia la costa di partenza, viene automaticamente classificata in Distress, viene considerata automaticamente in Pericolo anche quando non è “in avaria”. Lo dice il regolamento Europeo Frontex 656/2014, lo dicono le linee guida IMO (authority marittima ONU), quelle di EUnavForMed e via andare: tutte fonti peraltro contemplate nel decreto del Piano SAR nazionale per assorbimento da fonti superiori».

La giurista Vitalba Azzollini ricorda che le norme, cioè le convenzioni internazionali sono esattamente le stesse. Quelle norme – come ricorda Azzollini – dicono anche che la regola del porto più vicino, sempre prevista da regole internazionali, vale per tutti (altro che porto di Ravenna o Livorno o Genova).

Il nostro giornalista ospite di una nota rassegna stampa del servizio pubblico ha ripetuto quindi una bestialità. Non esistono naufragi da ricchi e naufragi da poveri. Esistono, purtroppo, salvataggi per i ricchi e salvataggi per i poveri. 

Buon mercoledì. 

Immagine dal sito dei Vigili del fuoco: le operazioni a Porticello (Pa)

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La favola della “generosità italiana” sulla cittadinanza

Meloni e Salvini ci raccontano una bella favola: l’Italia sarebbe il Paese più generoso d’Europa nel concedere la cittadinanza. Una narrazione che fa comodo alla destra per opporsi a qualsiasi riforma. Peccato che sia una bugia bella e buona.

Certo, i numeri assoluti sembrano dar loro ragione: nel 2022 abbiamo concesso 214mila cittadinanze, più di tutti in Europa. Ma fermarsi qui sarebbe come dire che siamo il Paese più ricco perché abbiamo più soldi in circolazione, ignorando quanti siamo.

Se rapportiamo le cittadinanze concesse alla popolazione, l’Italia precipita al quinto posto. E questo è solo l’inizio dello smascheramento.

La vera generosità di un Paese si misura dalle sue leggi, non dai numeri. E qui casca l’asino della propaganda meloniana. La nostra legge sulla cittadinanza è del 1992, un’era geologica fa. Siamo ancorati allo ius sanguinis, mentre il resto d’Europa si è evoluto.

In Francia un bambino nato da genitori stranieri può ottenere la cittadinanza a 13 anni. In Germania bastano 5 anni di residenza dei genitori. In Spagna addirittura un solo anno. Da noi? 18 anni di attesa, sempre che tu sia nato qui e non abbia mai messo piede fuori.

Il Migrant integration policy index ci piazza al 14° posto su 27 Paesi Ue per politiche di cittadinanza favorevoli all’integrazione. Tradotto: 13 Paesi europei sono più “generosi” di noi.

A questo punto all’allegra coppia non resta che una via d’uscita: dichiarare apertamente che una nuova legge sulla cittadinanza semplicemente non possono permettersela. Rimestare la xenofobia per prendere voti del resto comporta dei costi politici. 

Buon martedì. 

Nella foto: immagine dalla pagina fb di Italiani senza cittadinanza

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La famiglia Meloni quando serve non parlare di politica

Vale la pena riprendere i fili del fumo che le premiate sorelle Meloni hanno deciso di alzare in pieno agosto per coprire i buchi di una maggioranza che non riesce a mettersi d’accordo nemmeno all’ombra degli ulivi secolari.

Nel buen retiro della Valle d’Itria il clan (politico) delle Meloni ha avuto l’impellente bisogno di forgiare una prima pagina per accendere l’ennesimo dibattito sul niente. Nelle materie che contano del resto Meloni, Salvini e Tajani non sono mai stati così distanti come negli ultimi giorni, impelagati nei differenti desideri per la Rai, per i balneari e sulla guerra in Ucraina. 

L’articolo necessario l’ha servito in tavola il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti ripercorrendo teoremi di berlusconiana memoria: i “poteri forti” della magistratura in combutta con la “sinistra” (ah, vederla) vorrebbero colpire Arianna Meloni per affondare Giorgia. 

La collazione dei retroscena svela il sotto vuoto spinto. Al Corriere Sallusti dice di non avere parlato della sua prima pagina con la premier, su La Stampa si racconta che i vertici di Fratelli d’Italia conoscevano il contenuto del pezzo con largo anticipo. 

“Vogliono indagare Arianna”, strilla Il Giornale, e il teorema diventa l’assist perfetto per il gnegneismo del 19 agosto. La presidente del Consiglio non accetta che “si metta in mezzo la famiglia” ma usa la famiglia con molta disinvoltura quando deve evitare di mettere in mezzo la politica. Il resto è tutto piagnisteo. 

Anche oggi passerà parlando di niente. 

Buon lunedì. 

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La fabbrica dei reati: in sei anni 28 nuovi articoli del Codice penale, otto i nuovi crimini introdotti dal governo Meloni

C’era una volta un codice penale snello, comprensibile, che puniva i reati più gravi e lasciava il resto alla sfera civile o amministrativa. Oggi quel codice è un lontano ricordo, sommerso da una valanga di nuovi articoli, commi e sotto-commi che sembrano moltiplicarsi come funghi dopo la pioggia. Un labirinto normativo in cui è facile perdersi e dove comportamenti un tempo ai margini della legalità rischiano ora pene severe.

La fabbrica dei reati: un’inflazione normativa senza freni

Come riporta un’analisi di Pagella Politica, negli ultimi sei anni il nostro codice penale ha visto l’introduzione di ben 28 nuovi articoli, mentre altri 45 sono stati ampliati. Un’inflazione normativa che sembra non conoscere freni, indipendentemente dal colore politico dei governi in carica.

Il governo Meloni, in particolare, si è distinto per il suo attivismo in materia penale. Otto nuovi reati introdotti in poco più di un anno, tra cui spiccano l’organizzazione dei rave party (pudicamente ribattezzata “invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica”) e la “pubblica intimidazione con uso di armi”, meglio nota come “stesa” nel gergo camorristico. Persino i genitori che non mandano i figli a scuola rischiano ora fino a due anni di carcere, un salto quantico rispetto alla precedente multa di 30 euro.

Ma non è solo questione di numeri. È il paradigma stesso della giustizia penale a sembrare in mutamento. Da strumento di ultima istanza, il diritto penale sembra diventare sempre più la panacea per ogni male sociale. Un approccio che il ministro Nordio, all’inizio del suo mandato, aveva promesso di contrastare, parlando di “depenalizzazione” e criticando la “panpenalizzazione”. Parole che, alla prova dei fatti, sembrano essere rimaste lettera morta.

Non che i governi precedenti si siano comportati diversamente. Il governo Draghi ha introdotto ben 14 nuovi reati contro il patrimonio culturale, mentre il “Codice rosso” del primo governo Conte ha portato quattro nuovi reati nel campo della violenza di genere. Una tendenza trasversale che sembra unire destra e sinistra in un abbraccio “law and order”.

Più reati, più giustizia Il paradosso della penalizzazione

C’è da chiedersi se questa proliferazione di fattispecie penali sia davvero la risposta ai problemi della società italiana. O se, piuttosto, non rischi di ingolfare ulteriormente una macchina della giustizia già oberata. Senza contare il rischio di creare un sistema normativo talmente intricato da risultare incomprensibile ai più, in aperta contraddizione con il principio di certezza del diritto.

A fronte di questa espansione, i reati abrogati si contano sulle dita di una mano: sei in tutto. Ma anche qui, la realtà è più complessa di quanto sembri. In molti casi, infatti, i comportamenti “depenalizzati” sono stati semplicemente spostati sotto altre norme, in un gioco di scatole cinesi che poco ha a che fare con una vera semplificazione.

Il caso emblematico è quello dell’abuso d’ufficio, recentemente abrogato. Una mossa salutata da alcuni come una necessaria sforbiciata burocratica, ma che lascia aperto il problema di come perseguire efficacemente i comportamenti scorretti dei pubblici ufficiali.

In questo scenario, emerge chiara la necessità di un ripensamento complessivo del nostro sistema penale. Un sistema che, nato nel 1930 e più volte rimaneggiato, mostra sempre più i segni del tempo e delle stratificazioni normative. Serve una riforma organica, che sappia bilanciare l’esigenza di tutela della società con quella di un diritto penale minimo ed efficace.

In conclusione, l’espansione del codice penale italiano sembra procedere inarrestabile, come un fiume in piena che travolge ogni argine. Ma è lecito chiedersi se questa corsa all’inasprimento penale sia la strada giusta per una società più sicura e giusta. O se, paradossalmente, non rischi di produrre l’effetto opposto, creando un sistema sempre più farraginoso e meno efficace.

In un Paese dove le carceri scoppiano e i processi si trascinano per anni, forse è il caso di fermarsi un attimo e chiedersi: abbiamo davvero bisogno di tutti questi reati? O non sarebbe meglio concentrarsi sull’applicazione efficace di quelli esistenti? Domande che, nel furore legislativo degli ultimi anni, sembrano essere passate in secondo piano. Eppure, dalle risposte a queste domande dipende il futuro della giustizia in Italia.

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Ponte sullo Stretto, il ring della propaganda: la pugile Carini testimonial della grande opera

C’è qualcosa di grottesco nel vedere Angela Carini, la pugile italiana protagonista di una delle pagine più discutibili delle recenti Olimpiadi di Parigi, diventare testimonial dell’azienda che si occuperà della costruzione del Ponte sullo Stretto. Un’opera faraonica, contestata e probabilmente irrealizzabile che trova il suo volto in un’atleta che ha abbandonato il ring dopo appena 46 secondi di combattimento. La metafora è servita su un piatto d’argento.

Webuild, l’azienda incaricata di realizzare il sogno berlusconiano per eccellenza, ha pensato bene di lanciare una campagna pubblicitaria intitolata “Costruire un sogno: storie di campionesse”. Peccato che tra queste “campionesse” ci sia proprio Carini, fresca reduce da una figuraccia olimpica che ha fatto il giro del mondo. La boxeur italiana, ricordiamolo, si è ritirata dopo pochi secondi dall’inizio del match contro l’algerina Imane Khelif, in un turbine di polemiche e accuse reciproche che hanno oscurato lo sport e esaltato il lato peggiore del nazionalismo da bar.

La campagna pubblicitaria di Webuild: un boomerang di ironia e sarcasmo

La scelta di Carini come testimonial, effettuata prima delle Olimpiadi ma resa pubblica solo dopo, si è rivelata un boomerang per Webuild. Sui social network è partita la prevedibile ondata di ironia, con commenti che paragonano la resistenza della pugile a quella del futuro ponte: “Speriamo che duri più di lei”, scrivono gli utenti. Altri si chiedono se anche il Ponte crollerà dopo 46 secondi, in un crescendo di sarcasmo che mette in ridicolo sia l’atleta che l’azienda.

Ma c’è un aspetto ancora più inquietante in questa vicenda. La scelta di Carini sembra premiare non tanto i meriti sportivi, quanto l’adesione a una certa retorica nazionalista. L’abbandono del ring contro Khelif, infatti, è stato salutato da una parte della politica e dell’opinione pubblica come un atto di orgoglio patriottico, in risposta alle presunte “scorrettezze” dell’avversaria algerina. Una narrazione tossica che ha trasformato una sconfitta sportiva in una sorta di crociata identitaria.

Retorica nazionalista e paradossi: la scelta di Carini tra propaganda e reazioni controverse

Webuild, consapevolmente o meno, si inserisce in questo filone propagandistico. La campagna pubblicitaria, con il suo messaggio di “audacia, perseveranza, resilienza, tenacia e passione”, suona come una giustificazione postuma del gesto di Carini. Come se abbandonare un incontro dopo pochi secondi fosse un atto di coraggio e non di debolezza.

Il paradosso è che mentre si esalta la “passione” di un’atleta che ha gettato la spugna, si pretende di costruire un’opera titanica come il Ponte sullo Stretto. Un’opera che richiederà ben altra tenacia e resistenza di quella mostrata sul ring parigino.

In tutto questo, c’è da chiedersi cosa ne pensi Imane Khelif, l’avversaria algerina trasformata suo malgrado in capro espiatorio di frustrazioni nazionali. Khelif, che ha poi vinto la medaglia d’oro, è stata oggetto di una campagna diffamatoria vergognosa, con accuse infondate sulla sua identità di genere. Una vicenda che ha portato persino all’apertura di un’indagine da parte della procura di Parigi per cyberbullismo.

La scelta di Webuild, dunque, appare quanto meno inopportuna. Premia un gesto antisportivo, alimenta una retorica nazionalista fuori luogo e rischia di associare un’opera già contestata a una delle pagine più buie dello sport italiano recente.

Il messaggio che passa è che l’importante non è vincere, ma abbandonare al momento giusto gridando al complotto. Una filosofia che mal si adatta alla costruzione di ponti, reali o metaforici che siano. Ma forse, in fondo, è proprio questo lo spirito con cui si vuole affrontare l’impresa del Ponte sullo Stretto: più propaganda che sostanza, più slogan che ingegneria.

In questo senso, Angela Carini è davvero la testimonial perfetta. Rappresenta alla perfezione l’Italia dei grandi annunci e delle piccole rinunce, dei sogni faraonici e delle meschinità quotidiane. Un Paese che sogna di unire le sponde dello Stretto, ma non riesce a tendere la mano all’avversario sul ring.

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Perfetto, Delmastro

Il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha ancora addosso la macchia d quella Capodanno passato con il suo amico e collega di partito Emanuele Pozzolo che, secondo la Procura, avrebbe sparato al suo caposcorta. Sparito per un po’ dai radar ha deciso di riemergere nei giorni ferragostani per visitare il carcere di Taranto. 

In una situazione di insopportabili suicidi all’interno delle carceri e di caos politico su una riforma che non arriverà mai Delmastro ci ha tenuto a farci sapere di “non essersi inginocchiato alla Mecca dei detenuti”. Per lui era importante dirci che ha visitato solo gli agenti di polizia penitenziaria. Come nelle peggiori distopie Delmastro ritiene il carcere il luogo dove si affrontano i buoni contro i cattivi, il terreno di scontro tra agenti penitenziari che rappresentano la mano dura dello Stato e quegli sciagurati di detenuti che si meritano tutte le angherie. In questo filone si inserisce la scelta di inaugurare il plotone speciale di militari che dovranno occuparsi delle rivolte carcerarie, con buona pace dei 60 suicidi dall’inizio dell’anno.

Non contento il sottosegretario si è fatto anche fotografare mentre fumava beatamente una sigaretta sotto un cartello di divieto di fumo stampato in bella vista. Foto rimossa dai suoi social troppo tardi, quando tutti noi abbiamo potuto gustare un sottosegretario alla Giustizia che entrato in un carcere senza accorgersi che ci sono dei detenuti e violando la legge nel luogo che dovrebbe rieducare alla legge. Perfetto. 

Buon venerdì. 

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Arianna Meloni, mai nel merito

Gira insistentemente voce che la famiglia Meloni – ancora di più del partito Fratelli d’Italia – abbia intenzione di sfruttare il momento di difficoltà delle Ferrovie per sostituire l’amministratore delegato Luigi Corradi con Sabrina De Filippis che è amministratrice delegata di Mercitalia logistics ma soprattutto è molto amica di Arianna, sorella di Giorgia e quindi d’Italia. 

La senatrice Raffaella Paita, di Italia viva, ha chiesto conto al governo con un post su X. “Arianna Meloni era sui giornali per l’influenza sulle nomine in Rai, oggi per FS. Non potrebbero farla direttamente ministra dell’attuazione del programma”, ha scritto Paita, facendo riferimento a una preoccupante “parentocrazia”. 

L’opposizione fa l’opposizione: domanda, pressa, riprende i retroscena per renderne conto. La maggioranza avrebbe il compito di rispondere nel merito. In questo caso avrebbero potuto spiegarci i talenti di De Filippis che la rendono importante per quel ruolo. Avrebbero potuto semplicemente negare. 

La senatrice di Fratelli d’Italia Domenica Spinelli invece risponde parlando di una «patetica Paita» che “si presta, sotto dettatura del padre padrone Renzi, a muovere accuse infondate ad Arianna, colpevole solo di essere una donna libera». La senatrice meloniana Paola Mancini dice del «capo branco Renzi, dopo aver dettato alla sua sottoposta Paita gli attacchi contro Arianna Meloni, ora scatena la sua muta di cani contro la senatrice Spinelli. I suoi metodi da boss fallito di provincia non intimidiranno la senatrice Spinelli e nessuno di Fratelli d’Italia». 

In serata risponde Arianna con il solito vittimismo contro quelli che vogliono «dipingere mia sorella come traffichina e melmosa». 

Risposte nel merito? Nessuna. Avanziamo una timida proposta: sostituite il ministro dei Trasporti, siate coraggiosi. 

Buon giovedì. 

Foto da Wikipedia

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Ius Soli, altro fronte nella maggioranza: nuovo scontro tra Lega e Forza Italia

Nuovo scontro nella maggioranza tra Forza Italia e la Lega di Salvini. Questa volta il motivo del contendere è lo Ius soli proposto dal Partito democratico su cui nei giorni scorsi il partito guidato da Antonio Tajani aveva mostrato di essere disponibile a trattare. 

Il deputato forzista Alessandro Cattaneo aveva invitato la sinistra “a non presentare proposte estreme” e ad aprire un confronto su “Ius scholae e Ius culturae”, ovvero l’ottenimento della cittadinanza dopo un ciclo di studi. 

“La legge sulla cittadinanza va benissimo così, – recita una nota della Lega – e i numeri di concessioni (Italia prima in Europa con oltre 230 mila cittadinanze rilasciate, davanti a Spagna e Germania) lo dimostrano. Non c’è nessun bisogno di Ius Soli o scorciatoie”. 

Poco dopo arriva la reazione di Forza Italia attraverso il suo portavoce nazionale Raffaele Nevi: “Innanzitutto dispiace che un alleato di coalizione ci attacchi. Noi abbiamo ribadito quella che è la nostra linea da sempre, ma non fa parte del programma di governo ovviamente. Ognuno ha le sue sensibilità e impostazioni. Noi siamo contrari allo Ius soli – spiegano da Forza Italia – ma siamo invece aperti allo Ius Scholae. Come disse Berlusconi, noi siamo per favorire l’integrazione. E la scuola è il motore di questa integrazione”. 

A Forza Italia non sono piaciuti soprattutto i modi. “Molti moderati sono interessati a Fi proprio per la nostra posizione liberale e moderata. Dalla Lega invece di ringraziarci, troviamo dei post che non ci piacciono. La nostra strategia è colpire avversari, non gli alleati”. 

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Francia, Castets contro tutti: la nuova leader che punta al governo e mette in crisi l’Eliseo

Dopo l’entusiasmo delle Olimpiadi, la Francia si trova di fronte a una delle sfide politiche più complesse degli ultimi anni: la formazione del nuovo governo. Con un panorama politico frammentato e un elettorato diviso, Emmanuel Macron è chiamato a un delicato esercizio di bilanciamento che potrebbe segnare il destino del suo mandato e del Paese. Le elezioni legislative anticipate di questa estate hanno consegnato alla sinistra un risultato sorprendente, portando alla ribalta una figura fino a poco tempo fa sconosciuta al grande pubblico: Lucie Castets.

Castets, 37 anni, è un’alta funzionaria del Comune di Parigi, con un passato da attivista e una formazione presso l’École nationale d’administration, la stessa prestigiosa scuola che ha formato anche Macron. Nonostante il suo profilo tecnico, Castets è stata scelta dal Nuovo Fronte Popolare (NFP) come candidata alla carica di Primo Ministro, dopo settimane di trattative all’interno della coalizione di sinistra. La sua candidatura rappresenta un tentativo di unire la sinistra attorno a un progetto comune dopo anni di frammentazione e lotte intestine.

La sfida di Lucie Castets: una leader emergente alla prova del fuoco

Tuttavia, la strada verso Matignon si preannuncia irta di ostacoli. Macron ha già respinto la candidatura di Castets sostenendo che il NFP, pur essendo la coalizione più numerosa in Parlamento con 193 seggi, non dispone della maggioranza assoluta necessaria per governare. Il presidente ha infatti sottolineato che “nessuno” ha realmente vinto queste elezioni e ha insistito sulla necessità di una coalizione ampia e pluralista per garantire la stabilità del governo. Castets, da parte sua, non si è lasciata scoraggiare e nelle ultime settimane ha lanciato una campagna mediatica aggressiva, cercando di aumentare la pressione su Macron affinché le conferisca l’incarico.

Le opzioni sul tavolo: Bertrand e Cazeneuve, alternative per Macron

In campo ci sono anche altre soluzioni. Bernard Cazeneuve, ex Primo Ministro socialista, potrebbe essere un’opzione di compromesso per Macron. Cazeneuve, che ha ricoperto l’incarico di capo del governo alla fine della presidenza di François Hollande, è visto come una figura capace di attrarre i moderati all’interno del NFP e di garantire una certa continuità istituzionale. Tuttavia, la sua recente rottura con il Partito Socialista e la fondazione di un nuovo movimento, La Convention, che ha ottenuto scarso successo, rendono incerto il suo potenziale per unire la sinistra dietro di sé.

Dall’altro lato dello spettro politico, Xavier Bertrand, leader della regione Hauts-de-France, emerge come il candidato più probabile per una coalizione di centrodestra. Bertrand, con un passato da Ministro della Salute e del Lavoro sotto Jacques Chirac e Nicolas Sarkozy, ha dimostrato di saper gestire situazioni politiche difficili, come la crescita dell’estrema destra nella sua regione. La sua nomina potrebbe rappresentare una scelta pragmatica per Macron, che tuttavia rischierebbe di accentuare le divisioni con l’elettorato di sinistra e di alienare parte della sua base elettorale.

Per Macron la scelta del Primo Ministro sarà cruciale per navigare in un Parlamento frammentato e per cercare di attuare un programma di governo che possa ottenere il consenso necessario.La “pausa olimpica” è ormai finita.  Lucie Castets, dal canto suo, continua a rappresentare una sfida diretta all’autorità di Macron. La sua campagna per il ruolo di Primo Ministro, sebbene considerata da alcuni come un gesto simbolico, potrebbe consolidare la sua posizione come leader emergente della sinistra francese soprattutto se riuscirà a mantenere l’attenzione mediatica e a mobilitare il sostegno popolare. D’altro canto, la possibilità di un governo di compromesso, con Cazeneuve o Bertrand, potrebbe offrire a Macron una via d’uscita per evitare un confronto diretto con una sinistra rafforzata e determinata.

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Meloni e i numeri a intermittenza sui redditi: la propaganda fatta di cifre buone solo se crescono

C’è chi con i numeri ci gioca al Lotto e chi li usa per fare magie. Giorgia Meloni, invece, li usa per fare propaganda. Li estrae dal cilindro quando le servono, li fa sparire quando non tornano. Una vera prestigiatrice dei dati economici.

L’ultimo numero magico l’ha estratto il 12 agosto, annunciando trionfante sui social che “i dati economici del primo trimestre 2024 ci regalano una buona notizia per l’Italia”. La manna dal cielo, secondo la presidente del Consiglio, sarebbe che “il reddito reale delle famiglie italiane è cresciuto del 3,4 per cento, segnando l’aumento più forte tra tutte le economie del G7”.

Redditi: il Fact Checking di Pagella Politica

Peccato che, come ci ricorda Pagella politica, fonte preziosa per smascherare i trucchi di magia della politica, Meloni abbia l’abitudine di citare i dati Ocse solo quando le fanno comodo. Un trimestre positivo? Evviva, festeggiamo! Un trimestre negativo? Silenzio di tomba.

Facciamo un piccolo viaggio a ritroso. Nel quarto trimestre 2023, il reddito delle famiglie italiane era calato dello 0,4%, mentre la media del G7 cresceva dello 0,3%. Meloni? Muta come un pesce. Nel secondo trimestre 2023? Altro calo dello 0,4%. E la nostra premier? Zitta come una tomba.

Il valzer dei dati: un passo avanti, due indietro

Il gioco si fa ancora più interessante se guardiamo all’intero 2023. Il reddito reale delle famiglie italiane è sceso dello 0,4% rispetto al 2022, mentre la media dei Paesi G7 cresceva dell’1,5%. Numeri mai pronunciati dalle parti di Palazzo Chigi. 

Il capolavoro arriva l’8 febbraio, quando l’Ocse pubblica i dati del terzo trimestre 2023. Qui il reddito delle famiglie italiane cresce dell’1,4% rispetto al trimestre precedente. Ed ecco che Meloni cambia copione, gridando ai quattro venti che i redditi delle famiglie italiane sono cresciuti “sei volte” più degli altri Paesi. Peccato si sia “dimenticata” di specificare che si trattava di un confronto trimestrale, non dall’inizio del suo governo.

E ora arriviamo al presente, con questo fantastico +3,4% del primo trimestre 2024. Un dato positivo, certo, ma che rischia di dare un quadro distorto se non lo si inserisce in un contesto più ampio. Come ci ricorda ancora Pagella politica, nonostante questo miglioramento, il reddito reale delle famiglie italiane resta più basso di quello registrato nella seconda metà del 2021. E se allarghiamo ancora lo sguardo, non ha ancora superato il livello del 2007, pre-crisi economica.

Ma questi sono dettagli che la premier preferisce non raccontare. I numeri sono come le ciliegie: uno tira l’altro. Ma la Meloni preferisce fare la raccolta selettiva, prendendo solo quelli maturi e lasciando gli altri a marcire sull’albero. E così, mentre la premier si vanta di aver reso le famiglie italiane “più ricche”, la realtà ci racconta una storia diversa. Una storia fatta di alti e bassi, di trimestri positivi e negativi, di una ripresa ancora fragile e incerta.

La magia dei numeri: ora li vedi, ora non li vedi

La propaganda si nutre di slogan, non di analisi complesse. E allora ecco che un singolo dato positivo diventa la prova del successo delle politiche del governo, mentre i dati negativi vengono comodamente ignorati. È questo il gioco delle tre carte alla Meloni: mostra quello che vuole si veda, nasconde quello che non le fa comodo. E intanto, le famiglie italiane continuano a fare i conti con una realtà economica ben più complessa di quella raccontata nei tweet trionfalistici della premier.

La prossima puntata dello show “I numeri magici di Giorgia” è dietro l’angolo. Basta aspettare il prossimo dato positivo e… voilà! La magia si ripeterà. Peccato che, come in ogni trucco di magia che si rispetti, la realtà sia ben diversa dall’illusione. E a pagare il prezzo del biglietto, come sempre, saranno gli italiani.

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