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La tentazione di Forza Italia

Al momento è solo un’ipotesi al limite della provocazione ma se fosse proprio Forza Italia il partito che potrebbe far cadere il governo Meloni? Non è solo il confuso attivismo di Matteo Salvini e il prevedibile congresso della Lega a preoccupare l’inquilina di Palazzo Chigi.

Mettiamo in fila fatti. Ieri in un’intervista a a Repubblica l’ex viceré di Silvio Berlusconi in Sicilia, Gianfranco Miccichè, ha annunciato l’abbandono di Forza Italia. “Oggi, all’interno della coalizione di centrodestra, non si può più neppure parlare di diritti civili – dice -. Quella di Meloni è una destra che sta rimuovendo i valori del congresso di Fiuggi. Sta facendo repressione. È ovvio che la maggior parte degli esponenti di Forza Italia che hanno una concezione riformista e liberale della vita stia male”.

Al di là degli interessi personali dell’ex sottosegretario di Berlusconi i suoi lamenti sono diffusi nel partito e tra gli elettori molto di più di quello che sembra. Secondo indizio: qualche giorno fa il forzista Giorgio Mulè in un’intervista a Il Foglio ha detto che “non serve stare al governo” se Forza Italia non incide. La mancata incidenza di Forza Italia sul governo è anche una delle insoddisfazioni della famiglia Berlusconi.

Terzo indizio. Come nota Daniela Preziosi su Domani le prossime elezioni tedesche potrebbero vedere la Cdu allearsi con Spd, tenendo fuori i sovranisti. A quel punto nel Ppe europeo FI rimarrebbe l’unico partito ancorato (se non addirittura dipendente) a forze politiche che sono state escluse dall’asse di comando europeo. Da perno del Ppe in Ue, Forza Italia finirebbe per essere un’irrilevante appendice.

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Condotta antisindacale, la Rai costretta a pubblicare il dispositivo di condanna emesso dal giudice

Prima la condanna, poi la pubblicazione. La condanna inflitta dal Tribunale di Roma alla Rai per condotta antisindacale, in relazione allo sciopero di 24 ore indetto dall’Usigrai dalle 5:30 del 6 maggio alle 5:30 del 7 maggio 2024, è apparsa ieri in bella vista su diverse testate nazionali. Così come imposto a Viale Mazzini dalla sentenza.

Secondo la quale, la Rai ha violato l’art. 34 del Contratto Nazionale di Lavoro Giornalistico, l’art. 21 del contratto integrativo Rai-Usigrai e il punto 6 dell’Intesa del 4/12/2000 sulla regolamentazione del diritto di sciopero non consentendo la lettura del comunicato sindacale sulle ragioni dell’astensione dal lavoro in diversi telegiornali.

Oltre quindi a disporne la lettura, il tribunale ha ordinato inoltre la pubblicazione del suo dispositivo, a spese della RAI, per due giorni consecutivi sui quotidiani “La Repubblica”, “Il Corriere della Sera” e “La Stampa”, sia in versione cartacea che online. Il testo dovrà apparire anche sulle home page dei siti web www.rai.it e www.rainews.it.

Le spese legali sono state compensate per metà, con la RAI condannata a rimborsare all’Associazione Stampa Romana, promotrice del procedimento, la restante metà pari a 2.500 euro, oltre a rimborsi forfettari, IVA e CPA come previsto dalla legge.

La sentenza, emessa dalla dott.ssa Laura Cerroni, si basa sull’art. 28 della legge 300/1970 e rappresenta un significativo pronunciamento sulle pratiche sindacali all’interno dell’emittente pubblica nazionale.

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“Post indegno del servizio pubblico”. Pure l’Usigrai contro Vespa per il commento su Egonu e Sylla

Non si placano le polemiche su Bruno Vespa. Il conduttore di Porta a Porta, è finito nel mirino dell’Usigrai dopo il controverso commento sui social network a proposito delle pallavoliste azzurre Egonu e Sylla. L’occasione, che avrebbe dovuto essere di pura celebrazione per la vittoria della nazionale femminile di volley alle Olimpiadi di Parigi 2024, si è trasformata in un caso di studio su come non congratularsi con degli atleti nel XXI secolo.

Vespa ha scritto sul suo profilo X: “Straordinaria la nazionale pallavolista femminile. Complimenti a Paola Enogu (sic) e Myriam Sylla: brave, nere, italiane. Esempio di integrazione vincente”. Un tweet apparentemente innocuo che ha scatenato una tempesta di critiche. Comprese quelle dell’Usigrai, il sindacato dei giornalisti Rai.

Il post di Vespa e la reazione del sindacato: un caso di razzismo latente?

In un comunicato ufficiale, l’Usigrai non ha usato mezzi termini: “Il post su X di Bruno Vespa è indegno del servizio pubblico. Vespa, oltre a ignorare totalmente la storia delle due giocatrici, che sono nate in Italia dove si sono formate sportivamente, sottolinea senza alcun motivo il colore della loro pelle, dimostrando un razzismo latente e una mentalità retrograda”.

Ma non è tutto. Il sindacato ha colto l’occasione per ricordare altri recenti episodi discutibili che hanno visto protagonista il conduttore: “Che Vespa sia ormai totalmente inadeguato per il servizio pubblico lo dimostra ogni volta, non ultima la puntata sull’interruzione volontaria di gravidanza con ospiti soli uomini”.

La domanda che sorge spontanea e che l’Usigrai non manca di porre è: “Ci chiediamo cosa aspetti la Rai a intervenire, considerata anche l’onerosa collaborazione dell’artista, escamotage usato per aggirare il tetto dei 240mila euro di retribuzione nella pubblica amministrazione”.

A gettare ulteriore benzina sul fuoco ci ha pensato Rai Sport, che ha evidenziato l’errore di Vespa nel cognome di Paola Egonu, scritto “Enogu”. Un dettaglio che, seppur minore rispetto alla sostanza del messaggio, non fa che sottolineare una certa superficialità nel trattare l’argomento.

Di fronte alle critiche, Vespa ha tentato di difendersi con un altro tweet: “Sapevo benissimo che Egonu e Sylla sono nate in Italia. Ma anche loro purtroppo debbono integrarsi in un mondo più razzista di quanto s’immagini. E le due campionesse ci sono riuscite benissimo”. Una precisazione che, anziché placare gli animi, ha sollevato ulteriori perplessità sulla percezione del conduttore riguardo temi delicati come l’integrazione e il razzismo.

È doveroso chiedersi: in un paese dove le seconde generazioni sono una realtà consolidata, è ancora accettabile parlare di “integrazione” riferendosi a cittadini italiani nati e cresciuti nel nostro paese? E soprattutto, è ammissibile che una figura di spicco del servizio pubblico continui a perpetuare stereotipi e visioni anacronistiche della società italiana

Il caso Vespa solleva questioni più ampie sul ruolo e la responsabilità dei media pubblici nella formazione di una coscienza civica moderna e inclusiva. In un’Italia sempre più multietnica e multiculturale, c’è ancora spazio per visioni che, seppur non intenzionalmente, rischiano di alimentare divisioni e pregiudizi?

Il ruolo dei media pubblici nell’italia multietnica

I vertici Rai, finora, hanno mantenuto un silenzio imbarazzante sulla vicenda. Resta da vedere se e come l’azienda deciderà di affrontare questa ennesima controversia legata a uno dei suoi volti più noti. Nel frattempo, Paola Egonu e Myriam Sylla continuano a far parlare di sé per i loro meriti sportivi.

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Spose bambine a soli nove anni, la legge-vergogna proposta in Iraq

La recente proposta di legge in Iraq che permetterebbe di abbassare l’età legale per il matrimonio a 9 anni sta suscitando una forte ondata di indignazione sia a livello nazionale che internazionale. Il disegno di legge è stato avanzato dal Comitato per i Diritti Umani del Parlamento iracheno e ha immediatamente provocato reazioni contrarie da parte di attivisti, organizzazioni per i diritti umani e figure religiose.

Un attacco ai diritti delle bambine: le reazioni degli attivisti

Hanaa Edwar, una delle principali attiviste per i diritti delle donne in Iraq, ha definito la proposta come “un attacco diretto ai diritti delle bambine”, sottolineando come essa rappresenti un ritorno al passato, minando decenni di progressi ottenuti a fatica nel campo dei diritti delle donne. Edwar ha inoltre avvertito che la legge potrebbe portare a un aumento dei matrimoni forzati, esponendo le bambine a gravidanze precoci e mettendo a rischio la loro salute fisica e mentale.

L’organizzazione Human Rights Watch ha fatto eco a queste preoccupazioni, denunciando il rischio che la legge possa normalizzare e legalizzare pratiche che violano i diritti umani fondamentali. Belkis Wille, ricercatrice senior per Human Rights Watch, ha dichiarato che il disegno di legge “sfrutta la religione per giustificare una pratica disumana”, evidenziando come esso contrasti con le convenzioni internazionali sui diritti dell’infanzia, alle quali l’Iraq ha aderito.

La proposta di legge si inserisce in un contesto più ampio di discussioni sull’interpretazione della Sharia nel diritto iracheno. I sostenitori della legge affermano che essa è conforme alla legge islamica, che permetterebbe il matrimonio una volta raggiunta la pubertà. Tuttavia, questa interpretazione è altamente contestata e ritenuta anacronistica da molti esperti, che sottolineano la necessità di adeguare le leggi alle esigenze moderne e di proteggere i minori.

Amnesty International ha emesso una dichiarazione in cui esprime “profonda preoccupazione” per la proposta di legge, avvertendo che, se approvata, potrebbe avere effetti devastanti sui diritti delle bambine in Iraq. L’organizzazione ha inoltre fatto appello alla comunità internazionale affinché faccia pressione sul governo iracheno per ritirare il disegno di legge.

Le implicazioni globali di una legge controversa

Le implicazioni della proposta sono profonde e potrebbero estendersi ben oltre i confini dell’Iraq. Se la legge dovesse passare, potrebbe costituire un pericoloso precedente per altri paesi della regione, dove i diritti delle donne e dei bambini sono spesso subordinati a interpretazioni rigide della legge islamica. I critici temono che questo possa portare a una regressione nei diritti delle donne in tutto il Medio Oriente.

Il dibattito sta portando alla luce le profonde divisioni all’interno della società irachena, tra coloro che sostengono un’interpretazione conservatrice della legge islamica e coloro che lottano per un Iraq più progressista, che rispetti i diritti umani e l’uguaglianza di genere. Si tratta di un banco di prova cruciale per il futuro del paese e per il ruolo che la religione giocherà nella sua legislazione.

Per questo in molti confidano sulla pressione internazionale che potrebbe giocare un ruolo determinante nel bloccare questa legge. Il sostegno della comunità globale alle organizzazioni irachene che si oppongono alla proposta potrebbe essere decisivo nel determinare l’esito di questa battaglia legislativa.

A differenza della vicina Arabia Saudita, l’Iraq non ha un sistema di tutela maschile che richiede alle donne di avere il permesso di un marito, padre o tutore maschio per fare scelte di vita cruciali come il matrimonio. Tuttavia, una nuova proposta, che ha superato la sua prima lettura nel parlamento iracheno questa settimana, darebbe alle autorità religiose il potere di decidere sugli affari familiari, tra cui il matrimonio, il divorzio e la cura dei figli. 

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Dopo Parigi partono le Olimpiadi della poltrona a Roma: pure il Coni nel mirino del governo

Olimpiadi come simbolo di sportività e pacificazione? Ma va. Anche il terreno olimpico per il governo Meloni è territorio di conquista. La strategia è sempre la stessa, sostituire con il principale intento di occupare. Non importa che l’Italia sportiva da poche ore si possa godere lo straordinario successo nel medagliere che le consegna il nono posto. 

La poltrona del Coni più ambita di una medaglia

Mentre gli atleti si sfidavano nelle ultime gare la prima preoccupazione del ministro dello Sport Andrea Abodi è stata quella di chiarire il futuro delle poltrone, molto più succulente di qualsiasi medaglia di qualsiasi metallo. “Dalle poltrone ci si deve anche alzare”, aveva detto il ministro qualche giorno fa, facendo riferimento al futuro cambio ai vertici del Coni. Come specificato dalla legge, infatti, l’attuale presidente non potrà ricandidarsi per un nuovo mandato. “Da Andrea non me lo aspettavo”, ha commentato Giovanni Malagò.

Così ieri il presidente del Coni durante la conferenza stampa in Casa Italia ha deciso di tirare la stoccata: “Abodi ha parlato di fine ciclo? Penso che oggi è un giorno di festa, la cosa meno bella è che sia stato molto fuori luogo il ministro dello Sport. A cinque giorni dalla fine delle Olimpiadi, sapendo quanto ci ho messo la faccia e quanto mi sia speso, ha sottolineato questa cosa. Non è solo un problema di stile – ha commentato Malagò -. Mi ha fatto però piacere perché la politica deve occuparsi di sport, che Abodi sia partito e sia venuto oggi a vedersi la pallavolo, era in vacanza a Cagliari. Noi ne abbiamo bisogno”.

Le regole del Comitato olimpico italiano dicono che il presidente non può ricandidarsi per più di tre volte ma le regole, si sa, possono essere usate, osate e perfino cambiate. Nelle federazioni sportive, ad esempio, il limite dei mandati è superabile se il candidato presidente raccoglie due terzi dei voti a scrutinio segreto. Malagò da mesi chiede che il Coni si allinei alle federazioni che rappresenta senza ottenere risposta dal governo.

La strategia politica dietro il cambio ai vertici

Dalle parti di Palazzo Chigi, come rivela anche Repubblica, si ha fretta di sostituire l’attuale presidente del Coni con un volto da presentare in occasione delle prossime Olimpiadi invernali di Milano-Cortina nel 2026. Il nome individuato dai partiti di maggioranza è quello di Luca Zaia, attuale presidente della Regione Veneto che non potrà ricandidarsi, nonostante le promesse vacue del suo segretario Matteo Salvini. 

Il governatore veneto non ha corso alle ultime elezioni europee perché disturbato dalla candidatura del generale Vannacci nelle liste del suo partito. La presidenza del Coni gli permetterebbe di ottenere una prestigiosa collocazione politica che gli garantirebbe visibilità e che gli permetterebbe di continuare a essere un “simbolo” veneto. L’offerta della poltrona del Coni consentirebbe anche a Meloni di saldare il suo rapporto con un uomo di punta della Lega in rotta da tempo con il suo segretario. 

Repubblica racconta di un lasciapassare di Stefano Bonaccini, ex collega presidente di Regione, a un’ipotesi sportiva. E di una mossa di Giorgia Meloni concordata con il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, entrambi interessati a far arrivare a Roma l’unico leghista in grado di scontrarsi con Salvini. Malagò non rimarrà comunque a piedi. Per lui sarebbe già calda la poltrona della Figc. Mentre a Parigi si smontano le Olimpiadi e gli atleti si imbarcano verso casa in Italia infuria già il valzer intorno alla pratica sportiva più interessante per la politica: la rincorsa alla poltrona. Perché anche lo sport, per Meloni e compagnia, è un pezzo di quell’egemonia culturale che ossessiona il governo. 

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L’Italia di Meloni: da potenza mondiale a barzelletta olimpica

L’autorevolezza dell’Italia nel mondo promessa da Giorgia Meloni fin dalla campagna elettorale nei due anni di governo è una chimera che si sgretola ogni volta che l’Italia mette la faccia fuori da Palazzo Chigi.

Il tonfo in Europa era stata l’ultima caduta, con la presidente del Consiglio che per mesi ha indugiato tra Ursula von der Leyen e sovranisti d’ogni solfa per rimanere poi incagliata nell’irrilevanza. 

Le Olimpiadi di Parigi sono state l’ultimo puntata di un esecutivo mai all’altezza, provinciale nelle intenzioni e nelle elaborazioni. 

Solo in Italia gli esponenti di governo e della maggioranza hanno trasformato una cerimonia in un caso politico. Il vice presidente del Consiglio (nonché ministro di trasporti che quest’estate trasportano poco e male) si è esposto definendola «disgustosa». Nemmeno nell’Ungheria di Orbàn la censura alla cerimonia olimpica è diventata una priorità politica. 

La fiumana di offese di ministri e parlamentari della maggioranza verso la pugile Imane Khelif è stata una peculiarità solo italiana e solo russa. La stampa internazionale e il Cio sono rimasti basiti dall’oscurantismo italiano. Una capa di governo che incontra il Comitato olimpico per chiedere delucidazioni sull’organo sessuale di un’atleta è una barzelletta internazionale. 

È molto russa anche la battaglia interna per la presidenza della Federazione del nuoto italiana. In corsa ci sono il parlamentare di Forza Italia Paolo Barelli e il meloniano Fabio Rampelli. Immagine nitida dell’occupazione della politica di maggioranza, come negli altri campi. 

Voci di corridoio dicono che Meloni si sia proposta come referente affidabile del Cio per calmare le acque. Chissà come se la ridono, quelli. 

Buon lunedì. 

Olimpiadi 2024, il match fra Khalif e Carini, foto di Chabe01 – Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=151157588

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Un anno dopo la sua morte si può dire che Michela Murgia aveva ragione sul fascismo di ritorno – Lettera43

Controllo dei corpi, discriminazione delle minoranze, restrizione delle libertà personali: tutto ciò che la scrittrice aveva paventato sull’avvento di una strisciante autocrazia culturale si sta verificando. Per onorarla, bisogna denunciare e resistere come avrebbe fatto lei. Sta a noi decidere se essere oppositori o complici di quest’epoca cupa.

Un anno dopo la sua morte si può dire che Michela Murgia aveva ragione sul fascismo di ritorno

Un anno dopo che non c’è più Michela forse i precipitati siamo noi. Siamo noi che ci siamo spesi a difenderla e avremmo potuto ascoltarla di più, siamo noi che già al primo anno dalla sua scomparsa ci ritroviamo a commemorarla con quel misto di vergogna che accompagna certe celebrazioni che danno le vertigini per l’indolenza. Io li ricordo bene quelli che la dileggiavano quando parlava di fascismo di ritorno. Non dico tanto i fascisti, gli accoliti o i compari di questo governo Meloni, per quelli Michela Murgia è la criptonite per Superman, vomitano bile perché non riescono a trovare le parole. Ricordo bene però quelli che sono considerati progressisti, che oggi la piangeranno e allora pensavano che l’allarme fosse ingiustificato.

Qualcuno aveva liquidato le sue parole come eccessivo allarmismo

Michela ci aveva avvertito. Con lucidità chirurgica aveva diagnosticato i sintomi di un fascismo strisciante, un’autocrazia culturale che si insinuava nelle pieghe della nostra democrazia. Qualcuno ha fatto spallucce. Abbiamo liquidato le sue parole come allarmismo, come iperbole retorica di un’intellettuale troppo sensibile. Oggi, a un anno dalla sua scomparsa, ci ritroviamo a fare i conti con una realtà che sembra uscita dalle sue più cupe previsioni. Il controllo dei corpi, la discriminazione delle minoranze, la restrizione delle libertà personali: tutto ciò che Michela aveva paventato si sta materializzando sotto i nostri occhi, con la nonchalance di chi pensa di agire per il bene comune.

Un anno dopo la sua morte si può dire che Michela Murgia aveva ragione sul fascismo di ritorno
Michela Murgia (Getty).

Hanno trasformato la paura in politica, l’ignoranza in virtù, l’intolleranza in patriottismo

Non è arrivato con stivali e manganelli, questo nuovo fascismo. È arrivato in giacca e cravatta, con il sorriso sulle labbra e la retorica del “prima gli italiani“. Si è infiltrato nei media, nelle istituzioni, persino nel linguaggio quotidiano. Ha trasformato la paura in politica, l’ignoranza in virtù, l’intolleranza in patriottismo. E noi, che facciamo? La commemoriamo, Michela, perché è così facile, mica come raccogliere il testimone della sua lotta. Ci culliamo nell’illusione che basti un post sui social, una fiaccolata, un minuto di silenzio. Ma il fascismo, quello vero, quello che Michela ci ha insegnato a riconoscere, non si combatte con i like o con le candele accese. Si combatte con l’azione quotidiana, con la resistenza culturale, con il rifiuto di normalizzare l’inaccettabile.

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Un cartello di ringraziamento durante il funerale di Michela Murgia (Imagoeconomica).

Il fascismo si nutre dell’indifferenza e della rassegnazione

Michela ci ha lasciato gli strumenti per decifrare questa deriva autoritaria. Ci ha mostrato come il fascismo si nutra dell’indifferenza, della rassegnazione, della convinzione che «tanto non cambierà mai nulla». Ci ha insegnato che il fascismo non è solo un sistema politico, ma un metodo, un modo di pensare e di agire che può infiltrarsi anche nelle democrazie più consolidate. E allora nell’anniversario, invece di piangerla, onoriamola davvero. Facciamo nostre le sue battaglie, la sua intransigenza morale, la sua capacità di chiamare le cose con il loro nome. Non lasciamo che il suo pensiero diventi un’icona inoffensiva, un santino da esporre nelle librerie dei salotti buoni.

Un anno dopo la sua morte si può dire che Michela Murgia aveva ragione sul fascismo di ritorno
Un’illustrazione dello street artist Claudiano.jpeg, “Michela Murgia Bonaparte”, a Milano (Getty).

Cosa farebbe Michela Murgia se fosse qui? Alzerebbe la voce

Ricordiamoci delle sue parole: «Voi vi aspettate che il fascismo vi bussi a casa con il fez e la camicia nera e vi dica: “Salve, sono il fascismo, questo è l’olio di ricino“? Non accadrà così». No, non è accaduto così. È accaduto in modo subdolo, graduale, quasi impercettibile. Ma non per questo meno pericoloso. Oggi, mentre i tributi si sprecano, chiediamoci: cosa farebbe Michela Murgia se fosse qui? Sicuramente non si accontenterebbe di parole di circostanza. Alzerebbe la voce, denuncerebbe, lotterebbe. E soprattutto, ci spingerebbe a fare altrettanto.

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Una donna con un cartello per Michela Murgia durante la manifestazione dell’8 marzo (Getty).

Serve un futuro di libertà, di uguaglianza, di diritti per tutti

Perché il vero omaggio a Michela Murgia non è celebrare il suo passato, ma costruire il futuro che lei ha immaginato. Un futuro di libertà, di uguaglianza, di diritti per tutti. Un futuro in cui il fascismo, in tutte le sue forme, sia relegato nei libri di storia e non nelle cronache quotidiane. Questo è il compito che ci ha lasciato. Questa è l’eredità che dobbiamo raccogliere. Non possiamo permetterci il lusso dell’indifferenza o della rassegnazione. Un anno dopo, il modo migliore per ricordare Michela è essere Michela. Alzare la voce, denunciare, resistere. Perché, come ci ha insegnato, ogni epoca ha il suo fascismo. Sta a noi decidere se esserne oppositori o complici.

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Il bluff di Meloni si scioglie sotto il sole: balneari al capolinea

Forse sarebbe meglio chiarire subito che lo “sciopero dei balneari” non era uno sciopero. Si trattato di due ore di serrata dalle 7 e 30 del mattino, quindi in spiaggia ci sono solo i gabbiani che non affittano lettini e ombrelloni. Il Sindacato Italiano Balneari e Fiba-Confesercenti esulta parlando di “successo strepitoso”. 

Lo sciopero-farsa degli ombrelloni: una protesta senza pubblico

“Abbiamo registrato una massiccia partecipazione in tutta Italia allo sciopero degli ombrelloni, oltre ogni aspettativa”, hanno affermato Antonio Capacchione, presidente del Sindacato Italiano Balneari aderente a Fipe/Confcommercio e Maurizio Rustignoli, presidente Fiba-Confesercenti. Capacchione non le manda a dire alla presidente del Consiglio: “Il mio non è uno stabilimento vip, – dice – è un lido nazional popolare di Margherita di Savoia frequentato da contadini e operai, ma visto che la premier Meloni sta in Puglia, la sfido a venire da me a parlare qui, sotto l’ombrellone, per chiarirci. Ma sono certo che non avrà il coraggio, preferisce il resort nel Salento”. Per Capacchione era addirittura “meglio la legge Draghi” perché “il far west fa male a tutti”. 

Il successo definito strepitoso è invece solo “una sceneggiata” per Massimo Dona presidente dell’Unione Nazionale Consumatori perché “lo sciopero dei balneari si chiude a tarallucci e vino, o forse dovremmo dire a pane e pomodoro, considerato che alcuni gestori hanno optato per fare banchetti e brindisi con i loro clienti”. Il Codacons parla di “adesioni al di sotto delle attese e organizzazioni totalmente divise sulla serrata”.

Il silenzio di Meloni e l’ombra dell’Europa: un governo in fuga dalle responsabilità

Di certo c’è il silenzio della presidente del Consiglio che lascia l’imbarazzo ai suoi ministri e la maggioranza. Il viceministro alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, ripete la solita manfrina del “trovare una posizione di mediazione tra le giuste esigenze degli imprenditori e le regole europee”. Solo che mediare sulle regole significherebbe riscriverle e dalle parti di Bruxelles e dei balneari la pazienza è esaurita da tempo. 

Il cerino rimane in mano al ministro Raffele Fitto che continua a trattare con l’Europa dentro margini ridottissimi. Il manico del coltello è nelle mani dell’Unione europea che tra due mesi aspetterà il verdetto della Corte di giustizia europea quando l’infrazione sarà scritta nero su bianco. A quel punto la melina del governo costerà per ogni giorni di ritardo, rischiando di diventare un clamoroso autogol politico con i balneari, con l’Europa e per il bilancio dello Stato. 

La soluzione sul tavolo è sempre e solo una: dare il via subito alle gare come scritto nel ddl Draghi senza concedere nessun vantaggio e nessun indennizzo agli attuali gestori. La Corte di giustizia Ue ha già specificato che non esiste nessuna possibilità di indennizzo per “le opere non amovibili realizzate nell’area concessa”. Della stessa idea è anche il Consiglio di Stato che ha confermato l’impostazione europea nelle sue recenti sentenze. 

Che andrà a finire male lo sanno bene dalle parti del governo. Modificare l’ineluttabile è impossibile. Ora tocca trovare una narrazione compiacente per andare di fronte alla lobby accarezzata in campagna elettorale e dirle che quelle promesse erano vane. La presidente del Consiglio che voleva “cambiare l’Europa” a quel punto dovrà ammettere la sua sconfitta politica e l’ipocrisia elettorale. 

In Romagna l’ex amico di Salvini ed ex europarlamentare nella scorsa legislatura, Massimo Casanova, ha aderito alla protesta contro il governo. “Se non ci crede nemmeno lui allora è finita davvero”, dicono i suoi colleghi. La festa è finita, i balneari tornano a essere una categoria dentro le regole. Il tradimento è già consumato, manca solo la carta bollata. 

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Ben svegliato, ministro

Ben svegliato ministro. “Nessun Paese deve invadere un altro Paese e dobbiamo mantenere questa linea anche in questo caso.”. Ha parlato così ieri il ministro della Difesa mentre l’Ucraina continua la sua contro invasione nella regione russa di Kursk. Mosca reagisce colpendo un supermercato nel Donetsk e provocando undici morti. 

È la guerra, bellezza. O meglio, è la maschera che cade di fronte alla guerra “solo difensiva” che l’Italia e l’Europa propagano da tempo nel tentativo di illuderci che esistano forme di guerra educate, buone, addirittura giuste. Una “guerra difensiva”, hanno ripetuto all’infinito. E invece le armi fanno le armi, i soldati fanno i soldati e se ne fregano del fondotinta che la politica spalma a chili fingendo che sia tutto sotto controllo. 

“Il nostro tentativo è di dire che deve cessare l’attacco russo e ripristinare le regole del diritto internazionale, – ha detto Crosetto – non quello di vedere un conflitto che diventa ancora più duro, che si sposta sul territorio russo. Questo prevedrà un ulteriore peggioramento della Russia sul fronte ucraino e quindi allontanerà sempre di più la possibilità di un cessate il fuoco, che è la precondizione per un percorso di pace”. 

Quelli che hanno pronunciato le stesse parole mesi fa erano “pacifinti”, “desistenti” o amici della Russia. I bellicisti invece da ieri ci spiegano che Kiev ha bisogno di territori per trattare più agevolmente e quindi va bene così. Intanto ci sarebbe anche un’altra guerra che si è già spostata su altri territori, quella di Israele. Ben svegliato, ministro. 

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Acrobati della legge: come il governo ha inventato il decreto-preveggente

Il circo della politica italiana non smette mai di stupire. L’ultimo numero in cartellone? Un capolavoro di acrobazia legislativa che lascia a bocca aperta persino i più cinici osservatori.

Come ci racconta la brillante giurista Vitalba Azzollini in un tweet che grida allo scandalo, siamo di fronte all’ennesimo “mostro normativo”. Il governo, nella sua infinita saggezza, ha partorito un decreto-legge per correggere un disegno di legge non ancora approvato. Avete capito bene: hanno usato una toppa d’emergenza per rattoppare un buco che ancora non c’era.

Il ddl Nordio, bloccato sulla scrivania di Mattarella come un pacco sospetto, prevedeva l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Un colpo di spugna che avrebbe lasciato impuniti i pubblici ufficiali che usano denaro pubblico come fosse il proprio portafogli. Piccolo dettaglio: questa genialata cozzava contro una direttiva UE del 2017.

Cosa fare? Semplice! Si vara in fretta e furia un decreto per introdurre una norma che copra il vuoto legislativo creato da una legge non ancora in vigore. Un capolavoro di preveggenza giuridica, degno dei migliori indovini.

Oggi, finalmente, il Quirinale ha potuto firmare la conversione del decreto-tampone, aprendo la strada all’approvazione della legge originale. In pratica, hanno costruito un ponte per attraversare un fiume che loro stessi avevano deciso di scavare.

Azzollini conclude il suo tweet con parole che non lasciano spazio a interpretazioni: “Credo di aver visto raramente schifezze come questa”. E come darle torto? In questo teatrino dell’assurdo ormai abbiamo smesso di ridere da un bel po’, tra l’incredulo e il rassegnato. 

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