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Piano estate per la scuola, il ministro parla di successo. Ma il nodo resta la trasparenza

Il ministro dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara, ha recentemente dichiarato con orgoglio che il Piano estate è stato un successo, coinvolgendo circa 950mila studenti e oltre 4.500 scuole. Tuttavia, uno sguardo più attento ai dati disponibili suggerisce un’affermazione più cauta.

Il Piano estate mira a fornire attività educative estive per contrastare la perdita di apprendimento durante le vacanze, un problema noto e ben documentato. Iniziative come Arcipelago Educativo, promosse da Save the Children con la Fondazione Agnelli, hanno dimostrato l’efficacia di tali interventi nel supportare gli studenti, soprattutto quelli in situazioni di fragilità. Tuttavia, per affermare che il Piano estate sia stato un successo, è necessario avere una base dati solida e trasparente, qualcosa che attualmente manca.

L’11 aprile 2024, il ministero dell’Istruzione e del merito ha lanciato un avviso pubblico per il Piano estate 2023-2024 e 2024-2025, con un importo complessivo stanziato di 400 milioni di euro provenienti dal Fondo sociale europeo Plus (Fse+). Questi fondi sono stati suddivisi in 131 milioni per le regioni “più sviluppate”, 32 milioni per le regioni “in transizione” e 237 milioni per le regioni “meno sviluppate”. A queste risorse si aggiungono fondi dal Pnrr e Pon 2014-2020, ampliando notevolmente il budget disponibile. Tuttavia, secondo lo studio di Barbara Romano per lavoce.info, la partecipazione è stata modesta, coinvolgendo circa la metà delle scuole e mostrando una significativa disparità tra regioni. Le risorse sono state utilizzate solo al 59%, e il ministero non ha fornito dettagli sufficienti per una valutazione precisa.

Mancanza di trasparenza nei dati del Piano estate

Il punto cruciale sarebbe la mancanza di trasparenza. Il ministero ha pubblicato solo i dati complessivi, senza specificare l’allocazione dei fondi tra le diverse fonti. Non sappiamo quanti studenti vulnerabili siano stati effettivamente coinvolti o come siano state strutturate le attività. Questo rende impossibile valutare l’efficacia reale del piano. Ad esempio, secondo Romano, il totale richiesto dalle scuole è di soli 237 milioni, rappresentando il 59% delle risorse destinate. Inoltre, il ministro ha parlato di oltre 40mila studenti coinvolti in percorsi Pcto e 110mila studenti in formazione in vari percorsi Pnrr, il che suggerisce che le percentuali di utilizzo siano sovrastimate. Un calcolo preciso del tasso di utilizzo non è al momento possibile, perché il ministero ha pubblicato le graduatorie con gli importi totali senza spacchettarli per fondo di afferenza.

Secondo Romano la letteratura evidenzia l’importanza di attività estive ben strutturate per prevenire la perdita di apprendimento e migliorare le competenze non cognitive. Tuttavia, senza dati dettagliati, è difficile stabilire se il Piano estate stia effettivamente raggiungendo questi obiettivi. Il Piano estate è progettato per mantenere aperte le scuole durante l’estate, offrendo attività a bambini e ragazzi che altrimenti non avrebbero accesso a esperienze educative e ricreative. I criteri di selezione favoriscono le scuole con alti tassi di abbandono scolastico e basso status socioeconomico. Ma non è chiaro e non è verificabile se effettivamente queste scuole abbiano realmente raggiunto gli studenti più bisognosi.

Suggerimenti per migliorare il Piano estate

Di fronte a queste criticità lo studio di Romano suggerisce un bando integrativo per l’estate 2024-2025 che consenta una pianificazione più anticipata e mirata. Magari ripensando la formula del bando stesso, utilizzando strumenti di valutazione che forniscano evidenze utili per capire le ragioni della bassa partecipazione e per identificare interventi più adeguati. 

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Lavoro, l’Italia dei contratti scaduti: quasi cinque milioni di italiani in attesa del rinnovo

In Italia, terra di paradossi e contraddizioni, c’è una storia che si ripete con regolarità quasi matematica: quella dei contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) scaduti. Un fenomeno che, lungi dall’essere marginale, coinvolge milioni di lavoratori in attesa di un rinnovo che tarda ad arrivare.

I numeri, forniti dall’Istat e riportati da Pagella Politica, parlano chiaro: a giugno 2024, il 36% dei Ccnl risultava scaduto. Tradotto in termini umani, significa che quasi 5 milioni di lavoratori dipendenti aspettano un rinnovo contrattuale. Un’attesa che, in alcuni casi, si protrae da anni. Il dato più allarmante riguarda la pubblica amministrazione, dove il 100% dei contratti è scaduto. Un record negativo che fa impallidire persino il settore giornalistico, dove i contratti attendono un rinnovo da otto anni, precisamente da dicembre 2016.

Il caso dei dipendenti Rai

Il caso dei dipendenti Rai è emblematico. Quasi 10mila lavoratori stanno trattando con l’azienda per rinnovare il loro Ccnl, scaduto alla fine del 2022. Un’intesa iniziale, raggiunta il 17 luglio, è stata bocciata dieci giorni dopo da un referendum dei dipendenti stessi.

Il professor Lucio Imberti dell’Università di Bergamo, intervistato da Pagella Politica, spiega che i contratti collettivi sono espressione diretta delle condizioni del mercato del lavoro. L’inflazione gioca un ruolo chiave: quando cresce poco, la pressione per il rinnovo è bassa. Ma quando l’inflazione aumenta, come sta accadendo ora, la questione retributiva torna al centro del dibattito.

Disparità tra settori e contratti “pirata”

Non tutti i settori, però, vivono lo stesso dramma. Il contratto dei bancari, per esempio, è stato rinnovato a novembre 2023 dopo essere scaduto alla fine del 2022. Il nuovo accordo prevede aumenti medi di 435 euro mensili e una riduzione dell’orario lavorativo di mezz’ora a settimana.

Il professor Marco Leonardi dell’Università di Milano, ex capo del Dipartimento per la programmazione economica della Presidenza del Consiglio, evidenzia come i ritardi nei rinnovi siano meno frequenti in settori produttivi come l’industria. Qui, gli aumenti tendono a essere in linea con l’inflazione, almeno nei contratti stipulati dai grandi sindacati. I contratti “pirata” invece, che sono molto più diffusi in settori come i servizi, spesso non garantiscono aumenti adeguati. 

Contratti pirata e salario minimo

I cosiddetti “contratti pirata” vengono sottoscritti da organizzazioni poco rappresentative dei lavoratori e che spesso prevedono condizioni economiche e tutele inferiori rispetto a quelli siglati dai sindacati principali. Questi contratti, proliferati negli ultimi anni a causa della mancanza di regole chiare, rappresentano una sfida ulteriore nel già complesso panorama dei Ccnl.

In questo contesto, il dibattito sul salario minimo assume una rilevanza particolare. Nonostante l’Italia abbia una copertura dei contratti nazionali pari a circa l’80% dei lavoratori, esiste una fascia di lavoratori – stimata intorno al 6-7% della forza lavoro – caratterizzata da forte marginalità e precarietà, per cui l’introduzione di un salario minimo potrebbe rappresentare una tutela importante. Come spiega a Pagella Politica Leonardi il salario minimo riguarda tutti quei lavoratori per cui il contratto collettivo ha valore puramente formale, come per esempio chi fa le consegne, chi lavora nei bar, i giovani che lavorano la sera nel settore della ristorazione.

Già oggi tanti lavoratori, nonostante siano coperti da qualche tipo di Ccnl, guadagnano meno delle 9 euro l’ora proposte dal salario minimo. Forse l’ipocrisia sul mondo del lavoro sta proprio qui: chi non vuole il salario minimo si appoggia a contratti collettivi che comunque sono al palo. I lavoratori intanto si impoveriscono. 

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La destra al potere e l’allergia alla verità storica

Un soffio c’era già nelle parole del presidente del Senato Ignazio Maria Benito La Russa: “vile attentato da sentenze attribuito a matrice neofascista” aveva detto in occasione dell’anniversario della strage di Bologna. Delimitare una verità storica e di coscienza collettiva a un mero risultato giudiziario è un modo sottile e furbo per sminuire.

Che la strage di Bologna del 1980 fu un vile attentato dei neofascisti è scritto nelle sentenze ma anche nel tortuoso percorso giudiziario

Che la strage di Bologna del 2 agosto del 1980 fu un vile attentato dei neofascisti che ammazzarono 85 persone e ne ferirono più di 200 è scritto nelle sentenze ma è scritto anche nel tortuoso percorso giudiziario, sempre intralciato da depistaggi di Stato (di matrice neofascista). Per questo Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione dei familiari delle vittime, nel suo discorso durante la commemorazione ha ricordato che “le radici di quell’attentato figurano a pieno titolo nella destra italiana di Governo”.

Nella sentenza si legge chiaro e tondo che il condannato Paolo Bellini ha dichiarato di essere stato “infiltrato per conto di Almirante”. E il partito di Giorgia Meloni fieramente ha le radici in quell’Msi. L’atto finale dello smascheramento è l’intervista di ieri in cui Federico Mollicone, deputato di FdI e presidente della Commissione cultura alla Camera, dichiara che la sentenza sulla strage di Bologna è frutto di “un teorema politico per colpire la destra”.

Sono le stesse parole dell’ex portavoce del presidente della Regione Lazio Francesco Rocca. Marcello De Angelis fu costretto alle dimissioni. Mollicone lo salveranno. Ma lo spirito è quello lì. Le radici sono quelle lì. Non c’è nemmeno bisogno di inchieste. Basta chiedere.

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Le parole di Kimia Yousofi sono per noi

Kimia Yousofi, una dei sei atleti in gara alle Olimpiadi di Parigi per l’Afghanistan, ha corso i 100 metri con due secondi di distacco dalla vincitrice. 

Sul suo pettorale, insieme al numero assegnato dall’organizzazione olimpica, ha scritto “educazione” e “i nostri diritti” perché il mondo fosse costretto a ricordare. Il ritorno al potere dei talebani in Afghanistan è avvenuto ormai tre anni fa. Tre anni in cui l’occidente, Europa inclusa, continua a ripetere che non lascerà sole le donne che sono lasciate sole. 

«Penso di sentirmi responsabile per le ragazze afghane perché non possono parlare», ha sottolineato Yousofi dopo la gara. «Non sono una persona politica, faccio solo ciò che ritengo che sia vero e giusto. Posso parlare con i media. Posso essere la voce delle ragazze afgane. Posso dire alle persone cosa vogliono: vogliono diritti fondamentali, istruzione e sport». 

Ha ragione Yousofi: il primato dei diritti è una questione prepositiva, viene prima di qualsiasi analisi su governo e governati. Dovrebbe stare prima nelle pagine dei giornali. 

Prima della sua nascita i genitori di Yousofi erano scappati dall’Afghanistan per andare in Iran. Nel 2016, quando i talebani erano esclusi dal governo, lei è tornata per allenarsi in patria. Quando i talebani con l’enorme aiuto del nostro disinteresse sono tornati al governo Yousofi è fuggita in Australia. Alle Olimpiadi insieme alle gambe ha portato le parole che vanno dette ma lì non si possono dire. E nonostante la distrazione della cronaca sportiva quelle parole sono rivolte a noi. 

Buon lunedì. 

Nella foto: Kimia Yousofi (dal suo profilo facebook)

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Il Bestiario della settimana – Gli spaghetti col brodo di Meloni. E il Cruciverbone dei patrioti di Donzelli che scalda l’estate FdI

Vacanze albanesi

Nonostante a giugno Giorgia Meloni avesse indicato il 1° agosto come il giorno dell’entrata in funzione delle strutture, slitta ancora l’apertura dei centri italiani per migranti in Albania: i lavori edili procedono a rilento. Alfredo Mantovano comunica che ci vorrà qualche settimana. Probabilmente hanno preso i treni coordinati dal loro collega ministro Salvini. 

Il cruciverbone

Giovanni Donzelli ha presentato due giorni fa il “Cruciverba dei patrioti” che, come lo scorso anno, viene distribuito ai bagnanti in spiaggia. Le definizioni sono quasi tutte politiche, tra attacchi alle opposizioni e argomentazioni a favore delle riforme del premierato e dell’autonomia. Un esempio? “Non conviene lasciarle le chiavi quando vai in vacanza se ce l’hai come vicina”. Qualcuno tra il pubblico risponde: Salis! E Donzelli ride e si complimenta. Balneari abusivi. 

Il lollobrigidismo virale

Dopo la vittoria dello schermidore Cheung Ka-long sull’italiano Filippo Macchi alle Olimpiadi di Parigi i sostenitori di Cheung hanno salutato il suo successo con post sulle pizze all’ananas. “Mangeremo molte pizze all’ananas per celebrare questa vittoria”, hanno scritto su Instagram. Pizza Hut a Hong Kong ha offerto condimenti gratuiti all’ananas su qualsiasi pizza quando si cenava nelle sue filiali martedì e mercoledì per celebrare la vittoria. Com’era la storia del ministro Lollobrigida Che con il cibo non si fanno le guerre? 

Mannaggia, Vannacci

Come fa notare su X Nonleggerlo il parlamentare europeo della Lega Roberto Vannacci ha rilanciato “immagini fake (pure ammuffite, oramai – consiglio un viaggio dell’orrore tra i commenti). Ad un giornalista diceva, “per fare il suo lavoro occorre prima informarsi”. Corretto. Per fare l’eurodeputato (!), ecco qua”. C’è una nuova piccola differenza: ora Vannacci guadagna un sacco di soldi a Bruxelles e comincia già a non stare più così simpatico ai suoi: troppi soldi per fare il social manager del disagio. 

Medaglia di errori

Medaglia d’odio a Hoara Borselli che sul caso della pugile Khelif prima scrive “Alle olimpiadi francesi succede che un uomo viene ammesso alle gare di pugilato delle donne. Perché? Perché ha detto: mi sento donna. Ah, ok. lo mi sento presidente della Francia. Macron, levati di mezzo……”. Poi le fanno notare che ha scritto una boiata e corregge: “Che le atlete donne debbano gareggiare con uomini trans è una follia. Ci sono differenze biologiche sostanziali che già in passato hanno portato a escludere questo tipo di competizioni. Non è discriminazione, è giustizia!”. Ma è sbagliato anche questo. 

“So che non mollerai”

“So che non mollerai”, scrive una travagliata Giorgia Meloni alla pugile italiana Carini. Passano poche ore (ma proprio poche) e la pugile annuncia l’addio alla boxe. Impegni futuri? Volendo essere maligni c’è quel bel nuovo centro sportivo a Caivano e le prossime elezioni regionali in Campania. Ma solo a volere essere cattivi, eh. Intanto ritagliamo questo paragrafo e teniamolo da parte. 

Amiche degli amici

Titolo di Repubblica: “Italia oro nella spada a squadre, francesi battute in casa. Le 4 regine: l’amica di Diletta Leotta, la francese, la psicologa, e la mamma”. Ovviamente qualcuno si incazza. Le scuse del quotidiano sono ancora peggio: “Può succedere di sbagliare e dunque ci scusiamo con quante e quanti tra le nostre lettrici e lettori si sono sentiti offese e offesi”. E le scuse alle atlete? Insomma, non offendetevi, e che c….!

Spaghetti… col brodo

“Ho fatto almeno due cene, una con Xi Jinping e l’altra col primo ministro. Oltre a un salmone buonissimo, posso dire che ho gradito molto gli spaghetti in brodo”. Così la premier Giorgia Meloni in Cina facendo anche il gesto degli spaghetti risponde alla domanda sul cibo cinese provato durante la visita di Stato da Xi Jinping. E’ la stessa che vorrebbe fare credere al mondo di avere redarguito Xi. Sì come no, cor brodo. 

Sempre a proposito di cibo

Il presidente brasiliano Lula in un’intervista a Globo si è lamentato che le porzioni di cibo durante la visita ufficiale in Italia erano “troppo piccole, mi serve quantità”. Come direbbe un vecchio detto “se so’ magnati già tutto gli artri”. 

Linguisti al governo

Un post da incorniciare scritto da GianLink su X: “E’ incredibile, prima riconoscono solo 2 generi (uomo e donna) poi chiamano “trans algerino” una nata donna, e infine Storace ha inaugurato i pronomi utilizzando il termine “pugilessa” per definire la pugile italiana”. A voi la linea. 

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Quando il codice rosso non funziona: la storia di Elisa, viva ma non ancora salva – Lettera43

Prima la violenza economica, poi gli insulti e le botte. Dalla denuncia a marzo 2023, passano sei mesi prima che scatti il dispositivo di protezione. L’ex però continua a minacciarla sui social. Lei è riuscita a raccontare l’inferno che ha vissuto, molte altre donne no. Ed è impensabile che lo Stato le lasci da sole.

Quando il codice rosso non funziona: la storia di Elisa, viva ma non ancora salva

È una storia che provoca il fremito delle storie che vengono dal futuro. Ma è un brivido spaventoso perché il futuro qui è prevedibile e nero. Elisa ha 26 anni e conosceva Stefano da sempre, fin da bambini in Calabria, quando condividevano le compagnie. Anni dopo si rivedono, lei si innamora e si trasferisce da lui a Roma. Fin qui è l’inizio comune a tante relazioni. Ma da quel momento cominciano i segnali. Lui dice di avere un buon lavoro, in una banca in zona Tiburtina. Non era vero. E infatti poco dopo comincia a vivere del sussidio di Elisa lasciandola senza soldi per potersi muovere, per potere salire su un treno e raggiungere la sua famiglia.

La violenza economica precede quasi sempre la violenza fisica

La violenza economica come forma di controllo è lo stadio che precede la violenza fisica. L’abbiamo letto tante volte, l’abbiamo scritto tante volte raccontando le vittime di femminicidio. Però Elisa è viva, tenetelo bene a mente perché c’è differenza tra vivere e sopravvivere agli incubi e alle minacce. Lei racconta di momenti tenerissimi che si alternavano a picchi di odio, quando lui l’apostrofava «puttana», «troia», «cagna», «zingara». Il sospetto diventa paura ed Elisa riconosce di essere vittima. Una notte, frugando nei suoi cassetti, trova una pistola. Dice Elisa che lui non ha porto d’armi e che l’arma non è mai stata denunciata. Il copione è sempre lo stesso. La madre di lui minimizza, le telefonate a casa sono controllate (le uniche a cui le è concesso  rispondere). E poi immancabilmente arrivano le botte. Elisa parla di una pornomania che Stefano non riesce a controllare. Una sera viene portata in un club di scambisti e riesce a scappare. A casa lui la punisce, racconta lei, con morsi, calci e pugni. A questo punto siamo già nel baratro. «Il 28 di febbraio (2023 ndr) io non ricordo cosa sia successo», racconta Elisa, «ricordo di essere andata a dormire e che lui poco prima mi ha dato una tazza di latte, però i miei ricordi sono sfocati, ricordo che abbiamo percorso una galleria e io vedevo tutto viola, avevo i battiti accelerati e tra un vuoto e l’altro ricordo la sua voce che diceva a un’altra persona: tanto non si ricorderà mai nulla». «Non so cosa mi sia successo», continua, «se sono stata abusata e se mi hanno filmata perché non ero da sola. C’era un’altra ragazza che non conosco, era priva di sensi, e un altro uomo che non ho mai visto in vita mia».

Quando il codice rosso non funziona: la storia di Elisa, viva ma non ancora salva
Scarpe rosse simbolo della lotta alla violenza di genere (Getty Images).

A marzo 2023 la prima denuncia che rimane nel cassetto, solo a ottobre scatta il codice rosso

Quando a marzo lui cerca di strangolarla in cucina e poi ad aprile la morde in faccia Elisa scappa, raggiunge la madre, depositano denuncia. Quella denuncia per rimane nel cassetto. «Se la sono dimenticata», spiega le spiega l’avvocato, proponendole di non protestare. A ottobre, sei mesi dopo la denuncia, arriva finalmente il codice rosso, quel dispositivo di protezione pensato per intervenire immediatamente che invece qui è scattato dopo sei mesi. Siamo al 2024. A marzo lui spunta su TikTok e continua a minacciarla, pubblicamente, senza ritegno e senza paura. Minaccia di uccidere Elisa e sua madre ripetutamente. Le offese non si contano. I video sembrano un manuale del femminicidio annunciato. Ma non è tutto: l’ex fidanzato minaccia pubblicamente i Carabinieri del Nucleo investigativo di via in Selci a Roma e promette vendetta contro i magistrati Vito e Corrado della Dda di Catanzaro definendoli «infami» e «cani». «La pagherete», assicura. E a Elisa promette di «mangiarle il cuore mentre ancora batte». Non trovando aiuto lei decide di fare ciò che non dovrebbero fare donne in pericolo in un Paese civile: «L’ho sputtanato sui social, gli hanno chiuso in maniera definitiva l’account da cui mi minacciava, ma ne ha aperto subito un altro senza problemi», racconta. Era il 27 luglio.

Quando il codice rosso non funziona: la storia di Elisa, viva ma non ancora salva
Immagine generata con l’Ia (Imagoeconomica).

Burocratizzare la paura e soppesare il rischio è un lasso di tempo che troppo spesso non salva

Qui arriva la parte, se possibile, ancora più spaventosa. Elisa ha addosso il terrore di chi teme di indovinare il proprio futuro. Ha denunciato ancora. Sono passati 14 mesi dalla sua prima denuncia e lui con il suo nuovo account pubblica video in cui canta in auto, in palestra. Elisa e sua madre hanno due nuovi codici rossi. In tutto sono stati depositati 135 video di minacce. «Che nel 2024 si debba ricorrere ai social per far valere i propri diritti mi disgusta», dice Carlotta Vagnoli, scrittrice e attivista da cui ho appreso della storia di Elisa. «Mi fa anche pensare», scrive Vagnoli, «a tutte quelle donne che non possono esporsi in questo modo e che rimangono dunque isolate per anni, in attesa di un segnale da uno Stato che non le accompagna nella fuoriuscita dalla violenza». La morale della storia? Il codice rosso – come denunciano in molti – non funziona abbastanza. Burocratizzare la paura e soppesare il rischio è un lasso di tempo che troppo spesso non salva. Oggi Elisa è viva, chissà se sarà salva.

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Il costo della propaganda

Che l’Italia non brillerà nella prossima Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen è cosa certa. Resta da vedere quanto sarà fragoroso il tonfo, ma i voltafaccia di Giorgia Meloni di sicuro hanno affievolito il peso del nostro Paese a Bruxelles.

Di quanto costi in termini di credibilità che il vice presidente del Consiglio Matteo Salvini sia stato vicino a Vladimir Putin e fondamentalmente fatichi a rinnegarlo del tutto ancora oggi è sotto gli occhi di tutti. Se a questo ci aggiungiamo le carezze all’estremismo di destra del suo candidato di punta Roberto Vannacci il quadro è completo. Perfino Le Pen ha dovuto dire basta. La propaganda della destra contro l’odiosissimo Macron e l’odiosissima Merkel (e poi Scholz) ha accentuato l’isolamento dell’Italia nel quadro europeo.

Francia e Germania ritengono l’Italia un ineludibile partner commerciale, ma in ogni occasione utile rivendicano la divergenza politica con il nostro Paese. Per semplificare: non possono fare a meno dell’Italia ma farebbero volentieri a meno del suo governo. Ieri sulla facinorosa polemica olimpica è intervenuta l’Algeria in difesa della sua pugile. Per ora è poca roba. Sarebbe bastato conoscere lo stato dei diritti in Algeria per sapere che le transizioni sono punite dalla legge. Ma al nostro governo dell’Algeria interessano solo il gas a basso costo e i cereali.

Però se ad Algeri perdono la pazienza ci mettono un secondo a far saltare il cosiddetto Piano Mattei di cui sono irrinunciabile perno. La morale è semplice: la propaganda che si fa in patria poi costa là fuori. Solo che a pagarla non è Giorgia Meloni, sono gli italiani. Sempre.

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Da “Io sono Giorgia” a “Meloni chi?”. Anatomia di un crollo di credibilità

Il valzer delle maschere di Giorgia Meloni è giunto al termine e ora è il momento di fare i conti. La nostra premier, che per mesi ha danzato su due palcoscenici – moderata in Europa e sovranista in patria – si ritrova ora con un pugno di mosche e una credibilità politica in frantumi.

Fine del doppio gioco: come Giorgia Meloni ha perso la credibilità politica tra sovranismo e moderazione in Europa

Il balletto è iniziato con la sua elezione nel 2022. Da un lato, Meloni si presentava come il volto presentabile della destra italiana. Dall’altro, continuava a promuovere politiche reazionarie: detenzione automatica dei migranti, limitazione dei diritti delle coppie omosessuali, opposizione al Green Deal europeo e al diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Un gioco delle parti che sembrava funzionare, fino al momento della verità.

L’occasione è stata il voto per la riconferma di Ursula von der Leyen. Qui Meloni ha mostrato tutta la sua incoerenza: prima si è astenuta nel voto dei leader Ue, poi ha fatto votare contro il suo partito al Parlamento europeo. Un voltafaccia che ha lasciato di stucco persino i più cinici osservatori brussellesi. L’improvviso cambio di rotta è facilmente interpretabile. Meloni non ha digerito di essere stata tagliata fuori dall’accordo tra popolari, liberali e socialisti per la riconferma di von der Leyen. Un’esclusione che ha risvegliato i suoi istinti da “underdog” della politica italiana.

Il risultato? Mesi di faticoso lavoro diplomatico gettati alle ortiche. Von der Leyen si era spesa personalmente per costruire un rapporto con Meloni, arrivando persino a visitare insieme a lei i punti di ingresso dei migranti in Italia. Tutto dimenticato sull’altare del risentimento personale.

Come se non bastasse, Meloni ha alzato ulteriormente i toni attaccando la Commissione per il suo rapporto sullo stato di diritto in Italia. Un rapporto che esprimeva preoccupazioni sulla libertà di stampa e sull’indipendenza della Rai. Temi sensibili per una premier che ha fatto causa a giornalisti per diffamazione (reato ancora punibile con il carcere in Italia) e piazzato fedelissimi ai vertici della TV di Stato. La reazione scomposta di Meloni, con tanto di lettera di protesta a von der Leyen, dimostra quanto sia fragile la sua presunta svolta moderata. Bastano poche critiche per far emergere la vera natura di una leader cresciuta nell’humus della vecchia destra italiana.

Conseguenze e prospettive future

Ora Meloni si ritrova isolata e indebolita sulla scena europea. E il conto potrebbe essere salato: dall’assegnazione di un portafoglio di secondo piano per il prossimo commissario italiano, fino a una maggiore rigidità nell’applicazione delle regole sul deficit e sul debito pubblico. A proposito di commissario, il nome che circola è sempre quello di Raffaele Fitto, ministro per gli Affari europei. Fitto gode di una buona reputazione a Bruxelles ma le sue chance di ottenere un portafoglio di peso potrebbero essere compromesse proprio dal comportamento di Meloni. L’Italia spera in un commissario con responsabilità economiche, vista la sua situazione debitoria, ma rischia di ritrovarsi con il nuovo portafoglio “Mediterraneo”: una vittoria di Pirro, considerando che Roma era tra i Paesi che ne chiedevano l’istituzione.

Il problema è che entrambe le strade presentano rischi enormi. Sfidare apertamente l’Ue potrebbe avere conseguenze catastrofiche per un Paese con il secondo debito pubblico più alto d’Europa e un deficit che viola i limiti Ue. D’altro canto, una svolta definitiva verso il moderatismo rischierebbe di alienare quella base elettorale che ancora crede al mito della Meloni “anti-sistema”. In questo contesto, la visita in Cina appare come un disperato tentativo di distrazione. Meloni cerca di minimizzare le tensioni con von der Leyen, parlando di “manipolazione di un documento tecnico”. Ma ormai il dado è tratto, e la credibilità della premier è ai minimi termini.

Come sottolinea Lorenzo Castellani della Luiss, Meloni “aveva costruito credibilità in ambito diplomatico e finanziario, oltre che con la Commissione, e aveva beneficiato di numerose concessioni, incluse quelle sul fondo di ripresa post-Covid e sulla migrazione”. Ora ha “buttato via tutto”. Resta da vedere se Meloni saprà reinventarsi, trovando una terza via tra sovranismo e moderazione. O se, come sembra più probabile, continuerà in questo balletto schizofrenico tra faccia feroce in patria e sorrisi di circostanza in Europa. Una cosa è certa: il tempo delle maschere è finito. E l’Europa non sembra più disposta a tollerare il gioco delle tre carte della nostra premier.

Come ha detto un diplomatico Ue a Politico.eu, chiedendo di rimanere anonimo: “Vedremo quale Meloni emergerà da questa situazione: quella di estrema destra che abbiamo sempre temuto o quella pragmatica che abbiamo imparato a conoscere?”. La risposta a questa domanda determinerà non solo il futuro politico di Meloni, ma anche il posto dell’Italia nell’Unione Europea. In entrambi i casi la premier dovrà scontentare una parte dei suoi elettori. 

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Khelif, Carini e la politica. Propaganda pure con la boxe

Giovedì sera il il Comitato Olimpico Internazionale ha pubblicato un comunicato per difendere la decisione di includere la pugile algerina Imane Khelif alle Olimpiadi, criticando duramente “l’aggressione” in corso contro di lei dopo l’incontro contro l’italiana Angela Carini, che si era ritirata dopo meno di un minuto.

Khelif, Carini e la politica. Propaganda pure con la boxe. Solita polemica di distrazione di massa

Vale la pena leggerlo con attenzione per comprendere in pochi secondi quale sia il retrogusto dell’enorme campagna mediatica messa in piedi dal governo (Meloni in primis) e cavalcata dall’internazionale della peggiore destra omofoba nel mondo, con Elon Musk e trumpiani in prima fila. 

Nel comunicato si fa cenno all’Iba, la federazione internazionale di boxe che ha escluso Khelif ai Mondiali del 2023. Su quell’esclusione poggia gran parte della propaganda del governo. L’anno scorso Khelif fu squalificata dal torneo poco prima della finale a cui si era qualificata, per via di una decisione che – ci fa sapere il CIO – fu presa inizialmente da amministratore delegato e segretario generale dell’IBA, e solo dopo è stata ratificata dal consiglio di amministrazione che chiese di chiarire il protocollo. 

Ma chi è l’amministratore delegato dell’Iba Il suo presidente Umar Kremlev è un imprenditore vicino a Vladimir Putin. Il principale finanziatore è la Gazprom, la compagnia petrolifera di stato russa. E proprio in Russa l’Iba ha la sua sede dopo avere traslocato dalla Svizzera a seguito di gravi scandali di corruzione che ne hanno minato la credibilità. Anche per questo il Comitato olimpico non riconosce la federazione pugilistica. 

Dove è cominciata la polemica contro l’algerina Khelif? Da account in Russia. E questo è tutto quello che c’è da sapere. 

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I treni che non arrivano

Mentre la politica italiana discute del sesso dei pugili trainata da una donna che si fa chiamare al maschile la rete ferroviaria del Paese barcolla sotto i colpi dell’insipienza dell’infantile politica del ministro Matteo Salvini. 

Là dove non arrivano gli incendi e la strutturale debolezza si aggiungono i lavori di manutenzione e di potenziamento programmati nelle settimane più trafficate dell’anno, creando disagi che per essere silenziati hanno bisogno di un’olimpica distrazione di massa. 

Sulla tratta Pescara-Bari i treni dell’Alta velocità, gli Intercity e i Regionali accumulano quasi quotidianamente ritardi che si avvicinano alle due ore. Le linee Torino-Milano-Venezia, Milano-Bologna e Roma-Firenze sfasano da giorni, preparandosi ai prossimi lavori sulla linea che istituzionalizzeranno i disagi. 

L’Osservatorio nazionale di Federconsumatori raccontano di fortissimi disagi in Calabria, Toscana, Lazio e Veneto. La cosiddetta Alta velocità si è fermata a Battipaglia andando verso sud e i treni non superano Reggio Calabria verso nord, dovendo ripiegare su bus a Bassa velocità. 

Gli italiani ostaggi della rete ferroviaria durante il periodo estivo in altri tempi sarebbe stato lo spunto per un’indignazione popolare da prime pagine e da dolenti servizi televisivi. Basterebbe, del resto, mettere il microfono sotto il naso di qualcuno delle migliaia di viaggiatori arrabbiati pesti. 

Tutti i microfoni dei giornali servili (gli altri, sia sa, sono ritenuti “corrotti” dal governo) stanno sotto il naso del ministro e della presidente del Consiglio che, in veste di endocrinologi e genetisti, lasciano scorie in giro. 

Buon venerdì.   

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