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Bannon scarica Meloni, con il piede in due staffe

C’era una volta una premier che sognava di essere il ponte tra due mondi, ma ha dimenticato che i ponti si costruiscono con solide fondamenta, non con gli specchi. Giorgia Meloni, nella sua personale favola di ascesa internazionale, aveva immaginato di poter interpretare il ruolo della grande mediatrice tra Trump e l’Europa, dimenticando però un dettaglio non trascurabile: per mediare bisogna essere credibili da entrambe le parti. E invece ecco che arriva Steve Bannon, l’architetto del trumpismo, a frantumare questo castello di carta con la delicatezza di un elefante in una cristalleria. “Non abbiamo bisogno di nessuno in Europa”, tuona l’ex stratega della Casa Bianca, aggiungendo quella che suona come una stilettata: “Sii ciò che eri quando Fratelli d’Italia era al 3%”. Traduzione per i non addetti ai lavori: cara Giorgia, smettila di giocare a fare la statista moderata, torna a urlare dai palchi, eri meglio.

Il problema di Meloni è che ha cercato di cavalcare due cavalli contemporaneamente: da una parte l’atlantismo di facciata per compiacere Washington, dall’altra lo strizzare l’occhio ai sovranisti europei. Ma nella politica internazionale, come nella vita, non si può essere contemporaneamente candela e vento. E ora che Trump si prepara a riconquistare la Casa Bianca, il MAGA movement le fa sapere che non ha bisogno di intermediari in Europa: ha già i suoi Le Pen, Farage e Orbán di riferimento. La premier italiana si ritrova così in un limbo politico: troppo moderata per i trumpiani, troppo sovranista per i democratici. Un’ambiguità che porta sempre a un solo risultato: l’irrilevanza strategica.

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Irregolari, sporche e pericolose: una mensa scolastica su quattro è un rischio per i bambini

In Italia, una mensa scolastica su quattro è irregolare, ma non si tratta di irregolarità trascurabili o di qualche dettaglio fuori posto. L’ultima indagine dei Carabinieri dei Nas, iniziata con l’anno scolastico e concordata con il Ministero della Salute, getta luce su un sistema che dovrebbe tutelare la salute dei bambini e che invece sembra nutrirsi di negligenza e risparmio senza scrupoli. I numeri dei controlli sono chiari: su 700 mense scolastiche, 170 hanno mostrato irregolarità igienico-sanitarie, strutturali e autorizzative così gravi da richiedere, in alcuni casi, denunce penali e sequestri. E mentre le famiglie italiane pagano, spesso a caro prezzo, il servizio mensa, si trovano a fare i conti con una realtà che non rispetta nemmeno i minimi standard di sicurezza.

Irregolarità allarmanti: il controllo che svela la negligenza

Le criticità riscontrate parlano da sole: umidità diffusa, muffe che prosperano nei locali destinati alla preparazione dei pasti, insetti e persino escrementi di roditori. È un quadro raccapricciante, dove la trascuratezza assume le sembianze di un pericolo concreto per la salute. Ma non finisce qui. Mancano informazioni sugli allergeni, fondamentali per prevenire reazioni potenzialmente pericolose nei bambini allergici. Senza dimenticare la mancanza di tracciabilità degli alimenti e le condizioni dei locali, in cui le norme igieniche sembrano essere solo parole scritte e mai lette. Gli ispettori dei Nas hanno sequestrato circa 350 chilogrammi di alimenti mal conservati, scaduti o etichettati in modo irregolare, per un valore stimato di circa cinque milioni di euro. È lo specchio di un settore che, quando si parla di qualità, preferisce risparmiare piuttosto che proteggere.

Le ispezioni rivelano storie emblematiche di negligenza e disprezzo per la sicurezza. A Treviso, un centro educativo per l’infanzia operava senza autorizzazione alla refezione scolastica e senza la registrazione sanitaria necessaria. L’intera struttura è stata messa sotto sequestro amministrativo. A Pescara, un asilo nido ha subito la sospensione immediata delle attività di somministrazione di alimenti per gravi carenze igienico-sanitarie e strutturali. A Caserta, una ditta fornitrice di pasti è stata denunciata per frode: il titolare apponeva etichette della sua ditta su pasti prodotti da altre aziende. In totale, le verifiche hanno portato all’emissione di 225 violazioni amministrative e penali e sanzioni per un totale di 130 mila euro. Cifre che rivelano un sistema in cui le regole sembrano un optional e dove i gestori giocano con la sicurezza alimentare di milioni di bambini.

Un mercato da 2,5 miliardi di euro

Il mercato delle mense scolastiche in Italia è un settore di grande rilievo economico e sociale. Secondo la VII Indagine sulle mense scolastiche condotta da Cittadinanzattiva, nell’anno scolastico 2023/2024 le famiglie italiane hanno speso in media 84 euro al mese per la mensa di un figlio alla scuola primaria e 85 euro per l’infanzia, con una media di circa 4,20-4,26 euro a pasto. Numeri che diventano imponenti se consideriamo la platea degli studenti: in Italia ci sono circa 2,5 milioni di alunni nelle scuole primarie e 1,5 milioni nella scuola dell’infanzia, e si stima che il 55% usufruisca del servizio mensa. Tradotto in cifre, le famiglie italiane spendono annualmente circa 2,5 miliardi di euro per garantire ai propri figli un pasto durante le ore scolastiche. Un investimento pesante che, per molte famiglie, rappresenta una spesa importante, in un sistema dove le tariffe variano considerevolmente da regione a regione.

A fronte di questa spesa imponente da parte delle famiglie, lo Stato cerca di intervenire con investimenti pubblici. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) prevede la costruzione di circa 1.000 nuove mense scolastiche per ridurre le disparità territoriali, un impegno volto a garantire accesso equo al servizio, almeno sulla carta. Ma il problema resta la qualità di questi servizi, troppo spesso soggetti ad appalti al ribasso e logiche di risparmio, che sacrificano la sicurezza e la qualità per i margini di profitto.

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Da Waltz a Rubio, Trump punta sugli “yes man”

Donald Trump non è noto certo  per le mezze misure e questa volta sembra intenzionato a non lasciare nulla al caso, nemmeno le sue scelte per le posizioni strategiche. La recente nomina di Mike Waltz come consigliere per la sicurezza nazionale è l’esempio perfetto: Waltz è un deputato repubblicano noto per le sue posizioni anti-Cina e per il suo sostegno incondizionato a Trump. Waltz dovrà confrontarsi con un panorama internazionale instabile: dalla guerra in Ucraina alle tensioni con Cina e Corea del Nord, passando per il fuoco incrociato in Medio Oriente. Ma c’è di più: Waltz rappresenta quell’ala dura che Trump ha scelto per il suo staff, un segnale chiaro di quali saranno le sue priorità in politica estera.

Un falco alla diplomazia e uno zar al confine: Trump disegna il suo nuovo team

Nel rimettere insieme i pezzi della sua squadra, Trump non si è limitato a rimettere in piedi solo le sue vecchie glorie. La scelta di Marco Rubio come Segretario di Stato non è solo simbolica; è una riconciliazione pubblica che racconta la presa salda che Trump esercita ormai sul Partito Repubblicano. E se una volta Rubio era un critico, oggi è uno dei fautori del suo programma. Di origini cubane, il senatore della Florida ha maturato un’esperienza in politica estera che va dalla lotta contro l’influenza cinese al sostegno a leggi sui diritti umani per Hong Kong. Con la sua nomina, l’orientamento è chiaro: sarà un “falco” alla guida della diplomazia americana, e non è certo un caso se Pechino ha già sanzionato Rubio, vietandogli l’ingresso.

Altra pedina fondamentale in questa nuova scacchiera è Tom Homan, nominato “zar del confine” con il compito di gestire quella che Trump ha promesso essere la più grande operazione di deportazione nella storia degli Stati Uniti. Homan, noto per aver difeso le politiche di “tolleranza zero” durante la prima amministrazione Trump, si prepara a riprendere quel programma con rinnovato vigore. I critici puntano il dito contro un approccio che rischia di trasformare la gestione del confine in una macchina repressiva, ma per Trump è una priorità assoluta. E, con Homan, ha trovato l’uomo giusto. 

L’approccio di Trump sule nomine è coerente con la sua filosofia di comando: niente spazio per voci dissonanti, ma solo una squadra costruita su fedeltà e visione comune. Si inserisce in questo quadro la scelta di Stephen Miller, nominato vice capo di gabinetto per la politica, l’architetto della “zero tolerance” in tema di immigrazione. Miller è da sempre uno dei più fedeli sostenitori di Trump e, in questo ruolo, avrà carta bianca per dare seguito a politiche dure e inflessibili sui cui il di nuovo presidente Usa vuole costruire la sua immagine da leader dal pugno di ferro. 

Una fedeltà senza margini di dissenso: il Pentagono e l’impronta trumpiana

In tutto questo, c’è un messaggio chiaro: Trump vuole una squadra che esegua i suoi ordini senza riserve. La democrazia per il magnate americano è semplice burocrazia al servizio del comando Persino il Pentagono, che nel suo primo mandato ha tentato di moderare alcune sue decisioni, sarà riorganizzato in modo da eliminare possibili frizioni. È già in corso il processo di selezione per un Segretario della Difesa che non metta in discussione il volere presidenziale, una scelta che ovviamente preoccupa molti analisti. C’è il serio timore che questa volta il Dipartimento della Difesa possa diventare un’estensione diretta della visione trumpiana, anche questa senza margini di dissenso.

Nella sua seconda amministrazione, Trump sembra intenzionato a chiudere il cerchio, inserendo figure solo figure che rappresentano le sue idee in ogni posizione chiave. Un spoils system senza precedenti. Ma la mossa è considerata da molti pericolosa, perché rischia inevitabilmente di minare l’indipendenza delle istituzioni. Ma per Trump, la lezione sembra chiara: basta con le figure che potrebbero fare da freno. Il Paese, per lui, ha bisogno di una squadra che abbia come unica virtù l’accondiscendenza alla sua guida. La fedeltà, solo quella. 

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Clean the Cop lancia l’allarme: le conferenze sul clima sono ostaggio dei lobbisti

L’anno scorso a Dubai per la Cop28, l’annuale incontro sul clima delle Nazioni Unite, si è registrata la presenza record di 2.456 lobbisti del settore fossile, la delegazione più folta di tutta la conferenza, con accrediti provenienti direttamente dai governi, Italia compresa. Al momento, non sono disponibili dati ufficiali sul numero di lobbisti accreditati alla Cop29 di Baku. Si attende la pubblicazione dei dati ufficiali per valutare l’entità della loro partecipazione e l’eventuale impatto sulle negoziazioni in corso ma è lecito pensare che il numero sia cresciuto ancora.

L’invasione dei lobbisti fossili: chi rappresentano davvero?

Naturalmente, il fatto che anche quest’anno la Cop si svolgerà in un Paese grande esportatore di petrolio e gas lascia presagire una partecipazione importante di aziende energetiche. Clean the Cop, una campagna nata in Italia, denuncia questo cortocircuito tra politica climatica e interessi dei grandi inquinatori: “È come invitare i piromani a scrivere una legge contro gli incendi,” tuonano gli scienziati firmatari dell’appello.

Il cuore della questione non è solo il numero di presenze, ma chi queste persone rappresentano. Parliamo di colossi energetici le cui attività legate al petrolio e al gas sono in aperto contrasto con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. Eppure, questi stessi attori sono stati accreditati dai governi per “negoziare” alle Cop, in una contraddizione che evidenzia un’incoerenza politica profonda e preoccupante.

Gli scienziati sono i primi a insorgere: chi dovrebbe proteggere la salute planetaria, insistono, non può concedere le chiavi delle trattative a chi ha tutto l’interesse a sabotarle. E il loro grido d’allarme non cade nel vuoto: a Roma, oltre 30 ricercatori e accademici hanno firmato l’Appello della campagna Clean the Cop, chiedendo al governo di fermare questa presenza invadente e dannosa.

Per Michele Vannucchi di Openpolis, “il governo ha il diritto di invitare chi ritiene, ma deve rispondere ai cittadini”. La responsabilità di garantire trasparenza su chi rappresenta l’Italia a queste conferenze è ormai inderogabile. Se i rappresentanti dei combustibili fossili hanno ottenuto un lasciapassare dal governo, chi vigila che questi stessi soggetti non influenzino in modo indebito le decisioni prese?

I numeri non lasciano dubbi: mentre l’emergenza climatica si aggrava, l’invasione dei lobbisti è un fenomeno in crescita esponenziale. Dalla Cop26 del 2021, con circa 500 lobbisti presenti, alla Cop28 di Dubai, questo numero è quintuplicato, segnando un sinistro record. Le voci critiche si moltiplicano, e le associazioni ambientaliste insistono che la politica climatica non può più essere dettata da chi ne ostacola l’implementazione per profitto.

La denuncia di Clean the Cop: una richiesta di trasparenza

Clean the Cop non si limita alla denuncia. In Italia, associazioni come A Sud, Greenpeace e ISDE chiedono un netto cambio di rotta, un “ripulisti” che separi finalmente la politica climatica dagli interessi dei giganti del fossile. L’Alleanza Verdi e Sinistra, Movimento 5 Stelle e Partito Democratico hanno promesso sostegno in Parlamento: “Una campagna come questa è necessaria e va sostenuta in tutti i modi,” dichiara Filiberto Zaratti.

Non si tratta solo di una questione simbolica, ripetono gli organizzatori: dalla Cop29 di Baku fino alla Cop30 di Belem, in Brasile, Clean the Cop continuerà a monitorare e denunciare. Se i governi vogliono davvero affrontare la crisi climatica, devono rinunciare alla complicità dei grandi inquinatori, escludendo i lobbisti del fossile dalle stanze dove si decidono i destini del pianeta.

Come spiega l’associazione A Sud: “La denuncia è rivolta al governo Meloni, visto che nel 2023 per la Cop28 di Dubai il badge alla stragrande maggioranza dei lobbisti nostrani è arrivato direttamente dal governo italiano. Secondo i dati delle Nazioni Unite, alla scorsa conferenza sul clima il governo è stato il principale “sponsor” del settore oil&gas nazionale”.

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Migranti in Albania: la politica dell’istinto contro il diritto

Il primo aspetto – quello che segna una line netta tra chi fa politica con le persone e chi fa politica con gli istinti – è la disumanità. Sette persone sono state impacchettate su una nave militare, spedite in Albania, riportate a Brindisi nella notte, scelte nel mazzo degli arrivi sulle coste europee. Alla faccia del diritto, dell’obbligo (e l’istinto di accoglienza). Sarebbe bene ricordare che la prima vergogna è questa.

Poi c’è l’aspetto economico. Una nave militare e il suo equipaggio usati come giostra, centri costruiti in fretta e furia zeppi di militari italiani, gli alloggi. Una mastodontica e macchinosa scenografia per inscenare un pugno che vorrebbe essere di ferro e invece è di burro. Chissà se la Corte dei conti avrà qualcosa da dire. 

C’è l’aspetto politico, il fallimento di chi dimostra a tutto il mondo di non sapere governare e quindi vorrebbe comandare. Peccato per loro (e fortuna per noi) che le leggi nazionali e internazionali abbiano previsto la rabbiosa inettitudine e abbiano imparato dalla storia come contenerla. 

Infine ci sono le istituzioni. Le deportazioni in Albania non sono più una questione italiana. Ieri anche il tribunale di Roma, dopo quello di Bologna e di Catania, ha rinviato tutto alla Corte di giustizia europea. Ora avremo l’occasione di comprendere quanto Von der Leyen sia disposta a rinnegare se stessa per accontentare Meloni e il gruppo Ecr.

Intanto qui c’è la più violenta e degradante farsa politica a cui abbiamo  assistito negli ultimi anni.

Buon martedì. 

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Partita l’era Trump 2.0, con una Fake News

La prima fake news dell’era Trump 2.0 non ha atteso nemmeno l’insediamento del nuovo presidente. A poche ore dalla chiusura delle urne, il Washington Post ha lanciato una bomba mediatica destinata a rivelarsi un petardo bagnato: una presunta telefonata tra Donald Trump e Vladimir Putin, con tanto di dettagli su contenuti e intermediari eccellenti. La notizia aveva tutti gli ingredienti perfetti: il protagonismo di Trump che bypassa i canali diplomatici ufficiali, la presenza di Elon Musk come mediatore informale, e persino un presunto piano di pace per l’Ucraina. Troppo bello per essere vero. E infatti non lo era, come ha prontamente chiarito il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, definendo la notizia “una pura invenzione”.

La vicenda è emblematica del nuovo corso della comunicazione politica nell’era della post-verità. Il Washington Post, testata di proprietà di Jeff Bezos, ha pubblicato la notizia senza verifiche incrociate, mentre gli altri media occidentali l’hanno ripresa acriticamente, seguendo quella che ormai è diventata una prassi consolidata: se lo dice il Post, deve essere vero. Quello che emerge è un cortocircuito mediatico in cui la necessità di anticipare le mosse del nuovo corso trumpiano si scontra con la realtà dei fatti diplomatici. In questo vuoto informativo, proliferano “si dice” e indiscrezioni che più che raccontare la realtà, sembrano volerla plasmare secondo aspettative e timori precostituiti. Ma la prima fake news dell’era Trump 2.0 potrebbe essere solo l’antipasto di una lunga stagione in cui distinguere il vero dal verosimile diventerà sempre più complesso. Una cosa è certa: il giornalismo dovrà fare i conti con la propria credibilità, ancora una volta.

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Fitto pronto all’esame del Parlamento Ue: nel curriculum un Pnrr tra tagli e ritardi

Oggi è il giorno dell’esame di Raffele Fitto davanti al Parlamento europeo. Gli eurodeputati dovranno decidere se dare il loro via libera a farlo entrare nella Commissione guidata da Ursula von der Leyen. Affidare il ruolo di vice presidente a un ex ministro di un governo considerato a guida “sovranista” è un’idea che non piace a Socialisti, Verdi e Left. Il parlamentare europeo Gaetano Pedullà fa notare come “mancano meno di 24 ore all’audizione di Raffaele Fitto e il gruppo dei Socialisti non ha ancora sciolto la riserva su come voterà” e definisce “imperdonabile” l’errore di un eventuale appoggio di S&D. Ma le critiche a Fitto sono anche sulla sua gestione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr).

Uno dei principali problemi emersi è la riduzione e la rimodulazione dei progetti. Openpolis evidenzia che, su 235 progetti iniziali, oltre il 30% ha subito modifiche significative, con almeno 70 progetti ridimensionati o cancellati. Questo ha sollevato interrogativi sulla trasparenza delle decisioni e sulla capacità di mantenere gli impegni presi. Alcuni interventi strategici sono stati rivisti al ribasso, limitando l’impatto previsto sulle infrastrutture, sull’innovazione tecnologica e sulla transizione ecologica.

La gestione del Pnrr sotto la lente: progetti ridotti e ritardi preoccupanti

Un altro punto critico è stata la gestione delle scadenze. Secondo i dati di Openpolis, il 45% dei progetti previsti per il 2023 non ha rispettato le tempistiche stabilite, con ritardi di mesi o anni. Questo ha influito negativamente sulla qualità degli interventi. Il rapporto indica che la spesa complessiva legata ai progetti ha raggiunto solo il 60% di quanto preventivato entro il secondo trimestre del 2024. Nel dettaglio, dei 191 miliardi di euro previsti complessivamente per il Pnrr, solo 114 miliardi sono stati effettivamente spesi o impegnati fino ad ora, lasciando un gap di circa 77 miliardi.

Le infrastrutture scolastiche e gli investimenti nelle energie rinnovabili sono esempi emblematici delle difficoltà incontrate. Openpolis riporta che i progetti legati all’edilizia scolastica hanno subito rallentamenti significativi, con solo il 50% delle opere completate rispetto al target fissato per il 2023. Questo si traduce in un ritardo che ha avuto impatti diretti sulla sicurezza di oltre 200mila studenti. Le energie rinnovabili hanno visto una riduzione del 25% degli investimenti previsti, passando da 8 miliardi di euro a poco più di 6 miliardi, con una diminuzione della capacità produttiva stimata di oltre 1 GW.

Il settore dei trasporti non è esente da criticità. Solo il 40% dei progetti per la modernizzazione delle ferrovie e delle infrastrutture stradali è stato avviato, contro il 70% pianificato. Questo si riflette non solo su chi lavora nel settore, ma anche sulla mobilità di milioni di cittadini. L’analisi di Openpolis sottolinea come la lentezza burocratica e la mancanza di coordinamento tra ministeri abbiano ulteriormente ostacolato l’avanzamento delle opere.

L’audizione di domani rappresenta un momento importante per chiarire le responsabilità e le scelte fatte durante la gestione del Pnrr. A Fitto saranno chiesti chiarimenti perché la questione non è solo tecnica, ma politica: la capacità di portare a termine il Pnrr non è solo una questione di numeri, ma di credibilità nazionale e di fiducia nelle istituzioni. La spesa incompleta e le revisioni hanno suscitato preoccupazioni anche tra i partner europei. La Commissione europea ha espresso più volte preoccupazione per i ritardi e per la gestione frammentata del piano.

Sfide infrastrutturali e ritardi nelle assunzioni: l’impatto sui settori chiave

Il tema delle assunzioni necessarie per portare avanti i progetti ad esempio è un altro punto dolente. Mentre il piano prevedeva l’assunzione di almeno 30mila nuovi lavoratori pubblici per accelerare l’attuazione, meno della metà di queste posizioni sono state coperte.

Può diventare vice presidente di una Commissione europea qualcuno che da ministro è stato bacchettato più volte dalla stessa Commissione per la gestione dei fondi europei? Può diventare vice presidente della Commissione europea qualcuno che fa riferimento a un gruppo che non l’ha sostenuta con i suoi voti? Ora a Fitto le risposte. 

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Cop29 al via tra le polemiche: l’Azerbaigian sotto accusa per accordi segreti sui fossili

La Cop29, la 29ª Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), si apre con uno scandalo che conferma i timori di chi nutre seri dubbi sulla sua credibilità. L’Azerbaigian, paese ospitante, viene trascinato al centro delle polemiche non per l’impegno a favore dell’ambiente ma per il sospetto che la sua leadership stia sfruttando l’evento per promuovere i propri interessi nell’industria dei combustibili fossili. Un’accusa pesante, suffragata da un’indagine sotto copertura dell’Ong Global Witness.

Soltanov e il video sotto copertura: le rivelazioni che scuotono la Cop29

Un video ottenuto sotto copertura mostra Elnur Soltanov, viceministro dell’Energia dell’Azerbaigian, apparentemente in una trattativa con un uomo che si presenta come un investitore interessato al settore dei combustibili fossili. In uno dei passaggi chiave, Soltanov afferma: “Siamo pronti a discutere collaborazioni che possano portare vantaggi sia all’Azerbaigian che ai nostri partner industriali. Gli investimenti nel settore dei combustibili fossili sono una parte cruciale della nostra strategia”.

Il dialogo, intriso di ammiccamenti e sottintesi, svela un quadro ben diverso da quello che ci si aspetterebbe dal leader di una conferenza globale volta a rafforzare l’impegno per l’abbandono dei combustibili fossili. Il report dell’Ong non lascia spazio a dubbi: la Cop29 rischia di diventare la copertura per una gigantesca operazione di marketing a favore del petrolio e del gas azero, anziché un pilastro nella lotta per la decarbonizzazione.

“Questa non è una Cop, è un evento di lobbying mascherato”, ha dichiarato un portavoce di Global Witness. “Le parole e le azioni di Soltanov dimostrano come l’Azerbaigian stia sfruttando la sua posizione per promuovere un’agenda fossile, in aperto contrasto con gli obiettivi globali di riduzione delle emissioni.”

Lo scoop – pubblicato dalla Bbc – fa il paio con i comportamenti degli Emirati Arabi Uniti che l’anno scorso allo stesso modo sfruttarono il loro ruolo di ospite per chiudere accordi su petrolio e gas. Tra i documenti visionati dalla Bbc compare anche uno scambio di mail tra gli organizzatore azeri della Cop 29 e i falsi investitori in cui viene promessa l’introduzione a un evento sugli “investimenti sostenibili sul petrolio e sul gas”, in cambio di una sponsorizzazione. 

La Gran Bretagna e l’Azerbaigian: un intreccio di interessi

Ma l’Azerbaigian non agisce nel vuoto. Nella complessa partita energetica, i paesi produttori trovano spesso alleati strategici tra i giganti del settore. BP, una delle più grandi multinazionali britanniche, ha una storia lunga e strettamente intrecciata con l’Azerbaigian. Non è un caso che la compagnia sia tra i maggiori investitori nel giacimento di Shah Deniz, uno dei più grandi progetti di gas naturale al mondo. 

In questo contesto si inserisce la visione ambiziosa di Keir Starmer. Il leader del Partito Laburista sogna di portare la Gran Bretagna al centro delle iniziative climatiche globali, immaginando un ruolo di primo piano per il paese nella Cop29. Tuttavia lo scenario britannico stride per la profonda contraddizione: come può un governo proporsi come alfiere della sostenibilità climatica mentre una delle sue più potenti aziende continua a trivellare in territori come quello azero, dove gli interessi economici si sposano con l’opportunismo politico?

Il paradosso si fa evidente. “Siamo di fronte a un doppio standard,” ha osservato un analista ambientale parlando con Politico. “Da un lato, la promessa di un futuro verde, dall’altro, la realpolitik che stringe mani sporche di petrolio.” Le belle parole di Starmer rischiano di rimanere vuote se, accanto ai proclami, non si affronta il nodo gordiano del legame tra politica e industria fossile. La Gran Bretagna vuole ergersi a esempio di leadership ambientale ma i fatti raccontano una realtà che profuma di ipocrisia: da un lato, la promessa di un futuro verde, dall’altro, le mani sporche di petrolio. 

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La verità è un atto di ribellione: la risposta della giudice Albano

In tempi oscuri colpisce chi usa parole limpide, senza timori reverenziali e senza mediazioni scolorite. 

Oggi sei giudici della sezione immigrazione del tribunale di Roma decideranno sulla validità del trattenimento di sette persone migranti che si trovano nel centro Gjader in Albania. Sembra che il bottino politico del governo ancora una volta si scontrerà con la legge e la Costituzione. Il decreto legge dello scorso 21 ottobre con cui il governo ha provato a superare la legge europea aggiornando la lista dei Paesi sicuri non funzionerà. 

Questa volta non farà parte della commissione la giudice Silvia Albano che già una volta non ha convalidato il trattenimento dei migranti in Albania. Albano è anche presidente di Magistratura democratica, la corrente progressista dell’Associazione nazionale magistrati, e ieri è stata attaccata ancora una volta dal vice presidente del Consiglio Matteo Salvini.

In un colloquio con la giornalista Gabriella Cerami di Repubblica, la giudice dice: «Io ho sempre fatto la giudice civile – racconta – non era nei miei pensieri essere protetta, di solito succede ai penalisti. Ma non è questo il tema, il problema è ciò che si è scatenato in seguito alla sentenza». Ora è protetta dalle forze dell’ordine. Chi sono i responsabili? La risposta è cristallina: «questa è una campagna fomentata da alcuni giornali e trasmissioni ma anche da politici, dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni in giù». 

Detta semplice, lineare, senza paura. Come si deve fare. 

Buon lunedì.

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Marce nere, censure e il silenzio delle istituzioni

Nelle ultime ore in Italia è accaduto che 300 fascisti abbiano marciato a Bologna, dove il governo ha concesso la città ai Patrioti e Casapound, due gruppi che andrebbero cancellati da qualunque parte si guardi la Costituzione. 

Poi è accaduto che la presidente del Consiglio e il suo vice, Meloni e Salvini, abbiano avuto il coraggio di attaccare “certa sinistra”. La leader di fratelli d’Italia ha definito “sinistra da salotto” coloro che ancora hanno lo stomaco e le energie di ribellarsi a questo fascismo strisciante che spesso trova il patrocinio dei partiti di maggioranza. Ha sputato in faccia agli stessi ideali che le permettono di sedere a Palazzo Chigi in una democrazia liberale piuttosto che essere costretta a ripetere le parole di Ines Donati “volli essere troppo virile e dimenticai che poi ero una debole donna”. 

Il ministro Salvini ha sfidato il senso del ridicolo sprecando fiato per chiedere la chiusura dei centri sociali, con un curioso strabismo per gli estremisti neri. Erano gli stessi centri sociali che il giovane Matteo frequentava nella sua prima giovinezza, quando non aveva bisogno di accarezzare i più bassi istinti nella speranza di galleggiare. 

Poi è accaduto che l’account ufficiale del partito di una presidente del Consiglio abbia scritto un post su X in cui ha attaccato Roberto Saviano definendolo “sciacallo”, “senza dignità”, “uno dei peggiori scrittori che l’Italia abbia mai conosciuto”. Sono gli stessi che hanno punito un professore dimostrando di non conoscere la differenza tra contestazione e censura. 

È ora di smettere di sottovalutare questi segnali. La democrazia non si difende da sola: tocca a ciascuno di noi fare la propria parte.

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