Quando parla di armi il ministro della Difesa Guido Crosetto fa spesso riferimento alle “ricadute occupazionali”. L’industria degli armamenti è spesso circonfusa da un’aura di potenza economica e tecnologica. Ma quanto c’è di vero nei luoghi comuni che la accompagnano? Un recente rapporto di Gianni Alioti (Weapons Watch) e Maurizio Simoncelli (Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo) smonta pezzo per pezzo la narrazione dominante su questo settore.
Economia delle armi, ricadute occupazionali o favole del ministro?
Partiamo dal contributo al Pil. Secondo i dati forniti dall’Aiad, la Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza di Confindustria, l’industria bellica italiana rappresenta solo lo 0,5% del PIL nazionale. Un dato che impallidisce di fronte al 5,2% dell’industria automobilistica.
E l’occupazione? Nonostante dal 2013 al 2022 le spese di investimento per armamenti siano cresciute del 132%, il numero di occupati è rimasto stabile intorno ai 30.000 addetti, pari allo 0,8% dell’occupazione manifatturiera italiana. Emblematico il caso del comparto aeronautico di Leonardo S.p. A: dal 2007 al 2022, nonostante l’enfasi sui posti di lavoro legati alla produzione del jet F-35, ha registrato un calo del 17% degli occupati.
Ma non era il settore più avanzato tecnologicamente? In realtà l’Italia vanta eccellenze in molti altri campi innovativi: microelettronica, robotica, automazione industriale, produzione di macchinari e mezzi di trasporto, informatica, biotecnologie, farmaceutica, energie rinnovabili.
C’è poi il nodo dell’export. Dal 2019 al 2023 l’export di armamenti italiani è cresciuto dell’86% rispetto al quinquennio precedente. Ma, in violazione della Legge 185/90, è diretto prevalentemente a paesi in guerra o autocratici che calpestano i diritti umani, come Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti.
Veniamo alla composizione azionaria. Se è vero che il principale azionista di Leonardo S.p.A è il Ministero dell’Economia (30,2%), un ruolo sempre più decisivo lo giocano i fondi istituzionali, per il 53% nordamericani. Tra questi, colossi come Vanguard Group, Goldman Sachs, BlackRock.
E i contributi pubblici? L’industria bellica riceve fondi consistenti sia dallo Stato che dall’UE. Nel 2024 circa il 2% del bilancio UE (2,32 miliardi) è destinato a scopi militari. L’EDIP (Programma Europeo per l’Industria della Difesa) stanzia 1,5 miliardi fino al 2027, mentre l’EDF quasi 8 miliardi per il periodo 2021-2027. Finanziamenti che vanno per lo più a 4 Stati (Francia, Spagna, Italia e Germania) e 5 aziende (Airbus, Leonardo, Thales, Dassault Aviation e Rheinmetall).
Più soldi per meno lavoro: l’inganno dell’industria bellica
Ma il dato forse più interessante riguarda il rapporto tra fatturato e occupazione. Un’analisi del settore aerospaziale europeo dal 1981 al 2021 mostra che a fronte di un aumento del fatturato del 366%, l’occupazione è calata del 7,2%. Disaggregando i dati, emerge che gli occupati nel militare sono diminuiti del 54%, mentre quelli nel civile sono cresciuti dell’84%.
Lo stesso trend si osserva negli USA: negli ultimi 20 anni il fatturato dell’industria aerospaziale americana è cresciuto del 166%, in linea con l’aumento delle spese militari USA (+170%), ma il numero totale degli occupati è diminuito del 13%.
A livello globale, un’analisi dei primi 10 gruppi multinazionali per fatturato militare mostra che dal 2002 al 2016, a fronte di una crescita del fatturato del 60% (74% quello militare), il numero di occupati si è ridotto del 16%. I profitti, invece, sono aumentati del 773%.
Questi dati mettono in discussione l’equazione “più armi = più lavoro”, rivelando un settore che, pur godendo di ingenti finanziamenti pubblici, non sembra in grado di generare occupazione in misura proporzionale alla crescita dei ricavi. Con buona pace del ministro.
L’articolo Le armi non creano lavoro: i numeri smontano un falso mito sembra essere il primo su LA NOTIZIA.
L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui