Vai al contenuto

Blog

Altro che tutela ambientale, spunta un altro condono

Entra oggi in vigore il decreto legislativo 103/2024 “Semplificazione dei controlli sulle attività economiche”. È un decreto importante perché interviene sulla protezione ambientale, sull’igiene e salute pubblica, sulla sicurezza pubblica e sulla sicurezza dei lavoratori. Temi che scaldano i giornali e il dibattito politico. La norma più impattante in vigore già da domani è quella all’art. 6 in tema di “violazioni sanabili e casi di non punibilità per errore scusabile”.

In sostanza, nel caso di accertamento, per la prima volta nel quinquennio, di violazioni sanabili che prevedono la sanzione amministrativa non superiore nel massimo a 5.000 €, l’Organo di controllo …” diffida l’interessato a porre termine alla violazione, ad adempiere alle prescrizioni violate e a rimuovere le conseguenze dell’illecito amministrativo entro un termine non superiore a venti giorni. In caso di ottemperanza alla diffida, il procedimento sanzionatorio si estingue limitatamente alle inosservanze sanate”. È un condono.

Se vieni beccato ti sgridano, risistemi la cameretta, prometti che farai il bravo e vieni perdonato. Tutto perfettamente in linea con “lo Stato amico” inteso dal governo e dalla maggioranza, quello che evita sanzioni e controlli per il bene del fatturato. Ah, non solo. Nei confronti dei soggetti in possesso del Report di basso rischio, le amministrazioni programmano ed effettuano i controlli ordinari non più di una volta l’anno e non possono essere effettuate due o più ispezioni diverse sullo stesso operatore economico contemporaneamente. E se il controllo va bene il controllato sa che per dieci mesi non può essere controllato di nuovo. Però tranquilli, al prossimo disastro sono già pronte le promesse e i comunicati di cordoglio.

L’articolo Altro che tutela ambientale, spunta un altro condono sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Maledetta stampa

Avete sentito per caso le risposte nel merito della presidente del Consiglio alle critiche mosse dalla Commissione europea e ai rilievi del rapporto scritto dalla federazione dei giornalisti europei? Pensateci bene, escludete il piagnisteo di Giorgia Meloni e il gnegneismo dei suoi compagni di maggioranza. Di risposte nel merito non ne è arrivata nessuna.  

Per l’ennesima volta la premier ha deciso di puntare sulla confusione condita un pizzico di vittimismo e una grattugiata di poteri forti ostili. Ad avanzare la tesi che si tratti di una vera e propria strategia politica descritta “nel mattinale a uso e consumo dei comunicatori e dei parlamentari di FdI, scritto quotidianamente con la supervisione del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari” è il giornalista Emanuele Lauria su Repubblica. Il giornalista racconta di un’azione coordinata tra parlamentari di Fratelli d’Italia e giornali di destra. 

Accusare gli accusatori quando possibile e irrigidire ancora di più il proprio rapporto illiberale con la stampa considerata nemica: ecco il piano. In questo disegno si inserirebbe anche l’esclusione dei giornalisti italiani alla conferenza stampa di Meloni al vertice con Xi. Perfino i cinesi si sono stupiti dell’assenza. E pensare che da quelle parti hanno lo stomaco forte, a proposito di libertà di stampa. 

Sul fronte interno il governo ha dichiarato guerra alla stampa. Non finisce mai bene perché i potenti passano ma i giornalisti restano. Sul fronte internazionale Meloni ormai è un’Orbàn all’amatriciana e se ne accorgerà quando sarà il momento delle nomine dei commissari europei. 

L’articolo Maledetta stampa sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Le armi non creano lavoro: i numeri smontano un falso mito

Quando parla di armi il ministro della Difesa Guido Crosetto fa spesso riferimento alle “ricadute occupazionali”. L’industria degli armamenti è spesso circonfusa da un’aura di potenza economica e tecnologica. Ma quanto c’è di vero nei luoghi comuni che la accompagnano? Un recente rapporto di Gianni Alioti (Weapons Watch) e Maurizio Simoncelli (Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo) smonta pezzo per pezzo la narrazione dominante su questo settore.

Economia delle armi, ricadute occupazionali o favole del ministro?

Partiamo dal contributo al Pil. Secondo i dati forniti dall’Aiad, la Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza di Confindustria, l’industria bellica italiana rappresenta solo lo 0,5% del PIL nazionale. Un dato che impallidisce di fronte al 5,2% dell’industria automobilistica.

E l’occupazione? Nonostante dal 2013 al 2022 le spese di investimento per armamenti siano cresciute del 132%, il numero di occupati è rimasto stabile intorno ai 30.000 addetti, pari allo 0,8% dell’occupazione manifatturiera italiana. Emblematico il caso del comparto aeronautico di Leonardo S.p. A: dal 2007 al 2022, nonostante l’enfasi sui posti di lavoro legati alla produzione del jet F-35, ha registrato un calo del 17% degli occupati.

Ma non era il settore più avanzato tecnologicamente? In realtà l’Italia vanta eccellenze in molti altri campi innovativi: microelettronica, robotica, automazione industriale, produzione di macchinari e mezzi di trasporto, informatica, biotecnologie, farmaceutica, energie rinnovabili.

C’è poi il nodo dell’export. Dal 2019 al 2023 l’export di armamenti italiani è cresciuto dell’86% rispetto al quinquennio precedente. Ma, in violazione della Legge 185/90, è diretto prevalentemente a paesi in guerra o autocratici che calpestano i diritti umani, come Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti.

Veniamo alla composizione azionaria. Se è vero che il principale azionista di Leonardo S.p.A è il Ministero dell’Economia (30,2%), un ruolo sempre più decisivo lo giocano i fondi istituzionali, per il 53% nordamericani. Tra questi, colossi come Vanguard Group, Goldman Sachs, BlackRock.

E i contributi pubblici? L’industria bellica riceve fondi consistenti sia dallo Stato che dall’UE. Nel 2024 circa il 2% del bilancio UE (2,32 miliardi) è destinato a scopi militari. L’EDIP (Programma Europeo per l’Industria della Difesa) stanzia 1,5 miliardi fino al 2027, mentre l’EDF quasi 8 miliardi per il periodo 2021-2027. Finanziamenti che vanno per lo più a 4 Stati (Francia, Spagna, Italia e Germania) e 5 aziende (Airbus, Leonardo, Thales, Dassault Aviation e Rheinmetall).

Più soldi per meno lavoro: l’inganno dell’industria bellica

Ma il dato forse più interessante riguarda il rapporto tra fatturato e occupazione. Un’analisi del settore aerospaziale europeo dal 1981 al 2021 mostra che a fronte di un aumento del fatturato del 366%, l’occupazione è calata del 7,2%. Disaggregando i dati, emerge che gli occupati nel militare sono diminuiti del 54%, mentre quelli nel civile sono cresciuti dell’84%.

Lo stesso trend si osserva negli USA: negli ultimi 20 anni il fatturato dell’industria aerospaziale americana è cresciuto del 166%, in linea con l’aumento delle spese militari USA (+170%), ma il numero totale degli occupati è diminuito del 13%.

A livello globale, un’analisi dei primi 10 gruppi multinazionali per fatturato militare mostra che dal 2002 al 2016, a fronte di una crescita del fatturato del 60% (74% quello militare), il numero di occupati si è ridotto del 16%. I profitti, invece, sono aumentati del 773%.

Questi dati mettono in discussione l’equazione “più armi = più lavoro”, rivelando un settore che, pur godendo di ingenti finanziamenti pubblici, non sembra in grado di generare occupazione in misura proporzionale alla crescita dei ricavi. Con buona pace del ministro. 

L’articolo Le armi non creano lavoro: i numeri smontano un falso mito sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Olimpiadi di Parigi, l’altra faccia della medaglia: un anno di “pulizia sociale” per imbellettare i Giochi

Durante l’agitato dibattito sulla cerimonia di inaugurazione il presidente francese Emmanuel Macron ha ribadito lo “spirito inclusivo” della Francia e delle Olimpiadi. Un rapporto shock, intitolato “1 Year of Social Cleansing – Le Revers de la Medaille”, compilato da diverse associazioni, racconta l’altra faccia della medaglia: la cosiddetta “pulizia sociale” avvenuta nella regione dell’Île-de-France per ripulire Parigi prima della festa. 

Macron e lo “spirito inclusivo” delle Olimpiadi: la realtà nascosta

Il documento, che analizza il periodo da aprile 2023 a maggio 2024, dipinge un quadro preoccupante di come l’avvicinarsi dei Giochi abbia accelerato processi di marginalizzazione e invisibilizzazione delle fasce più vulnerabili della popolazione. Partiamo dai numeri, freddi ma eloquenti. La notte tra il 25 e il 26 gennaio 2024, durante la 7ª Notte della Solidarietà, sono state contate 3.462 persone senza fissa dimora a Parigi, con un aumento del 16% rispetto all’anno precedente. Un dato che, come ha sottolineato il rapporto, è probabilmente sottostimato.

Sgomberi e marginalizzazione: l’altra faccia della medaglia

L’avvicinarsi della competizione olimpica ha preteso la soluzione più semplice: gli sgomberi. L’Osservatorio degli sgomberi dei luoghi di vita informali ha registrato, tra il 2023 e il 2024, ben 138 sgomberi nella sola Île-de-France. Parliamo di 64 baraccopoli, 34 accampamenti di tende, 33 squat e 7 insediamenti di viaggiatori. In totale, 12.545 persone sono state colpite da questi interventi, con un aumento del 38,5% rispetto al periodo precedente.

A rendere già allarmanti i numeri sono soprattutto le modalità. Solo il 27,5% è stato preceduto da diagnosi sociali e appena il 35,3% è stato accompagnato da offerte di alloggio, perlopiù temporanee. Il rapporto denuncia numerosi casi di violenza fisica e verbale durante gli sgomberi, con un aumento dell’uso di ordinanze di evacuazione da parte delle autorità, spesso senza adeguata giustificazione legale. 

Non si è trattato di interventi casuali. Molti sgomberi hanno preso di mira specifici gruppi etnici, come Rom e migranti. Da febbraio 2024, si è registrato un notevole aumento delle ordinanze prefettizie in tal senso. Il sistema di accoglienza francese, già inadeguato, ha mostrato tutte le sue falle di fronte alla pressione internazionale. L’Île-de-France disponeva di quasi 96.650 posti di alloggio generale ma la metà di questi erano in hotel. Un numero insufficiente, con la maggior parte dei servizi saturi. I servizi di alloggio d’emergenza come il 115 hanno registrato un alto numero di richieste inevase.

La situazione è stata particolarmente critica per le categorie più vulnerabili. Donne incinte, famiglie con bambini e persone con gravi problemi di salute spesso non sono riuscite ad accedere a un alloggio stabile. Nella zona di Seine-Saint-Denis, per esempio, single e famiglie con bambini si sono ritrovati spesso senza un tetto.

Di fronte a questa emergenza la risposta del governo di Marcon sembra essere stata quella di “disperdere” il problema. È stato implementato un nuovo tipo di schema di alloggio in dieci regioni per ospitare (temporaneamente) esuli e senzatetto provenienti dall’Île-de-France, spesso senza considerare le loro esigenze sociali. Una politica di dispersione che mirava a decongestionare le strutture di accoglienza nella regione parigina e a esaminare sistematicamente la situazione amministrativa degli individui tralasciando le esigenze specifiche come richiederebbe la legge. 

In tutto questo, i Giochi Olimpici hanno agito come un catalizzatore. I preparativi per l’evento hanno portato a un aumento delle operazioni di polizia contro senzatetto, migranti, Rom, sex worker e tossicodipendenti. Il rapporto cita testimonianze dirette che hanno evidenziato il legame tra gli sgomberi e i Giochi. Il 26 aprile 2023, 500 residenti dello squat Unibéton sono stati sgomberati. Si trattava del più grande squat della regione Île-de-France, situato sull’Île-Saint-Denis, vicino al futuro Villaggio Olimpico degli Atleti. Un evento che ha segnato l’inizio di un anno caratterizzato da sgomberi ripetuti dalle aree di vita informali.

Le Olimpiadi come catalizzatore di esclusione sociale

Le conclusioni del rapporto sono amare: i Giochi Olimpici di Parigi 2024 non sono diversi dalle edizioni precedenti in termini di impatto sulle popolazioni vulnerabili. Anzi, hanno esacerbato l’esclusione sociale per i più deboli. Di fronte a questo scenario, il collettivo “Le revers de la médaille” ha lanciato un appello: servono misure concrete per garantire un’eredità sociale positiva dai Giochi. Tra queste, la creazione di 20.000 posti di alloggio a livello nazionale e l’istituzione di un primo centro di accoglienza umanitaria per gli esuli a Parigi.

Così mentre il mondo celebra lo spirito olimpico c’è chi ha pagato il prezzo più alto per questi Giochi: gli invisibili diventati esclusi. La vera sfida per Parigi 2024 non è solo sul campo di gara, ma nelle strade e nei quartieri della città, dove si è giocata la partita più importante: quella per la dignità umana. E per quella non basta una pomposa cerimonia che celebri i diritti. I diritti si praticano. 

L’articolo Olimpiadi di Parigi, l’altra faccia della medaglia: un anno di “pulizia sociale” per imbellettare i Giochi sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Blitz notturno delle destre alla Camera contro la Cannabis light: undicimila posti di lavoro rischiano di andare in… fumo

Nella notte scorsa, mentre il paese dormiva, nelle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera si è consumato il delitto di un intero settore dell’economia italiana. La seduta fiume sul ddl sicurezza ha portato all’approvazione di un emendamento del governo che equipara la cannabis light a quella con THC. Una mossa che, secondo molti, segna la fine di un settore in crescita e promettente, la cui esistenza è stata stroncata da decisioni prese col favore delle tenebre.

La decisione notturna

La Camera ha lavorato incessantemente, in una maratona legislativa che ha visto l’approvazione di numerosi emendamenti, tra cui quello che di fatto cancella la differenza legale tra cannabis light e cannabis tradizionale. Per Riccardo Magi, segretario di Più Europa, ”il governo Meloni ha appena ucciso il settore della cannabis light nel nostro Paese”. Un’industria che, fino a ieri, contava circa 11 mila posti di lavoro e un fatturato annuo di 500 milioni di euro.

Stefano Vaccari, capogruppo Pd in commissione Agricoltura e segretario di Presidenza della Camera, ha definito questa scelta un “gravissimo errore”, affermando che “equiparare la cannabis light a quella con THC ha azzerato un settore produttivo che impiega migliaia di persone”. Secondo Vaccari, “ha vinto la follia propagandistica del governo” che confonde la cannabis light, usata in cosmesi, erboristeria e integratori alimentari, con le droghe pesanti, dimostrando un approccio ideologico più che pragmatico.

Un settore in crescita, ora bloccato

La reazione del mondo agricolo e industriale è stata immediata. Cristiano Fini, presidente di Cia-Agricoltori Italiani, ha sottolineato come questa decisione rappresenti “una grave sconfitta per la libera impresa in Italia”. La cannabis light, utilizzata in vari settori che vanno dalla cosmesi all’erboristeria, dagli integratori alimentari al florovivaismo, aveva visto un’esplosione di interesse, soprattutto tra i giovani imprenditori agricoli. Ora, questo segmento del comparto agroindustriale rischia di andare in fumo.

Le conseguenze immediate

Le conseguenze di questa decisione vengono definite dagli operatori del settore “devastanti”. I produttori di cannabis legale, che operavano in un contesto di legalità e trasparenza, si trovano ora in un limbo giuridico. “Molti acquirenti, di fronte all’incertezza legislativa, stanno disdicendo gli ordini”, denuncia la Cia. Questo non solo mette a rischio il raccolto attuale, ma getta un’ombra su tutto il futuro del settore. Gli agricoltori, che avevano investito tempo e risorse in una coltura promettente, sono ora costretti a costosi ricorsi legali per difendere i propri diritti.

Una scelta ideologica

Dietro questa decisione molti vedono un pregiudizio ideologico più che una reale necessità di sicurezza. La cannabis light, con il suo basso contenuto di THC, non rappresenta una minaccia per la salute pubblica. Al contrario, ha trovato impieghi benefici e legali riconosciuti a livello europeo. Tuttavia, il governo Meloni, in preda a quella che Magi definisce “furia ideologica”, ha scelto di colpire duramente un settore florido e innovativo.

Il futuro del settore

Il futuro per la filiera della cannabis light in Italia appare ora cupo. Gli imprenditori del settore, giovani e innovativi, si trovano ad affrontare una battaglia legale e commerciale senza precedenti. Le speranze di una ripresa sono legate alla capacità di fare fronte comune e di trovare nelle sedi giuridiche il riconoscimento dei propri diritti. Ma il danno, intanto, è stato fatto. Una notte di decisioni ha cancellato anni di lavoro e di crescita economica, lasciando migliaia di famiglie nell’incertezza.

Il governo ha scelto di intervenire su un settore in espansione senza ascoltare le voci degli operatori e degli esperti. La cannabis light, fino a ieri simbolo di un’agricoltura giovane e innovativa, oggi è diventata vittima di scelte politiche discutibili. Il paese, che avrebbe potuto essere un esempio di regolamentazione intelligente e di crescita sostenibile, si ritrova ora a dover affrontare le conseguenze di decisioni prese nel buio della notte. L’oscurantismo costa, oltre a indignare.

L’articolo Blitz notturno delle destre alla Camera contro la Cannabis light: undicimila posti di lavoro rischiano di andare in… fumo sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Meno pubblico e più privato. Sanità un tanto al chilo

La sanità pubblica italiana è al collasso, ma ci siamo mai chiesti quanto costerebbe curarsi solo nel privato? La Uil ha fatto i conti e il risultato è agghiacciante. Per un ricovero di bassa complessità, si va da un minimo di 422 euro a un massimo di 1.480 euro al giorno. Per l’alta complessità, si arriva fino a 1.800 euro giornalieri. Un check-up cardiologico costa da 220 a 400 euro, variando per regione, età e sesso.

La sanità pubblica italiana è al collasso, ma ci siamo mai chiesti quanto costerebbe curarsi solo nel privato?

L’asportazione di un tumore alla mammella può arrivare a 48.400 euro in Calabria, 32.400 nel Lazio e 29.400 in Lombardia. La chirurgia pediatrica ha costi che variano da 4.300 a 11.000 euro, escludendo la parcella del chirurgo. Un’ora di sala operatoria costa in media 1.100 euro in Lombardia, 1.200 nel Lazio e 2.000 in Calabria. Un giorno di degenza in medicina costa 500 euro in Lombardia e Lazio, 600 in Calabria. In chirurgia, rispettivamente 422, 500 e 700 euro. Un ricovero post-acuzie costa 145 euro al giorno in Lombardia e Lazio, 455 in Calabria.

Il paradosso è che più si va al Sud, dove la sanità pubblica arranca, più i prezzi del privato salgono. In Calabria, un’ora di sala operatoria costa il doppio che in Lombardia. È il mercato, bellezza! Peccato si tratti della nostra salute, non di smartphone o vacanze di lusso. La spesa sanitaria italiana è inferiore alla media europea. La Corte dei Conti ha evidenziato sprechi nelle Regioni. La legge sulla Concorrenza del 2021, che dovrebbe regolare il rapporto pubblico/privato, resta inattuata. La prossima volta che sentite parlare di “efficienza del privato” o “insostenibilità del pubblico”, ricordatevi questi numeri. E chiedetevi se siete disposti a pagare il prezzo di una sanità solo per ricchi.

L’articolo Meno pubblico e più privato. Sanità un tanto al chilo sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Parlamentari che frugano nelle mutande

L’ultima giornata di luglio si è consumata osservando il vice presidente del Consiglio nonché ministro nonché leader (traballante) della Lega che ha rilanciato una notizia falsa su una pugile transgender che non lo è, seguito da un manipolo di parlamentari che ne hanno fatto addirittura un’emergenza politica. 

La pugile trans algerina che deve sfidare l’azzurra Angela Carini non esiste. Come hanno provato a spiegare alcuni giornalisti, Imane Khelif era stata squalificata dai Campionati mondiali femminili per gli elevati livelli di testosterone che violavano le regole della federazione internazionale di boxe Iba.

Le malattie che possono causare squilibri di testosterone nelle donne vanno dall’irsutismo, la sindrome dell’ovaio policistico e l’iperplasia surrenalica congenita. Come spiega Simone Alliva su L’Espresso la vicenda ricorda «Caster Semenya due volte campionessa olimpica degli 800 metri, esclusa da alcune competizioni sportive per essersi rifiutata di assumere farmaci che riducessero il suo alto livello di testosterone, causato da una disfunzione genetica che le provoca l’iperandroginia». La Corte europea dei diritti dell’uomo nel febbraio 2021 ha sentenziato che Semenya era “stata discriminata”.

Ma più che discutere del sesso dei pugili (nemmeno angeli) vale la pena sottolineare gli esponenti del governo e la loro stampa cameriera che per una giornata intera hanno frugato nelle mutande di un’atleta semplicemente per rilanciare le strampalate teorie di “gender” e “woke”. E come spesso accade Salvini è alla testa dei facinorosi. 

Buon giovedì. 

Nella foto: la pugile algerina Imane Khelif (Instagram)

L’articolo proviene da Left.it qui

Si vis bellum, para bellum

Si vis pacem, para bellum, dicevano. Ma poi sono andati oltre e alla guerra non solo si sono preparati ma l’hanno sostenuta, l’hanno sovraccaricata di significati morali e universali (il solito vizio della superiorità occidentale), l’hanno finanziata, alcuni addirittura l’implorano e la gustano come Zenith della politica. 

Dall’invasione russa dell’Ucraina di quel 24 febbraio 2022 la guerra è i pane quotidiano dell’informazione, del dibattito politico. È l’insaporitore dei talk show: dimmi cosa pensi della guerra e il pubblico giudicherà chi sei. Le armi come metro di giudizio delle persone, dei partiti, delle associazioni. O di qua o di là. La guerra, appunto. 

Il 7 ottobre, mentre l’invasione russa in Ucraina si trasformava pericolosamente in un conflitto a bassa intensità, l’eccidio di Hamas ha scatenato il “rischio plausibile” di genocidio nella Striscia di Gaza evocato dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU. Un’altra guerra, affilare i denti. Si vis pacem, para bellum e sostieni la vendetta, ci hanno detto. Dieci mesi di vendetta chiamata legittima difesa, anche se non ci crede più nessuno. 

Dieci mesi di armi, finanziamenti, appoggi diplomatici. Risultato? Il fronte del conflitto israeliano si allarga a Teheran e a Beirut. Su Gaza non si intravede nessuna possibile soluzione. I sostenitori balbettano. Intanto a Kiev si trema di fronte all’ipotesi di Trump prossimo presidente Usa, già pronto a demolire la strategia internazionale adottata fin qui. 

Vi è piaciuta la guerra per ottenere la pace? Ora ne avete una ancora più grande. 

L’articolo Si vis bellum, para bellum sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Codici di condotta parlamentari: poca trasparenza e sanzioni inefficaci

La Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica, pilastri della democrazia italiana, dovrebbero rappresentare l’apice del rispetto delle leggi e dei principi etici. Non va sempre così. Almeno a leggere il Fact Checking di Pagella Politica. I codici di condotta, ad esempio, introdotti rispettivamente nel 2016 e nel 2022 sembrano rimanere lettera morta, nonostante le precise regole e i richiami di trasparenza imposti.

L’introduzione dei codici di condotta: una promessa mancata

Nel 2016, sotto la presidenza di Laura Boldrini, è stato introdotto il codice di condotta della Camera dei Deputati. Si legge che i deputati devono agire con disciplina e onore, senza ottenere vantaggi finanziari. Include l’obbligo di dichiarare il proprio patrimonio entro tre mesi dall’elezione e di presentare un documento con eventuali incarichi privati entro 30 giorni. Peccato che la forma spesso illeggibile di queste dichiarazioni, scritte a mano e scansionate in formato Pdf, renda la trasparenza un miraggio.

Il Senato, dal canto suo, ha approvato il proprio codice di condotta solo nel 2022, sotto la presidenza di Maria Elisabetta Alberti Casellati. Le regole imposte sono simili a quelle della Camera, ma vi è ancora meno chiarezza sulla soglia dei doni accettabili, che rimangono a discrezione dei singoli senatori.

Un esempio? L’obbligo di non accettare regali superiori ai 250 euro, che, nel caso della Camera, è limitato solo all’esercizio delle funzioni parlamentari, depotenziando la norma stessa. Per quanto riguarda le spese sostenute da terzi per viaggi e soggiorni, la Camera non ha mai stabilito linee guida chiare, nonostante le ripetute richieste del Greco (Gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa).

Il Comitato consultivo sulla condotta dei deputati, istituito per vigilare sull’applicazione del codice, ha avviato discussioni sulle linee guida solo nel 2018. Tuttavia, i cambi di governo e maggioranza hanno continuamente interrotto il processo. Nel 2022, sotto la guida di Luca Pastorino, fu presentata una proposta che rimane in sospeso. Solo nel 2023, con Riccardo Zucconi alla presidenza, si è ripresa la discussione basandosi sulla proposta Pastorino, che prevede la pubblicazione delle spese per viaggi e soggiorni superiori a 250 euro.

Il codice di condotta del Senato, al contrario di quello della Camera, dovrebbe essere vincolante e prevede sanzioni fino a dieci giorni di sospensione dai lavori per chi non lo rispetta. Peccato che non ci sia il comitato di controllo dedicato e le decisioni sulle sanzioni spettino al Consiglio di Presidenza le cui deliberazioni non sono pubbliche.

Trasparenza e sanzioni: un’illusione condivisa

Alla Camera, su 630 deputati (400 dall’attuale legislatura), solo una parte minima ha presentato le dichiarazioni richieste nei tempi previsti. Al Senato, su 315 senatori (200 dalla legislatura in corso), l’adesione alle norme del codice è risultata ancora più bassa, come scrive Pagella Politica. Nel 2017, il Greco ha sottolineato la necessità di migliorare la trasparenza e la rendicontazione all’interno delle istituzioni parlamentari italiane. Tuttavia, a distanza di anni, molte delle raccomandazioni del gruppo non sono state ancora implementate. Tra queste, vi è l’obbligo di pubblicare online in modo chiaro e accessibile tutte le dichiarazioni patrimoniali e di interessi, nonché le spese sostenute da terzi.

Ma violare le regole non è pericoloso. La mancanza di conseguenze concrete per chi non rispetta il codice di condotta consente sonni tranquilli. Le rare volte che le sanzioni vengono applicate  risultano inefficaci. Così si respira quel bel clima di impunità che mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nel loro funzionamento. Nella Camera dei Deputati e nel Senato della Repubblica, pilastri della democrazia italiana, le regole sono flebili raccomandazioni. 

L’articolo Codici di condotta parlamentari: poca trasparenza e sanzioni inefficaci sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Dodici milioni di bambini schiavi, il lato oscuro dell’infanzia globale. Anche in Italia

Dodici milioni di bambini sono schiavi nel mondo. 3,3 milioni sono coinvolti nel nel lavoro forzato. Di questi 1,69 milioni sono schiavi sessuali, 1,31 milioni sono sotto il gioco dello sfruttamento lavorativo (in ambiti quali lavoro domestico, agricoltura, manifattura, edilizia, accattonaggio o attività illecite) e 320mila risultano sottoposti a lavoro forzato da parte degli Stati, come detenuti, dissidenti politici, o appartenenti a minoranze etniche o religiose perseguitate. 

Il dramma globale della schiavitù minorile

Sono i numeri spaventosi contenuti nel rapporto “Piccoli schiavi invisibili 2024” pubblicato da Save the children in occasione della Giornata internazionale contro la tratta degli essere umani che quest’anno nella sua sedicesima edizione restituisce voce alle vittime minorenni, accolti nel sistema di protezione anti-tratta, incontrate nei nostri progetti o ancora nelle case di accoglienza per minori non accompagnati in Italia.

La situazione in Italia: testimonianze e interventi

In Italia nei primi cinque mesi di quest’anno il Numero Verde Nazionale in Aiuto alle Vittime di Tratta e/o Grave Sfruttamento ha svolto 1150 nuove valutazioni con potenziali vittime di tratta. I minorenni valutati in questi primi cinque mesi del 2024 sono stati 62, il 5,4% del totale, di cui il 62,7% di genere maschile e il 37,3% femminile. L’81,3% dei minori valutati è nella fascia 16-18 anni. La nazionalità nigeriana, nonostante il calo, continua a essere quella con il maggior numero di valutazioni in Italia (il 25,5%), seguita da quella ivoriana (13,6%) e marocchina (11,2%).

Tra le testimonianza c’è Precious, una ragazza nigeriana di 19 anni fuggita da un matrimonio forzato cui era destinata per ripagare un debito, violentata e chiusa in una stanza per molto tempo da un uomo molto più grande di lei. Appena le è stato proposto di andare in Europa per studiare, non ha potuto rifiutare, si è detta: “Non voglio sposare questo vecchio. Qualsiasi cosa mi faccia evitare di sposarlo e di rimanere in questo posto, in Nigeria, va bene”. 

Tramite una donna, conosce chi l’aiuta ad arrivare in Libia, dove apprende l’amara verità di essere lì per essere forzata alla prostituzione. “Quella donna mi aveva mentito. Allora ho pianto. Ho detto che non potevo vivere questo tipo di vita. Ho lasciato la Nigeria per lo stesso motivo. Piangevo. Ho detto: ‘No, non posso restare in questo posto’”. 

La fotografia in Europa

In Europa, in 5 anni, dal 2017 al 2021 sono state circa 29.000 le vittime di tratta per sfruttamento sessuale e lavorativo, registrate nel database del Counter Trafficking Data Collaborative. Nella maggior parte dei casi, le vittime di tratta sono persone adulte, ovvero l’84%, e di sesso femminile (66%), ma una percentuale significativa è composta da minorenni: si tratta del 16%. Tra le vittime più piccole di età, fino agli 11 anni, sono in egual misura bambini e bambine, mentre in tutte le altre fasce d’età la prevalenza di sesso femminile è netta: si nota un picco del 77% di ragazze nella fascia d’età fra i 15 e i 17 anni.

Le vittime di tratta e sfruttamento sono spesso invisibili e se si tratta di minori, soli, indifesi, vessati da violenze fisiche o psicologiche, diventa ancora più difficile aiutarle nell’emersione. I bambini e le bambine vittime della tratta sono maggiormente soggetti a forme di abuso psicologico, fisico e sessuale rispetto alle vittime adulte, dai dati di Piccoli Schiavi Invisibili, salta all’occhio un particolare: il 69% dei minori subisce una forma di controllo psicologico, il 52% è minacciato e ingannato attraverso false promesse, mentre un 46% è soggetto a controllo fisico.

Le agenzie dell’Onu ILO e OIM sottolineano il nesso tra flussi migratori, mancanza di canali migratori sicuri e regolari e tratta di persone. Tra le richieste al governo c’è l’invito a procedere nella attuazione e nell’aggiornamento delle azioni previste dal Piano nazionale d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani 2022-2025. Forse sarebbe più urgente che cercare trafficanti nell’orbe terraqueo. 

L’articolo Dodici milioni di bambini schiavi, il lato oscuro dell’infanzia globale. Anche in Italia sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui