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Si vis bellum, para bellum

Si vis pacem, para bellum, dicevano. Ma poi sono andati oltre e alla guerra non solo si sono preparati ma l’hanno sostenuta, l’hanno sovraccaricata di significati morali e universali (il solito vizio della superiorità occidentale), l’hanno finanziata, alcuni addirittura l’implorano e la gustano come Zenith della politica. 

Dall’invasione russa dell’Ucraina di quel 24 febbraio 2022 la guerra è i pane quotidiano dell’informazione, del dibattito politico. È l’insaporitore dei talk show: dimmi cosa pensi della guerra e il pubblico giudicherà chi sei. Le armi come metro di giudizio delle persone, dei partiti, delle associazioni. O di qua o di là. La guerra, appunto. 

Il 7 ottobre, mentre l’invasione russa in Ucraina si trasformava pericolosamente in un conflitto a bassa intensità, l’eccidio di Hamas ha scatenato il “rischio plausibile” di genocidio nella Striscia di Gaza evocato dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’ONU. Un’altra guerra, affilare i denti. Si vis pacem, para bellum e sostieni la vendetta, ci hanno detto. Dieci mesi di vendetta chiamata legittima difesa, anche se non ci crede più nessuno. 

Dieci mesi di armi, finanziamenti, appoggi diplomatici. Risultato? Il fronte del conflitto israeliano si allarga a Teheran e a Beirut. Su Gaza non si intravede nessuna possibile soluzione. I sostenitori balbettano. Intanto a Kiev si trema di fronte all’ipotesi di Trump prossimo presidente Usa, già pronto a demolire la strategia internazionale adottata fin qui. 

Vi è piaciuta la guerra per ottenere la pace? Ora ne avete una ancora più grande. 

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Codici di condotta parlamentari: poca trasparenza e sanzioni inefficaci

La Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica, pilastri della democrazia italiana, dovrebbero rappresentare l’apice del rispetto delle leggi e dei principi etici. Non va sempre così. Almeno a leggere il Fact Checking di Pagella Politica. I codici di condotta, ad esempio, introdotti rispettivamente nel 2016 e nel 2022 sembrano rimanere lettera morta, nonostante le precise regole e i richiami di trasparenza imposti.

L’introduzione dei codici di condotta: una promessa mancata

Nel 2016, sotto la presidenza di Laura Boldrini, è stato introdotto il codice di condotta della Camera dei Deputati. Si legge che i deputati devono agire con disciplina e onore, senza ottenere vantaggi finanziari. Include l’obbligo di dichiarare il proprio patrimonio entro tre mesi dall’elezione e di presentare un documento con eventuali incarichi privati entro 30 giorni. Peccato che la forma spesso illeggibile di queste dichiarazioni, scritte a mano e scansionate in formato Pdf, renda la trasparenza un miraggio.

Il Senato, dal canto suo, ha approvato il proprio codice di condotta solo nel 2022, sotto la presidenza di Maria Elisabetta Alberti Casellati. Le regole imposte sono simili a quelle della Camera, ma vi è ancora meno chiarezza sulla soglia dei doni accettabili, che rimangono a discrezione dei singoli senatori.

Un esempio? L’obbligo di non accettare regali superiori ai 250 euro, che, nel caso della Camera, è limitato solo all’esercizio delle funzioni parlamentari, depotenziando la norma stessa. Per quanto riguarda le spese sostenute da terzi per viaggi e soggiorni, la Camera non ha mai stabilito linee guida chiare, nonostante le ripetute richieste del Greco (Gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa).

Il Comitato consultivo sulla condotta dei deputati, istituito per vigilare sull’applicazione del codice, ha avviato discussioni sulle linee guida solo nel 2018. Tuttavia, i cambi di governo e maggioranza hanno continuamente interrotto il processo. Nel 2022, sotto la guida di Luca Pastorino, fu presentata una proposta che rimane in sospeso. Solo nel 2023, con Riccardo Zucconi alla presidenza, si è ripresa la discussione basandosi sulla proposta Pastorino, che prevede la pubblicazione delle spese per viaggi e soggiorni superiori a 250 euro.

Il codice di condotta del Senato, al contrario di quello della Camera, dovrebbe essere vincolante e prevede sanzioni fino a dieci giorni di sospensione dai lavori per chi non lo rispetta. Peccato che non ci sia il comitato di controllo dedicato e le decisioni sulle sanzioni spettino al Consiglio di Presidenza le cui deliberazioni non sono pubbliche.

Trasparenza e sanzioni: un’illusione condivisa

Alla Camera, su 630 deputati (400 dall’attuale legislatura), solo una parte minima ha presentato le dichiarazioni richieste nei tempi previsti. Al Senato, su 315 senatori (200 dalla legislatura in corso), l’adesione alle norme del codice è risultata ancora più bassa, come scrive Pagella Politica. Nel 2017, il Greco ha sottolineato la necessità di migliorare la trasparenza e la rendicontazione all’interno delle istituzioni parlamentari italiane. Tuttavia, a distanza di anni, molte delle raccomandazioni del gruppo non sono state ancora implementate. Tra queste, vi è l’obbligo di pubblicare online in modo chiaro e accessibile tutte le dichiarazioni patrimoniali e di interessi, nonché le spese sostenute da terzi.

Ma violare le regole non è pericoloso. La mancanza di conseguenze concrete per chi non rispetta il codice di condotta consente sonni tranquilli. Le rare volte che le sanzioni vengono applicate  risultano inefficaci. Così si respira quel bel clima di impunità che mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nel loro funzionamento. Nella Camera dei Deputati e nel Senato della Repubblica, pilastri della democrazia italiana, le regole sono flebili raccomandazioni. 

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Dodici milioni di bambini schiavi, il lato oscuro dell’infanzia globale. Anche in Italia

Dodici milioni di bambini sono schiavi nel mondo. 3,3 milioni sono coinvolti nel nel lavoro forzato. Di questi 1,69 milioni sono schiavi sessuali, 1,31 milioni sono sotto il gioco dello sfruttamento lavorativo (in ambiti quali lavoro domestico, agricoltura, manifattura, edilizia, accattonaggio o attività illecite) e 320mila risultano sottoposti a lavoro forzato da parte degli Stati, come detenuti, dissidenti politici, o appartenenti a minoranze etniche o religiose perseguitate. 

Il dramma globale della schiavitù minorile

Sono i numeri spaventosi contenuti nel rapporto “Piccoli schiavi invisibili 2024” pubblicato da Save the children in occasione della Giornata internazionale contro la tratta degli essere umani che quest’anno nella sua sedicesima edizione restituisce voce alle vittime minorenni, accolti nel sistema di protezione anti-tratta, incontrate nei nostri progetti o ancora nelle case di accoglienza per minori non accompagnati in Italia.

La situazione in Italia: testimonianze e interventi

In Italia nei primi cinque mesi di quest’anno il Numero Verde Nazionale in Aiuto alle Vittime di Tratta e/o Grave Sfruttamento ha svolto 1150 nuove valutazioni con potenziali vittime di tratta. I minorenni valutati in questi primi cinque mesi del 2024 sono stati 62, il 5,4% del totale, di cui il 62,7% di genere maschile e il 37,3% femminile. L’81,3% dei minori valutati è nella fascia 16-18 anni. La nazionalità nigeriana, nonostante il calo, continua a essere quella con il maggior numero di valutazioni in Italia (il 25,5%), seguita da quella ivoriana (13,6%) e marocchina (11,2%).

Tra le testimonianza c’è Precious, una ragazza nigeriana di 19 anni fuggita da un matrimonio forzato cui era destinata per ripagare un debito, violentata e chiusa in una stanza per molto tempo da un uomo molto più grande di lei. Appena le è stato proposto di andare in Europa per studiare, non ha potuto rifiutare, si è detta: “Non voglio sposare questo vecchio. Qualsiasi cosa mi faccia evitare di sposarlo e di rimanere in questo posto, in Nigeria, va bene”. 

Tramite una donna, conosce chi l’aiuta ad arrivare in Libia, dove apprende l’amara verità di essere lì per essere forzata alla prostituzione. “Quella donna mi aveva mentito. Allora ho pianto. Ho detto che non potevo vivere questo tipo di vita. Ho lasciato la Nigeria per lo stesso motivo. Piangevo. Ho detto: ‘No, non posso restare in questo posto’”. 

La fotografia in Europa

In Europa, in 5 anni, dal 2017 al 2021 sono state circa 29.000 le vittime di tratta per sfruttamento sessuale e lavorativo, registrate nel database del Counter Trafficking Data Collaborative. Nella maggior parte dei casi, le vittime di tratta sono persone adulte, ovvero l’84%, e di sesso femminile (66%), ma una percentuale significativa è composta da minorenni: si tratta del 16%. Tra le vittime più piccole di età, fino agli 11 anni, sono in egual misura bambini e bambine, mentre in tutte le altre fasce d’età la prevalenza di sesso femminile è netta: si nota un picco del 77% di ragazze nella fascia d’età fra i 15 e i 17 anni.

Le vittime di tratta e sfruttamento sono spesso invisibili e se si tratta di minori, soli, indifesi, vessati da violenze fisiche o psicologiche, diventa ancora più difficile aiutarle nell’emersione. I bambini e le bambine vittime della tratta sono maggiormente soggetti a forme di abuso psicologico, fisico e sessuale rispetto alle vittime adulte, dai dati di Piccoli Schiavi Invisibili, salta all’occhio un particolare: il 69% dei minori subisce una forma di controllo psicologico, il 52% è minacciato e ingannato attraverso false promesse, mentre un 46% è soggetto a controllo fisico.

Le agenzie dell’Onu ILO e OIM sottolineano il nesso tra flussi migratori, mancanza di canali migratori sicuri e regolari e tratta di persone. Tra le richieste al governo c’è l’invito a procedere nella attuazione e nell’aggiornamento delle azioni previste dal Piano nazionale d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani 2022-2025. Forse sarebbe più urgente che cercare trafficanti nell’orbe terraqueo. 

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Università, un privilegio per pochi: cresce il divario nord-sud e con l’Autonomia differenziata sarà pure peggio

In Italia, l’accesso agli studi universitari rimane un privilegio, riflettendo un Paese diviso tra nord e sud. Secondo un’analisi di Openpolis, solo il 51,7% dei giovani neo-diplomati si iscrive all’università, con una disparità significativa tra le regioni. Al nord, la percentuale di iscritti è del 53,5%, mentre al sud scende al 47,4%. La situazione economica delle famiglie gioca un ruolo cruciale: il 67,1% dei giovani provenienti da famiglie benestanti intende proseguire gli studi, contro il 46% di quelli con difficoltà economiche.

Disuguaglianze economiche e territoriali nell’accesso all’istruzione universitaria

L’Italia è terzultima in Europa per quota di laureati tra i 25 e i 34 anni, con il 30,6% rispetto a una media europea molto più alta. Questo ritardo si radica profondamente nelle condizioni sociali ed economiche. Ad esempio, nel 2022, solo il 39,2% dei neo-diplomati campani si è iscritto all’università, evidenziando un forte divario rispetto alle regioni settentrionali.

Un altro dato significativo riguarda le intenzioni dei giovani: oltre il 60% di quelli che percepiscono la propria condizione familiare come molto buona scelgono il liceo, mentre solo il 34,8% dei ragazzi in condizioni economiche difficili fa la stessa scelta, preferendo spesso istituti professionali.

Questi numeri mostrano come la condizione economica influisca non solo sulle scelte universitarie, ma anche su quelle scolastiche precedenti, creando un circolo vizioso di disuguaglianza che limita le opportunità di istruzione e crescita per una parte significativa della popolazione giovanile italiana.

Disparità territoriale: problema sistemico

La disparità territoriale si evidenzia ulteriormente con le province meridionali ai livelli più bassi di iscrizione universitaria: Napoli (38,6%) e Salerno (36,5%) sono tra le ultime, mentre province come Isernia (66,7%) e L’Aquila (62,6%) superano il 60%. Queste statistiche indicano come l’Italia debba affrontare un problema sistemico che penalizza il sud e le famiglie meno abbienti, rendendo l’istruzione superiore un privilegio piuttosto che un diritto accessibile a tutti.

Uno sguardo approfondito ai dati di Openpolis rivela che le differenze socio-economiche e territoriali influenzano anche i risultati accademici degli studenti. In molte aree del sud, la percentuale di abbandono universitario è significativamente più alta rispetto al nord, con conseguenze negative sull’occupabilità e sulle prospettive di carriera dei giovani meridionali.

Le cause di queste disparità sono molteplici. La mancanza di risorse economiche limita l’accesso a strumenti di supporto allo studio, come ripetizioni private e materiali didattici. Inoltre le università del sud spesso dispongono di minori finanziamenti e infrastrutture rispetto a quelle del nord, influenzando la qualità dell’insegnamento e la possibilità di ricerca. Alla fine il circolo vizioso diventa il meccanismo perfetto per cristallizzare le disuguaglianze. 

L’impatto dell’autonomia differenziata sulle disuguaglianze educative

A maggio, in occasione del Festival dello sviluppo sostenibile, Alberto Zanardi, docente di Scienze delle finanze all’Università di Bologna, ha spiegato che l’istruzione nella nuova autonomia differenziata “è la materia potenzialmente più rilevante in termini finanziari”, con l’evidente rischio di aumentare ancora di più le disuguaglianze. 

Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) ha sottolineato in quell’occasione come il “Pnrr stia consentendo un salto per alcune scuole” ma su “questo l’autonomia differenziata è una doccia gelata”. “Come si fa a progettare se non si sa chi sarà a occuparsi dei progetti, se la Regione o lo Stato? – ha detto Giovannini -. Il regionalismo differenziato vorrebbe dire davvero frammentare il Paese, quando in realtà l’Europa chiede sempre più coesione”. All’orizzonte non si vede il sereno. 

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Le cosiddette carceri

L’ultimo è un giovane di 25 anni in attesa di giudizio nel carcere di Rieti. Prima di lui un ragazzo di 27 anni, nella casa circondariale di Prato. Le statistiche dicono che si tratti del sessantunesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno. 

Sono sempre i numeri a dirci che il tasso di affollamento è del 130,4% (al netto dei posti conteggiati dal ministero della Giustizia ma non realmente disponibili). Numeri: sono 4mila detenuti in più negli ultimi 12 mesi. Numeri: mancano almeno 18mila agenti di polizia penitenziaria rispetto alle necessità dell’organico.

Non si trovano invece statistiche ufficiali delle proteste quindi tocca contare quelle che finiscono nelle pagine di cronaca, soprattutto locale. A Rieti 400 detenuti per due giorni e per due notti hanno protestato per le alte temperature che rendono infernale la cella. 

Questa mattina arriva in Aula il cosiddetto Decreto carceri che non interviene sul sovraffollamento, non mette sul tavolo i soldi che servono per le assunzioni e non risolve l’annoso problema delle carceri usate come parcheggio di pazienti psichiatrici che avrebbero bisogno di cura più che di detenzione. 

Andrà come al solito, con un voto di fiducia che taglierà le discussioni e gli emendamenti. Nel frattempo ci si è inventati un nuovo corpo speciale per fronteggiare le rivolte in carcere e sedarle con le maniere forti sul modello dell’Eris francese. Il carcere come luogo emergenziale dove conta sedare gli afflitti. Ma anche quello è propaganda: c’è una direttrice ma non ci sono gli agenti. 

Buon mercoledì

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Denunciano il caporalato e vengono espulsi dall’Italia

Il 26 giugno scorso la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si era detta “esterrefatta” per la morte del bracciante Satnam Singh, abbandonato sanguinante dal suo datore di lavoro con un arto tranciato in un sacchetto. A colpire Meloni era stato “il modo atroce ma ancor di più per l’atteggiamento schifoso del suo datore di lavoro”.

“Questa è l’Italia peggiore. La piaga del caporalato è tutt’altro che sconfitta nonostante gli impegni di tutti i governi, ma non intendiamo smettere di combatterla”. Singh è morto da poco più di un mese. Come accade da noi i controlli carenti per mancanza di risorse e per collusione sono andati in scena per tranquillizzare i cittadini, giusto il tempo che serve. In provincia di Latina, là dove è scorso il sangue di Satnam i funzionari dell’Ispettorato del lavoro durante le loro visite incontrano tre lavoratori indiani.

Uno di loro, l’unico che parla l’italiano, racconta di una paga di 3 euro all’ora per 10 euro al giorno, chini sui campi con un coltellino in mano per raccogliere zucchine. Schiavi perché senza documenti, come molti altri. I lavoratori erano entrati in Italia regolarmente prime di finire nelle maglie del caporalato. Ora hanno deciso di denunciare. Ci si aspetterebbe che quei tre siano la leva per l’Italia migliore, quella che non sta zitta e rialza la testa contro un indegno sistema di sfruttamento che, come dice la premier, è il lato peggiore del nostro paese.

Gli ispettori ministeriali hanno disposto un contratto regolare, hanno ordinato ai braccianti di pagare contributi e tasse pregresse e hanno applicato la legge sull’immigrazione: i tre hanno ricevuto il foglio di espulsione dall’Italia.

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La reazione che giustifica le accuse

Cronaca degli ultimi convulsi e umilianti eventi che riguardano il governo Meloni e la libertà di stampa. Il balletto comincia con la Relazione sullo Stato di diritto nei paesi membri della Commissione europea, quel foglio che Ursula von der Leyen aveva tenuto in frigo per le elezioni europee. Lì dentro c’è scritto quello che è sotto gli occhi di tutti: Meloni e i suoi sognano un paese in cui lai stampa sia megafono della narrazione governativa. È una caratteristica comune degli autocrati e degli aspiranti tali.

Il giorno dopo arriva il report del consorzio europeo Media freedom rapid response che, il 16-17 maggio scorso, era in missione speciale in Italia. I risultati sono identici: con questo governo si sono ristretti gli spazi d’opinione, sono aumentate le querele temerarie ai giornalisti e i governanti mostrano preoccupanti segni d’insofferenza alle opinioni avverse.

Che succede? Prima Meloni scrive a von der Leyen bollando come fake news le informazioni del report della Commissione. L’Ue le risponde che gli strumenti di analisi utilizzati sono una cosa seria da non confondere con la propaganda e le ricorda che “alle autorità nazionali è stata data l’opportunità di fornire aggiornamenti fattuali”. Ma Meloni attacca le opinioni perché non sa smentire i fatti.

Nel frattempo in edicola la stampa filo-governativa comincia a bastonare i giornalisti non allineati accusandoli di tradimento e danno alla Patria. E così le reazioni certificano le accuse. Un capolavoro.

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A tutti verrebbe un dubbio, a Meloni no

Cercate nelle pieghe dei giornali di stamattina la notizia che il governo Meloni ha incassato l’ennesimo sonoro ceffone sulla libertà della stampa per un “picco di segnalazioni su attacchi alla libertà di stampa” dopo il suo insediamento.

L’ennesima accusa arriva dal report del consorzio europeo Media freedom rapid response che, il 16-17 maggio scorso, ha fatto una missione speciale in Italia che non ha nulla a che vedere con la Relazione sullo stato dei diritti di qualche giorno fa. 

“Dall’arrivo al potere del governo”, è la denuncia che si legge nel documento, “la libertà dei media in Italia è stata sotto una crescente pressione, con attacchi e violazioni senza precedenti” e “spesso avviati da autorità pubbliche nel tentativo di emarginare e silenziare le voci critiche“.

La delegazione durante la sua missione in Italia aveva chiesto un incontro a esponenti del governo e della maggioranza senza ottenere nessuna risposta. 

“Tali rifiuti – si legge nel report –  illustrano la mancanza di volontà del governo di impegnarsi in discussioni costruttive su sviluppi chiave relativi ai media che alla fine influenzano la qualità della democrazia italiana”. 

Così mentre la presidente del Consiglio scriveva la sua lettera a Ursula von der Leyen per bollare come “fake news” gli allarmi della Commissione (creando “sconcerto” per il tono della sua risposta) nella sua cassetta della posta arrivava un’analisi sostanzialmente identica sulla compressione della libertà di stampa in Italia. 

A qualsiasi persona di “buon senso” (per citare gli esponenti di maggioranza) al secondo avviso sorgerebbe un dubbio. A Meloni no. 

Buon martedì. 

Nella foto: comunicazione di Giorgia Meloni al Senato, 26 giugno 2024 (governo.it)

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Video Fake su Kamala Harris postato da Elon Musk

“Io, Kamala Harris, sono la candidata democratica alla presidenza dato che Joe Biden ha mostrato finalmente la sua senilità durante il dibattito”. Inizia così il video diventato virale su X dopo la condivisione di Elon Musk in cui Kamala Harris sembra accusare il presidente Usa Joe Biden.

Il patron di X Elon Musk viola la policy del suo Social pubblicando un video Fake su Kamala Harris

Solo che quel video è un deepfake, ovvero un video elaborato dall’intelligenza artificiale che non ha alcuna attinenza con la realtà. Pubblicato per la prima volta dallo youtuber Mr Reagan, ha unito alcune immagini reali presenti nei filmati ufficiali della campagna di Harris per le elezioni di novembre a una voce clonata dall’IA ma molto simile a quella originale. “Sono l’apoteosi della diversità, quindi se criticate qualcosa che dico siete sia maschilisti sia razzisti”, si sente dire alla vicepresidente Usa nel deepfake. “io sono una marionetta del Deep State e sono stata addestrata per quattro anni dal campione delle marionette, Joe Biden”.

Il video ha raggiunto i 5 milioni di visualizzazioni. Elon Musk, idolo di Giorgia Meloni e della destra nostrana, ha commesso però un piccolo errore: ha violato le regole del social di cui è proprietario. Il regolamento di X infatti dice chiaramente che per ogni utente, padrone incluso, “on è possibile condividere contenuti multimediali artificiali, manipolati e fuori contesto che potrebbero ingannare o confondere” senza apporre un apposito segnale che chiarisca origine e metodo di realizzazione. Come ha risposto il mentore della destra peggiore del mondo dopo la pessima figura Ha spiegato che si trattava di una “parodia”. Solo che nelle parodie ci si mette la faccia o la firma. Qui la vera parodia è un pericoloso riccone scambiato per genio.

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Ora Giorgia si crede Marco Polo

Dimenticate Giorgia Meloni nemica della Cina. Terrorizzata dall’isolamento in Europa e logorata dalla traballante credibilità del governo in politica estera la presidente del Consiglio a Pechino indossa i panni di novella Marco Polo per aggiustare i rapporti che il suo stesso governo ha guastato. 

“Quello di Marco Polo non è stato solamente un viaggio fisico attraverso l’antica Via della seta”, ma è stato soprattutto un viaggio di scoperta e di conoscenza, ha affermato Meloni, sottolineando come l’esploratore veneziano abbia contribuito a “modificare la percezione che in Italia si aveva dell’impero cinese in un periodo in cui le distanze erano talmente grandi da sembrare incolmabili”. 

Peccato che la Via della seta citata dalla presidente del Consiglio sia una strada chiusa, come certi malinconici cantieri abbandonati sotto il sole d’agosto. A dicembre dell’anno scorso il governo ha disdetto l’accordo firmato dall’ex premier Giuseppe Conte (con Salvini vice premier) che fece infuriare gli Usa. Anche in quel caso l’esecutivo non brillò: settimane di rimpalli diplomatici e il tentativo maldestro di non pubblicizzare la rottura. 

Erano i tempi in cui il protezionismo aizzava i voti. Pochi mesi fa Meloni aveva espresso dubbi sulla transizione verso l’elettrico, sostenendo che “non è la panacea” e soprattutto che avrebbe potuto danneggiare l’industria automobilistica europea, già messa a dura prova dalla concorrenza cinese. 

Dimenticate quella Giorgia Meloni. Non esiste più. I numeri, d’altronde, parlano chiaro: nel 2023 l’interscambio commerciale ha raggiunto i 66,8 miliardi di euro, con oltre 1.600 aziende italiane che operano nel Paese asiatico. In Cina operano più di 1.600 aziende italiane, soprattutto nel settore del tessile, della meccanica, della farmaceutica, dell’energia e dell’industria pesante; il volume degli investimenti esteri diretti è di circa 15 miliardi di euro. Cifre che spiegano il pragmatismo dell’attuale visita, al di là delle roboanti dichiarazioni del passato. 

Intanto gli altri corrono. La Germania ha trovato nella Repubblica Popolare un mercato importantissimo per assorbire la propria produzione (soprattutto industriale) staccando di molto Francia e Italia. Come spiega l’Ispi se mediamente ognuna di queste ultime due esporta verso la Cina circa €1,5-2 miliardi di beni ogni mese, il dato per la Germania è di circa €8-9 miliardi.

E nelle relazioni commerciali tra Europa e Cina il settore di maggior rilievo è quello dell’automotive. Storicamente l’equilibrio commerciale si reggeva sull’importazione europea di numerosi prodotti, compensata dall’export di auto in quello che è ormai il primo mercato al mondo. Quel mercato è oggi però saturo e il flusso del commercio di autoveicoli si sta invertendo, con la Cina che esporta sempre più auto, soprattutto elettriche. 

Benvenute le auto cinesi in Italia, quindi. Il “Piano d’Azione” firmato a Pechino comprende sei ambiti di cooperazione: dai prodotti agricoli e alimentari alle indicazioni geografiche, dall’istruzione all’ambiente e allo sviluppo sostenibile fino all’industria. E su questo punto Meloni fa un inciso: “Compresi il settore strategico delle auto elettriche”. 

La visita di Meloni avviene in un momento in cui altri leader europei hanno intensificato i contatti con Pechino. Il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz hanno effettuato visite in Cina negli ultimi mesi, discutendo di accordi economici e questioni geopolitiche. Meloni ancora una volta sembra inseguire gli altri leader europei, contraddicendo la sua retorica sovranista.

L’incoerenza di Meloni sta tutta qui. Da un lato, la retorica nazionalista e le critiche alla Cina per conquistare consensi interni. Dall’altro, la necessità di mantenere buoni rapporti con Pechino per non danneggiare gli interessi economici italiani. Poi c’è l’isolamento a Bruxelles. La premier è bravissima a indicare i nemici ma è troppo debole a tessere relazioni. 

Così la visita a Pechino diventa un esercizio di equilibrismo. La presidente del Consiglio invoca “un mercato libero” ma “anche equo trasparente e reciprocamente vantaggioso”. Sventola l’amicizia con Pechino ma dice che “i partner devono giocare secondo le regole perché le aziende possano competere sui mercati internazionali in condizioni di parità”. 

I cinesi, molto meno retorici, chiedono all’Italia “sincerità”, che è forse un sinonimo dolce della parola “coerenza”. “Che posizione ha l’Italia sui dazi dell’Ue alle auto cinesi?”, si chiedono i giornali del regime. Nessuna risposta. Su quel tavolo Meloni sta giocando un’altra delle sue contraddittorie partite. Ma per distendere gli animi non servirà romanticizzare Marco Polo. 

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