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Il livello dei colletti bianchi dietro la strage di Cutro

Giorgia Meloni ama ripetere nelle varie interviste di essere un’accanita innamorata della figura del giudice Paolo Borsellino. L’esempio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino “rimane uno degli elementi più simbolici di quello che mi ha spinto a fare politica”, disse la presidente del Consiglio il 19 luglio del 2023 incontrando i giornalisti in Prefettura a Palermo. Non ci sarà bisogno di spiegare quindi a Meloni che Borsellino come Falcone pagarono con la vita l’avere intuito che il potere mafioso stesse a livelli superiori rispetto ai semplici soldati dei clan.

Il giorno prima di morire Borsellino passeggiando con la moglie sul lungomare di Carini le disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. Sono i cosiddetti colletti bianchi, i fili del potere che muovono a proprio piacimento le mafie e tutto il resto. A Crotone si sono chiuse le indagini contro 6 persone per la strage di Cutro, dove morirono 94 persone di cui 35 bambini.

Al di là degli esiti giudiziari sugli uomini della Guardia di finanza e i militari della Guardia costiera incombe l’incubo che si sarebbero potute salvare persone che non sono state salvate. Gente affogata, più che annegata. L’indagine alta di quell’inchiesta però riguarda le responsabilità politiche. Si tratta di capire se qualcuno ha lasciato intendere ai militari che le vite dei naufraghi in mezzo al mare valgono meno se hanno la pelle nera. Sarebbe da sfogliare le circolari interne e i loro sottintesi. Sarebbe l’indagine che avrebbe avviato Paolo Borsellino. E sono sicuro che Meloni non si tirerà indietro nei fatti, oltre le parole.

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Il Paese del sempre dopo

L’Italia del “dopo”, l’Italia delle lacrime di coccodrillo, l’Italia che si commuove solo davanti a un cadavere. Eccola qui, fotografata impietosamente dai blitz di carabinieri, Ispettorato del Lavoro e Inps nelle campagne da Nord a Sud. Un mese dopo la morte di Satnam Singh, bracciante indiano lasciato agonizzante nei campi dell’agro pontino, arriva la pantomima della legalità. Come sempre, troppo tardi e troppo poco. 

I numeri parlano chiaro: su 109 aziende controllate, 62 irregolari. Su 505 lavoratori, 236 fuorilegge. Tre minorenni sfruttati, 136 extracomunitari usati come carne da macello. E 64 “fantasmi”, completamente in nero. Ma la vera perla è la corsa alla regolarizzazione a Latina: 143 lavoratori assunti all’improvviso, guarda caso proprio dopo la morte di Singh. Come dire: “Tranquilli, abbiamo capito la lezione”. Peccato che la lezione duri quanto un lampo estivo.

Perché l’Italia è il Paese dei fuochi di paglia, delle indignazioni momentanee, delle soluzioni posticce. Un Paese che si sveglia solo quando il sangue macchia i campi, per poi tornare a dormire beato nel suo letto di illegalità e sfruttamento. E così, mentre a Mantova e Caserta oltre il 70% delle aziende sono irregolari, mentre a Foggia si sospendono 5 aziende su 16, il ministro parla solo di “mele marce”. Ma la verità è che il sistema è marcio alla radice. Un sistema che fa finta di indignarsi, di correre ai ripari ma che in realtà non vede l’ora di tornare alla “normalità” dello sfruttamento. Se ci scapperà il morto ancora si ripartirà da capo. 

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Prende corpo la Commissione Ue, il ruolo dell’Italia resta un rebus

Con il rinnovo della Commissione Europea all’orizzonte, i Paesi membri stanno avanzando le loro proposte per i nuovi commissari. La presidente Ursula von der Leyen ha richiesto ai governi di proporre sia un uomo che una donna, con l’obiettivo di mantenere l’equilibrio di genere raggiunto nel 2019.

I candidati in gioco: equilibri di genere e conferme strategiche

Diversi Stati membri hanno già avanzato i propri candidati. La Slovacchia ha confermato Maroš Šefčovič, mentre la Lettonia ha ribadito il sostegno a Valdis Dombrovskis. La Spagna propone Teresa Ribera, attuale ministra della Transizione Ecologica, e la Svezia ha indicato Jessika Roswall, ministra per gli Affari Europei. La Danimarca potrebbe scegliere l’ex primo ministro Lars Løkke Rasmussen e il Belgio confermare Didier Reynders, attuale commissario alla Giustizia.

Altri possibili candidati includono Kaja Kallas per l’Estonia e Tytti Tuppurainen per la Finlandia, entrambe figure di spicco nei rispettivi governi. Kallas è sostenuta dai leader Ue per guidare la politica estera, assegnandole di fatto quindi anche il ruolo di vicepresidente della Commissione. L’Ungheria, invece, potrebbe cercare di mantenere Olivér Várhelyi come commissario, vista l’aria non proprio favorevole a Bruxelles dopo le intemperanze di Orbàn alla guida del Consiglio europeo. 

Diversi governi hanno scelto di evitare una brutta lotta interna riproponendo i commissari della scorsa legislatura per Berlaymont, il quartier generale della Commissione. Oltre a Maroš Šefčovič (Slovacchia) e Valdis Dombrovskis (Lettonia) dovrebbero essere confermati Dubravka Šuica (Croazia) e Wopke Hoekstra per l’Olanda. Rimangono in bilico le eventuali conferme di Thierry Breton (Francia) e Margaritis Schinas (Grecia). 

La sfida italiana: Meloni tra tensioni interne e pressioni europee

L’Italia, sotto la guida di Giorgia Meloni, si ritrova in una posizione difficile dopo l’isolamento già evidente nella scelta dei presidenti e vice presidenti delle commissioni parlamentari. Meloni spera di ottenere un portafoglio di rilievo ma le tensioni politiche interne e le controversie con Bruxelles su temi come l’immigrazione potrebbero ostacolare le sue ambizioni. 

I nomi più discussi per l’Italia includono Elisabetta Belloni, attuale capo del Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza,, Antonio Tajani, ministro degli Affari Esteri ed ex presidente del Parlamento Europeo (che comunque smentisce) e il ministro per gli affari europei, le politiche di coesione e il PNRR Raffele Fitto. 

Ma la partita italiana per la prossima Commissione non è sui nomi. È una questione di portafoglio. Von der Leyen starebbe pensando all’Italia per il ruolo del nuovo commissario dedicato al Mediterraneo, figura più simbolica che operativa. Negli uffici di Bruxelles si teme che un nome italiano in quel ruolo potrebbe essere una leva per la propaganda contro l’immigrazione che Meloni e Salvini agitano abitualmente. Per questo si preferirebbe dall’Italia un nome forte che garantisca anche spessore e autonomia rispetto alla maggioranza di governo. Nome che la destra italiana non ha, escluso Tajani. 

Una volta terminato il lavoro di von der Leyen nella scelta dei nomi i nuovi commissari dovranno comunque passare dal voto del Parlamento Ue. Il voto parlamentare potrà bocciare i candidati commissari e a quel punto toccherebbe al Paese in questione avanzare nuove proposte. Nel 2019 furono bocciati il candidato francese, romeno e ungherese. 

Von der Leyen punta a terminare il giro di audizioni con i candidati tra settembre e la prima settimana di ottobre per passare dal voto del Parlamento e avere la Commissione definita e operativa entro il primo novembre. A quel punto per l’Italia potrebbe essere il giorno di ufficializzare l’ennesima sconfitta europea. 

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Il criminale di guerra Benjamin Netanyahu al Congresso Usa

Se si dovesse tradurre l’intervento del criminale di guerra Benjamin Netanyahu al Congresso Usa in un’immagine si potrebbe partire dai familiari degli ostaggi israeliani che indossavano magliette con la scritta “Accordo subito” e sono stati allontanati dalla polizia per non disturbare. 

Nella retorica di Bibi gli ostaggi, così come le vittime del 7 ottobre del 2023, sono crudelmente la leva per incassare più armi e per garantirsi più stabilità politica. Un capo di Stato che si porta sulle spalle l’uccisione di 37 mila persone di cui un terzo sono bambini non ha il vocabolario cardiaco per empatizzare con gli essere umani, che siano “suoi” o che appartengano ai “nemici”. 

Se si dovesse tradurre l’intervento del criminale di guerra Benjamin Netanyahu si potrebbero prendere in prestito le parole dell’ex presidente della Camera Usa Nancy Pelosi – che non è certo Sanders – quando dice “di gran lunga il peggior intervento di qualsiasi dignitario straniero invitato e onorato del privilegio di rivolgersi al Congresso degli Stati Uniti”. 

Si potrebbe sottolineare che tra gli assenti alla ridda di applausi per il criminale di guerra c’era quella Kamala Harris che una parte di mondo vede come salvezza democratica del mondo occidentale. Si potrebbero sottolineare che a non presentarsi sono stati 80 deputati democratici e almeno sei senatori democratici. 

Per dare una cifra del senso del diritto di Netanyahu si potrebbe citare quel patetico passaggio del suo discorso in cui accusa la Corte penale internazionale (Cpi) di “voler mettere le mani su Israele”. Proprio lui che sogna di scippare la Palestina tenendone la popolazione sotto il tacco. 

Se si dovesse tradurre la cifra politica del criminale di guerra Benjamin Netanyahu al Congresso Usa si potrebbe scrivere che il capo di Israele ha colto l’occasione per soffiare sulla candidatura di Donald Trump. 

Il resto – la propaganda e la retorica – la potete leggere invece negli altri quotidiani in giro. 

Buon giovedì.  

Nella foto: frame del video sulle proteste di migliaia di manifestanti davanti al Campidoglio

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Cara Giorgia le cose stanno così

Alla fine i nodi vengono al pettine. Il rapporto annuale della Commissione Ue sullo Stato di diritto era stato rinviato per le elezioni e leggendolo si capisce perché. Il governo di Giorgia Meloni ne esce peggio di quanto si potesse immaginare. Al paragrafo IV di pagina 31 Bruxelles analizza la cosiddetta riforma del premierato sottolineando come la riduzione dei poteri previsti per il presidente della Repubblica (che qui le destre continuano sfacciatamente a negare) sollevi “preoccupazioni”. Oltre ai “dubbi” sul fatto “che possa portare più stabilità”.

Il testo cita anche i rilievi sollevati dall’Associazione nazionale costituzionalisti secondo i quali il capo dello Stato risulterebbe “indebolito”. A questi appunti è associato anche l’eccessivo ricorso ai decreti legge che sta provocando effetti sul corretto rapporto tra governo e Parlamento. Critiche anche al rapporto tra politica e giustizia per le “dichiarazioni di politici” che possono “compromettere l’indipendenza della magistratura”. Allarme sull’abolizione dell’abuso d’ufficio e sul “ruolo della criminalità organizzata nell’impossessarsi dei fondi del Pnrr”.

Era prevedibile anche la critica sulla libertà di stampa per le aggressioni ai cronisti e “un possibile effetto agghiacciante sui giornalisti che sono maggiormente esposti alle querele per diffamazione”. Un capitolo anche sulla Rai in cui si esprime “inquietudine”. No, le critiche al governo non sono un’invenzione dei “nemici” che Meloni vede dappertutto. Sono un fatto, anche politico.

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Nascosti sotto al tappeto, ecco dove sono finiti i poveri

Il governo Meloni ha trovato la soluzione perfetta alla povertà in Italia: nasconderla sotto il tappeto. Come per magia, oltre 7 miliardi di euro destinati al contrasto dell’indigenza sono svaniti nel nulla. Un vero e proprio trucco da illusionista. Ma attenzione: i poveri non sono spariti. Sono ancora lì, 5,6 milioni secondo l’Istat, anche il governo gioca a nascondino. Via il Reddito di cittadinanza, dentro l’Assegno di inclusione e il Supporto formazione lavoro.

Strumenti che, guarda caso, servono più a far risparmiare lo Stato che ad aiutare chi è in difficoltà. I numeri parlano chiaro: 697.640 domande accolte per l’Assegno di inclusione, circa un milione e 700mila persone coperte. E gli altri 4 milioni di poveri? Evidentemente non esistono. Forse si sono volatilizzati o sono stati inghiottiti da un buco nero. Il Supporto formazione lavoro? Un miraggio nel deserto: 96.161 domande accolte in 10 mesi. Ma quanti hanno trovato realmente lavoro? Non si sa.

Nel frattempo, mezzo milione di famiglie che prima ricevevano il Reddito di cittadinanza ora si ritrova con un pugno di mosche. E che dire dei lavoratori poveri? Tre milioni e mezzo di invisibili, che non hanno diritto né al sostegno per la povertà né a un salario minimo dignitoso. In questo teatrino dell’assurdo, il governo Meloni recita la parte del prestigiatore maldestro: cerca di far sparire la povertà, ma si dimentica che sotto il palco ci sono milioni di italiani che quella povertà la vivono sulla propria pelle ogni giorno Alla fine, l’unica cosa che davvero scompare sono i diritti e la dignità di chi fa fatica ad arrivare a fine mese. La povertà è solo un’illusione ottica ma ci credono solo i non poveri.

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Pianeta forno: la Terra batte un nuovo record di caldo e si avvia verso un futuro infernale

Il termometro del pianeta continua inesorabilmente a salire, segnando nuovi allarmanti record. Domenica scorsa potrebbe essere stato il giorno più caldo mai registrato dagli scienziati, con la temperatura media dell’aria superficiale che ha toccato i 17,09°C secondo i dati preliminari del Copernicus Climate Change Service.

Un nuovo picco che supera, seppur di poco, il precedente record di 17,08°C stabilito appena un anno fa, il 6 luglio 2023. Una differenza minima, statisticamente quasi indistinguibile, ma che conferma la drammatica accelerazione del riscaldamento globale a cui stiamo assistendo.

Temperature da capogiro: il termometro globale segna nuovi record di caldo

“Ciò che è veramente sconcertante è quanto sia grande la differenza tra la temperatura degli ultimi 13 mesi e i precedenti record”, ha dichiarato Carlo Buontempo, direttore di Copernicus. “Ora siamo in un territorio davvero inesplorato e mentre il clima continua a riscaldarsi, siamo destinati a vedere nuovi record battuti nei mesi e negli anni futuri”.

Parole che suonano come un sinistro presagio per il futuro del nostro pianeta, sempre più stretto nella morsa di un caldo asfissiante che non accenna a dare tregua. Un caldo alimentato dall’inquinamento da carbonio prodotto dalla combustione di combustibili fossili e dall’allevamento intensivo, che sta trasformando intere regioni del globo in vere e proprie fornaci.

Gli effetti di questa “cottura” accelerata sono già drammaticamente visibili: incendi che divorano case e foreste, ondate di calore mortali che mettono a dura prova ospedali e case di riposo, eventi meteorologici estremi sempre più frequenti e devastanti.

Un futuro incandescente: gli scenari previsti dagli esperti

Zeke Hausfather, scienziato del clima del progetto Earth Data di Berkeley, definisce il nuovo record “certamente un segno preoccupante” e avverte: “Si rende anche ancora più probabile che il 2024 batterà il 2023 come l’anno più caldo mai registrato”.

Una prospettiva che fa tremare, considerando che stiamo già vivendo 13 mesi consecutivi con temperature superiori di 1,5°C rispetto all’era pre-industriale, come rilevato da Copernicus all’inizio di luglio. Un dato che ci avvicina pericolosamente alla soglia critica fissata dagli accordi di Parigi, oltre la quale gli effetti del cambiamento climatico potrebbero diventare irreversibili.

Il professor Peter Thorne dell’Università di Maynooth, coautore di un rapporto IPCC che ha attribuito all’attività umana la responsabilità del riscaldamento globale dal 1850 ad oggi, lancia un monito: il record di domenica potrebbe un giorno essere considerato “anomalamente freddo” se non raggiungeremo rapidamente le emissioni nette zero.

“Solo una rapida occhiata alla gamma di eventi che si stanno verificando in tutto il mondo in questo momento – incendi, inondazioni, ondate di calore – ci dice che non siamo lontanamente preparati per gli estremi che questo mondo più caldo ci ha comprato”, ha affermato Thorne. “Siamo ancora meno preparati per ciò che verrà”.

Le tabelle di marcia dell’IPCC e dell’Agenzia Internazionale per l’Energia indicano chiaramente la necessità di tagli drastici alla domanda di combustibili fossili per raggiungere zero emissioni nette entro il 2050. Uno studio pubblicato lo scorso anno ha stimato che, per centrare gli obiettivi climatici, tra il 2020 e il 2050 l’offerta di carbone dovrebbe ridursi del 99%, quella di petrolio del 70% e quella di gas dell’84%.

Numeri che sembrano fantascienza di fronte all’inerzia dei governi e alle resistenze delle lobby dei combustibili fossili. Eppure, come sottolinea la professoressa Vanesa Castán Broto dell’Università di Sheffield, non possiamo permetterci di arrenderci: “Mantenere i cambiamenti nelle temperature medie globali al di sotto di 1,5°C non è impossibile, ma sembra un’impresa disperata. A volte, è come svegliarsi sepolti sotto terra: puro orrore”.

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Che ne dice La Russa, fa ridere anche così?

Sono convinto che in cuor suo Ignazio Maria Benito La Russa sia convinto di essere un politico brillante. La seconda carica dello Stato ha coniato la figura retorica del larussismo che consiste nell’esprimere solidarietà canzonando le vittime. Anche ieri La Russa probabilmente si è addormentato sornione pensando di essere riuscito a esprimere contemporaneamente la dovuta solidarietà al giornalista de La Stampa Andrea Joly e l’interessata simpatia verso i fascisti che l’hanno pestato. 

Le regole lessicale del larussismo ci sono tutte. Si comincia dal “condanna totale” a cui si aggiunge sempre un “ma”. Poi La Russa indossa la maschera del busto di Mussolini per aggiungere che non crede che «il giornalista passasse lì per caso» per poi aggiungere che ha «letto» che «non si è dichiarato giornalista». 

Usiamo la sua stessa figura retorica al contrario. Nel centro di Torino dei fascisti fuorilegge hanno occupato la strada con una festa non autorizzata sparando fumogeni mentre intonavano canzoni dedicate a Mussolini. Un cittadino – fingiamo che non sia un giornalista – è rimasto colpito dalla decadenza del Paese in cui vive e ha voluto raccogliere prove di un reato che si consumava in mezzo alla strada. 

I manigoldi, come al solito vigliacchi, gli hanno intimato di cancellare le foto del loro crimine in pubblico assalendolo per le vie della città, a dimostrazione degli effetti dell’invasione di clandestini della Costituzione che per colpa di un governo incapace di chiudere i porti e i tombini ai fascisti di ritorno. La seconda carica dello Stato se l’è presa con il cittadino per nascondere le responsabilità morali del governo di cui fa parte. 

Che ne dice La Russa, fa ridere anche così?

Buon mercoledì. 

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A grandi passi verso l’irrilevanza

Giorno dopo giorno cresce l’irrilevanza politica dell’Italia in Europa. Il pastrocchio di Giorgia Meloni che per mesi ha oscillato tra von der Leyen e sovranisti finendo nel guado dell’insignificanza sta dando i suoi frutti amari. 

Al Parlamento europeo l’Italia ha ottenuto una sola presidenza di commissione finita all’ex sindaco di Bari Antonio Decaro (Pd) mentre Forza Italia perde la guida della commissione Affari costituzionali che fu di Salvatore De Meo e ora invece passa al tedesco Sven Simon. Anche il Pd perde la presidenza di una commissione di peso come quella Economia che nella scorsa legislatura era presieduta da Irene Tinagli e ora è passata socialista francese Aurore Lalucq.

Non è nemmeno un caso che la presidenza della sottocommissione per le questioni fiscali sia finita a Pasquale Tridico, capo delegazione del Movimento 5 stelle. Un esponente dell’opposizione in Italia e in Europa è ritenuto più credibile di patrioti e sovranisti che reclamano una poltrona. Un’immagine che dice tutto. 

Che la capa del governo italiano stia dentro un partito ritenuto impresentabile in Europa non è solo il giudizio vezzoso di qualche giornalista ritenuto nemico dalla maggioranza. È un dato politico che condiziona il peso del nostro Paese all’interno dello scacchiere europeo. Le regole della politica, soprattutto quelle tra nazioni, sono molto più semplici di come qualcuno si ostini a raccontare. La credibilità è il capitale politico di un Paese. E se ci pensate bene accade così per ciascuno di noi. 

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