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Ministero del Made in Algeria

Il ministro che ha voluto un ministero chiamato Made in Italy ovvero Francesco Lollobrigida, cognato d’Italia e della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, aveva promesso di difendere “il sovranismo alimentare”, qualsiasi cosa significhi. Il ministro del Made in Italy ha firmato nei giorni scorsi un patto con l’Algeria all’interno del cosiddetto Piano Mattei – qualsiasi cosa significhi – in cui si prevede la concessione di 36mila ettari in Algeria alla società Bonifiche Ferraresi che li rigenererà per la coltivazione di cereali e legumi. Spesa stimata: 420 milioni per creare una filiera produttiva completa, dalla semina alla lavorazione dei prodotti agricoli, e rafforzare la sicurezza alimentare locale. Solo che secondo i dati del 2023, lo stipendio medio mensile in Algeria è di circa 300 euro, mentre in Italia è intorno ai 1.600 netti. Il prezzo dell’elettricità per uso industriale in Algeria è di circa 0,03 euro per kilowattora (kwh), contro gli 0,18 euro per kwh in Italia. Se a questo aggiungiamo i soldi che l’Italia cede come investimento lo squilibrio che preoccupa gli operatori del settore è presto fatto.

Gli agricoltori italiani infatti temono che se da un lato questa iniziativa potrebbe rappresentare un modello virtuoso, dall’altro rischia di creare una concorrenza sleale: il costo inferiore della produzione in Algeria potrebbe spingere i prezzi verso il basso, rendendo difficile per i produttori italiani mantenere i margini di profitto. Concorrenza sleale, dicono a bassa voce, per di più finanziata con soldi di Stato. Una settimana fa il ministro ha promesso di intervenire stabilendo un “costo medio di produzione”, cioè quanto un imprenditore agricolo spende per produrre un determinato bene: “Quando c’è un contratto di vendita – ha spiegato il ministro – in cui il prezzo scende sotto il costo medio di produzione c’è un controllo delle forze dell’ordine e degli ispettori”. Chissà se li spediranno anche ad Algeri.

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I morti per pena delle carceri italiane

Stefano Anastasia, tra i fondatori dell’associazione Antigone che si occupa dei diritti dei detenuti, scrive un commento per Il Manifesto in cui sottolinea il ritorno della teoria della rivolta coordinata nelle carceri italiane. 

I 58 detenuti suicidati nel 2024 – di cui due morti rifiutandosi di alimentarsi – oltre ai sei agenti di polizia penitenziaria suicidi dall’inizio dell’anno sono la fotografia di una pena di morte di fatto a cui da almeno 25 anni non si riesce a porre rimedio. «Morte per pena» la chiama Gennarino De Fazio segretario generale della Uilpa penitenziari. 

Per svicolare dal problema certa stampa si sta riempiendo, di nuovo, delle cronache di rivolte in alcune carceri come Sollicciano, Viterbo, Torino, Trieste. Protestare in un luogo che mette a rischio la sopravvivenza dovrebbe essere considerato naturale, perfino salubre. Non è certo l’ordine pubblico il tema preponderante: i detenuti italiani sottoscrivono con lo Stato un patto di responsabilità che lo Stato non rispetta, infliggendo pene che non sono previste. 

Anastasia sottolinea invece come il ddl del governo sulla sicurezza abbia voluto occuparsi delle rivolte, elevandole a reato a sé, perseguibile anche in caso di resistenza passiva di tre o più detenuti. Risultato? Saranno colpevoli “tre detenuti che rifiutano di rientrare in cella – spiega Anastasia – perché vogliono far vedere al responsabile della sezione una perdita d’acqua dal lavabo o l’intera sezione che vuole parlare con il direttore, il garante o il magistrato di sorveglianza”. 

Lo Stato violento che criminalizza le proteste non violente mentre in carcere si muore. Siamo messi così. 

Buon mercoledì. 

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“Si è abbassata la soglia di attenzione su fascismo e nazismo”. Parla Fiano: “In Palestina c’è lo scontro tra due diritti e non tra un diritto e un torto”

“Come la grandine” scrive l’ex parlamentare Emanuele Fiano, promotore nella scorsa legislatura di un disegno di legge per inasprire la legge Mancino contro il ritorno del nazifascismo e contro i suoi simboli e le sue rappresentazioni. Sul suo profilo Facebook Fiano elenca una spaventosa sequenza: a Mortirolo-Monno (BS) la ventinovesima cerimonia dell’associazione combattenti e reduci delle Waffen SS italiane, i camerati della Comunità dei Dodici Raggi che organizzano “una bella cenetta  con tanto di locandina pubblicitaria di cena di Hitler con dei bravi camerati delle SS” e Pavia, sabato 13 luglio alle 18.30, la conferenza a tema “Joseph Goebbels e la battaglia di Berlino” organizzata dall’associazione culturale “L’Incudine”, introdotta da Ettore Sanzanni, segretario provinciale di Lodi della Rete dei Patrioti, nata da una scissione di Forza Nuova. “Ha una svastica tatuata sul braccio. Pluri fotografata”, scrive l’ex deputato del Pd. 

Fiano, che sensazione la assale vedendo tutto questo?

La mia sensazione è che ormai la soglia di attenzione si è molto abbassata perché c’è un’operazione culturale che la destra di Meloni non nasconde. Una finta operazione gramsciana che grazie ai livelli di occupazione dell’emittente pubblica e anche dei quotidiani di una cultura di destra ha ormai un sacco di voci che parlano e che orientano. Quindi il livello di attenzione culturale ancora prima che politico si è abbassato in maniera abnorme. 

Una questione culturale prima che politica

Questo influenza sia l’atteggiamento culturale ma anche il riflesso che c’è nelle questioni penalistiche. Ormai è passato sotto silenzio che coloro che hanno compiuto una violenta azione squadrista contro la sede della Cgil hanno avuto pene molto risibili. Così come la comunità dei 12 raggi che è un movimento neonazista di cui c’erano intercettazioni orribili e pur essendo sotto processo nella zona di Varese si riunisce, promuove manifestazioni; così come si può fare un convegno su Goebbels come se fosse un eroe di guerra; così come movimenti neonazisti con personaggi con curriculum pazzesco agiscono indisturbati. Si è totalmente abbassato il livello di attenzione, di interesse e di percezione dei simboli e della cultura. 

Può essere che la soglia di attenzione si sia abbassata anche per colpa di qualcuno che sta all’opposizione? Si sente dire che “l’antifascismo è roba passata”, non solo da voci di destra…

Il mio partito (il Partito democratico) direi che ha mantenuto gli impegni. La legge che avevo scritto con Andrea De Mari, Walter Verini e Anpi per modificare la legge Mancino è stata ripresentata ed è in commissione. Bisogna insistere. Lo scenario politico tra l’altro è riempito anche da altre urgenze, come la riforma della Costituzione, che io considero un grave pericolo. Quindi i partiti di centrosinistra Avs, Pd e 5s, e i due partiti di centro sono impegnati molto in quella battaglia. Bisognerebbe cercare di non mollare. La stessa Anpi, i sindacati son concentrati sul prossimo referendum. Ma non bisogna mollare la presa perché si rischia sennò che questi temi facciano proseliti, visto che abbiamo un governo che non pone sicuramente l’attenzione che abbiamo noi. Senza dimenticarci che c’è un anello di congiunzione tra ciò che accade e l’inchiesta di Fanpage perché nei giovani istituzionalizzati della destra italiana, nel movimento giovanile del partito della presidente Meloni, sono soliti rifarsi a simboli di Hitler e Mussolini, addirittura all’umiliazione della senatrice Ester Mieli. Per me questa è la cosa più pericolosa. L’estremismo è ridotto nei numeri ma la cultura che veicolavano solo in circoli molto ristretti ora ha una sua traduzione perché è penetrata almeno nei giovani del partito di governo. Oddio, pensandoci bene c’è anche la seconda carica dello Stato con a casa il busto di Mussolini. Penso che la non conoscenza e la mistificazione di quel periodo produca un deficit anche nelle riforme che contengono dei rischi che non si possono comprendere se non si conosce bene quella storia. 

Come può essere che quelle fazioni, quelle destre con aliti di fascismo, siano diventate i guardiani dell’antisemitismo e siano addirittura ritenute credibili in quel ruolo?

Intanto bisogna vedere se è vero. Io penso che sia vero che la stragrande maggioranza degli elettori di centrodestra non sia antisemita. La destra italiana, in particolare Meloni, si è molto occidentalizzata. Meloni sta facendo questo sforzo da anni, si è accreditata con Usa e Gb, e infatti in Europa l’estrema destra si è staccata da lei. Nell’occidentalizzazione c’è sicuramente la percezione di sentirsi appartenere a un mondo che ha nelle proprie radici anche l’essenza ebraica, quelle che chiamavano radici giudaico cristiane dell’Europa. Meloni viene dopo un percorso importante iniziato da Fini di completa critica della parte antisemita del fascismo. Arriva dopo quel passaggio. 

Ed è un percorso credibile?

Mi pare che questo percorso culturale non abbia concluso il suo ciclo. Ancora oggi se tu parli a molti di loro la condanna delle leggi razziali è totale però questo non gli permette ancora di pronunciare la parola antifascista, di abiurare quel periodo. Io non sono tra coloro che slegano l’antisemitismo al fascismo, il fascismo abolì la libertà prima delle leggi razziali, la libertà di stampa, della magistratura. Sembrano paladini perché questa è diventata una parte della loro totale occidentalizzazione. Lo considero un passaggio necessario. Lo considerano tutti? Le immagini di Fanpage sembrerebbero dire di no. Secondo me non basta.  Poi questo è un periodo complicato perché le forme dell’antisemitismo sono molte. Non sono solo a destra, ci sono anche a sinistra. Io non ritengo che chi critica il governo di Israele sia antisemita. Io critico il governo di chi mi pare. Però ci sono formule contro il governo di Israele che arrivano a essere discriminazione. Loro hanno scelto di essere fortissimamente dalla parte di Israele. 

Ma a questo punto la destra concorre alla banalizzazione di chi vorrebbe indicare come antisemita chiunque chieda la protezione dei palestinesi. Non trova Non è una banalizzazione pericolosa

Non va fatta. La mia posizione, che è quella storica della sinistra israeliana, della mia associazione Sinistra per Israele, è che prima di parlare della contingenza degli ultimi mesi, della necessità di fermare questa guerra, bisogna dire che in quella storia c’è lo scontro tra due diritti e non un diritto e un torto. Se non si affronta così ma credendo che il diritto sia tutto da una parte allora si sta dalla parte di chi vuole procrastinare questo scenario di conflitto. Non sarò mai dalla parte di chi pensa che criticare le scelte del governo di Israele sia antisemitismo, altrettanto non si deve pensare che chi critica le scelte del movimento palestinese sia anti palestinese. D’altra parte ci aiutano in questo le grandissime manifestazioni che in Israele prima erano contro la trasformazione in senso autoritario dello Stato di Israele e oggi, guidate dai parenti degli ostaggi, sono fortemente contro le politiche di Nethanyau. L’equilibrio non vuol dire assecondare le azioni di una delle due parti. Vuol dire lavorare per interrompere questa guerra, fermare le morti, essere liberi di criticare le scelte dei governi.

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Complimenti Europa, la nuova Libia è la Tunisia. Il rapporto-denuncia di Alarm Phone

Come previsto la Tunisia ha imparato presto a fare la Libia. Il nuovo rapporto di Alarm Phone, realizzato in collaborazione con attori della società civile tunisina, ci porta dentro un oscuro panorama di abusi e pratiche illegali perpetrate dalla Guardia Nazionale tunisina contro i migranti in fuga.

La collaborazione invisibile

Nel contesto di criminalizzazione e repressione crescente, documentato da Alarm Phone, il rapporto rivela come le politiche di esternalizzazione dei confini dell’Unione Europea abbiano trovato un alleato inaspettato nella Tunisia. Sostenuta economicamente e logisticamente dall’Europa, la Tunisia è diventata il confine marittimo d’Europa, un guardiano di ferro che agisce con brutalità su mandato altrui.

Dal 2021 al 2023, 14 interviste approfondite con sopravvissuti raccontano una realtà fatta di non-assistenza, manovre intenzionali per far capovolgere le barche, e attacchi fisici. Le testimonianze raccolte mostrano un quadro di violenza sistematica: “I bambini sono tutti morti. Gli agenti ci guardavano morire senza muovere un dito”, racconta Maria, una sopravvissuta che ha perso il figlio di un anno e tre mesi durante una di queste operazioni di respingimento.

Ali e Maria, il 10 luglio 2021, descrivono un attacco crudele in cui la Guardia Nazionale ha speronato la loro imbarcazione, causando il ribaltamento e la morte di 29 persone, inclusi tutti i bambini a bordo. “Abbiamo obbedito, ma la Guardia ha fatto una rapida inversione e ha colpito la nostra barca,” ricorda Ali. “Tutti sono caduti in acqua. Alcuni avevano giubbotti di salvataggio, ma molti non sapevano nuotare e sono annegati.”

Un mare di morte e silenzio

Le operazioni della Guardia Nazionale tunisina, sostenute e armate dall’Ue, non solo sono illegali ma letali. Le manovre pericolose, l’uso di armi e la rimozione dei motori dalle barche in difficoltà sono pratiche comuni. Ali, che ha visto la propria imbarcazione affondare dopo essere stata speronata, descrive un’esperienza di disperazione: “Siamo stati spinti a riva. I soccorsi non sono arrivati, abbiamo trovato i corpi dei nostri amici da soli”.

Il rapporto denuncia anche l’ipocrisia delle retoriche umanitarie dell’Unione Europea. Il pretesto di “salvare vite” è un velo sottile per nascondere obiettivi di sicurezza e controllo. La retorica del salvataggio si scontra con la realtà di pratiche mortali, come evidenziato dalla testimonianza di Fatoumata, che ha visto suo fratello e i suoi due nipoti annegare sotto lo sguardo indifferente della Guardia Nazionale.

Katie, il 18 maggio 2022, descrive come i guardacoste tunisini abbiano circondato la sua barca per tre ore, creando onde che minacciavano di rovesciarla. “Quando hanno visto che non riuscivano a farci affondare, hanno finalmente smesso e ci hanno indicato la direzione del porto di Zarzis,” ricorda. La situazione di Georges, il 29 agosto 2022, è ancora più cruenta: “Hanno minacciato di spararci e uno dei miei fratelli ivoriani ha ricevuto una coltellata alla testa.”

Una politica di complicità

L’Europa, nel suo tentativo di chiudere le rotte migratorie, ha alimentato una spirale di violenza e morte. Il memorandum d’intesa firmato tra l’Ue e la Tunisia nel 2023 è solo l’ultimo atto di una lunga storia di cooperazione nell’esternalizzazione dei confini. Come sottolinea Alarm Phone, “queste politiche non fermano i flussi migratori, ma li rendono più pericolosi.”

Il rapporto fa luce anche sull’aumento delle deportazioni verso il deserto, una pratica disumana che espone i migranti a condizioni estreme e spesso letali. Issouf e Oumar, il 21 marzo 2023, descrivono come le loro barche siano state deliberatamente rovesciate dalla Guardia Nazionale, causando almeno 6 morti. “Abbiamo urlato per chiedere aiuto, ma loro guardavano solo da lontano”, racconta Oumar.

Fatoumata, il 23 marzo 2023, racconta di come la Guardia Nazionale abbia colpito il capitano della sua barca con una barra di metallo, causando il capovolgimento e la morte di 15 persone, inclusi i suoi parenti stretti. “Hanno guardato noi annegare prima di tirarci su sulla loro barca”, ricorda, sottolineando l’indifferenza disumana dei soccorritori.

Un appello alla solidarietà

In questo mare di dolore, la solidarietà transnazionale emerge come un faro di speranza. Nonostante la repressione, gli attivisti di Alarm Phone e della società civile tunisina continuano a organizzarsi, a denunciare le politiche razziste e assassine e a difendere il diritto alla libertà di movimento per tutti.

Lami, il 1° aprile 2023, descrive come la Guardia Nazionale abbia rimosso il motore dalla sua barca, lasciandoli alla deriva per ore prima di essere salvati da pescatori locali. “Siamo stati in acqua per più di tre ore senza motore,” racconta, un’esperienza che evidenzia la noncuranza per la vita umana.

Mamadou, il 23 aprile 2023, testimonia come la Guardia Nazionale abbia ignorato le richieste di soccorso, portando alla morte di 25 persone. “Abbiamo chiamato la Guardia Costiera per chiedere aiuto, ma ci hanno detto che non stavano lavorando,” racconta, illustrando una situazione di abbandono e disumanizzazione.

Il Mediterraneo centrale, teatro di tante tragedie, è anche il luogo dove si gioca una battaglia di diritti e dignità umana. E mentre l’Europa continua a blindare i suoi confini, la lotta per la giustizia e la libertà di movimento non si ferma.

Le voci invisibili dei migranti che hanno il coraggio di testimoniare sono fondamentali per abbattere l’immagine di ‘vittime’ che spesso viene loro attribuita. Son racconti di tenacia e di coraggio di lottare per i propri diritti. Il mare di sofferenza e morte che attraversano è anche un mare di resistenza e speranza.

Alarm Phone, insieme alla società civile tunisina e transnazionale, assicura che continuerà a documentare le pratiche violente della Guardia Nazionale tunisina e di tutte le altre autorità coinvolte nelle intercettazioni e nei respingimenti nel Mediterraneo. “Denunciamo questo regime repressivo di controllo della mobilità e le politiche di outsourcing che lo permettono e lo incoraggiano”, scrive l’Ong. 

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Il volto gentile del trumpismo, paravento dell’estremismo

Il volto fintamente gentile dell’America trumpiana ha un nome: James David Vance. L’ex marine diventato venture capitalist, ora senatore dell’Ohio, è stato scelto da Trump come potenziale vice. Un ragazzo di provincia che ce l’ha fatta, autore di un bestseller sulla crisi della classe operaia bianca. Peccato che dietro la facciata da bravo ragazzo si celi un reazionario estremista. Vance sogna di “estirpare come un tumore” l’attuale classe dirigente americana, colpevole di essere troppo progressista. Il suo modello? La denazificazione della Germania post-bellica. Sì, avete capito bene: denazificazione. Il senatore propone di “sequestrare le istituzioni della sinistra e usarle contro di essa”. Come? Licenziando in massa i dipendenti pubblici per sostituirli con fedelissimi trumpiani. E se i tribunali si opporranno? Vance suggerisce di ignorare le sentenze, citando il precedente del presidente Jackson che sfidò la Corte Suprema.

Non contento, vorrebbe anche tassare pesantemente le università ree di diffondere idee “anti-americane”. Il tutto in nome di un “conservatorismo muscolare” che non arretra davanti a metodi extracostituzionali. Abbasso quindi i diritti civili. Sulla politica estera Trump e Vance concordano: “l’Europa dovrebbe difendersi da sola”. Insomma, dietro il sorriso rassicurante si cela un estremista pronto a sovvertire lo Stato di diritto. Un pericolo per la democrazia americana travestito da paladino della working class. Nel 2016 Vance definì Trump “un potenziale Hitler americano”. Oggi è pronto a essere il suo braccio destro. Una metamorfosi che parla di un uomo disposto a rinnegare i propri principi per una fetta di potere.

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C’è un Orbán nella tana dell’Ursula

Nell’Unione Europea, il clima politico è elettrico. Con l’elezione di Roberta Metsola a Presidente del Parlamento Europeo e la corsa di Ursula von der Leyen per un secondo mandato alla guida della Commissione, i riflettori sono puntati su Bruxelles. A complicare ulteriormente la situazione c’è Viktor Orbán, il premier ungherese, che continua a sfidare i principi democratici dell’Ue, mettendo a dura prova la coesione dell’Unione. Roberta Metsola, esponente del Partito popolare europeo (Ppe), è stata rieletta presidente del Parlamento europeo, confermando il sostegno dei principali gruppi europeisti, inclusi i socialisti, i liberali di Renew e i Verdi.

Nonostante la sua giovane età, Metsola ha dimostrato una capacità di mediazione e una determinazione che le sono valse il rispetto e il sostegno trasversale. Tuttavia, la sua rielezione non è stata priva di sfide, con l’estrema sinistra che ha candidato Irene Montero di Podemos come alternativa simbolica. Parallelamente, Ursula von der Leyen si trova a dover fronteggiare un ambiente ostile per la sua riconferma. Il suo primo mandato, caratterizzato da un forte ego e da una leadership divisiva, ha lasciato numerosi strascichi. La sua tendenza al “divide et impera” ha alienato molti membri della Commissione, inclusi figure di spicco come Josep Borrell e Paolo Gentiloni, che hanno criticato apertamente il suo approccio autoritario.

Un episodio emblematico è stato il cosiddetto “PieperGate”: von der Leyen ha nominato Markus Pieper, un membro del Ppe, senza consultare i commissari competenti. Questa mossa ha suscitato forti reazioni di sfiducia, aggravando ulteriormente la sua posizione precaria. Il Parlamento Europeo ricorda ancora con disappunto il suo disprezzo per le discussioni parlamentari e la sua compiacenza nei confronti di Viktor Orbán, che continua a violare lo Stato di diritto senza conseguenze significative. In questo contesto, il boicottaggio della presidenza ungherese da parte della Commissione, annunciato da von der Leyen, rappresenta un tentativo disperato di recuperare credibilità. Orbán, infatti, dopo incontri con leader controversi come Vladimir Putin e Xi Jinping, continua a sfidare l’Unione, utilizzando la presidenza del Consiglio dell’Ue come palcoscenico per le sue provocazioni. La decisione di von der Leyen di non partecipare alle riunioni informali organizzate dalla presidenza ungherese è stata vista come una semplice mossa politica per distogliere l’attenzione dai suoi problemi interni.

Il futuro di von der Leyen dipende ora dalla sua capacità di negoziare un accordo di coalizione che le garantisca il sostegno necessario per la rielezione. La sua politica ambientale, un tempo fiore all’occhiello del suo mandato, è ora messa in discussione dalla sua stessa famiglia politica, il Ppe, che preme per un allentamento delle misure più rigide. I Verdi, pur critici, sembrano disposti a negoziare, pur di evitare un’alleanza con l’estrema destra. La sfida di von der Leyen non è solo politica, ma anche personale. La sua credibilità è stata minata da anni di leadership controversa e decisioni impopolari. Personalizzare la sua posizione e atteggiarsi da “Presidente d’Europa” (come bisbigliano a Bruxelles) ha aumentato la polarizzazione. Nel frattempo, Roberta Metsola, con il suo secondo mandato, avrà il compito di guidare il Parlamento in un periodo di turbolenze politiche e sociali, cercando di mantenere l’unità e la coesione necessarie per affrontare le sfide future. A Strasburgo molti credono che la sua leadership sarà fondamentale per navigare attraverso le acque agitate della politica europea, mantenendo alto il valore dei principi democratici e dello Stato di diritto.
Giulio Cavalli

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La violenza è un metodo, non è un autotrasportatore con la cinghia in mano

Alcune donne si nascondono in un camion per provare a superare le frontiere blindate dell’Unione europea. All’interno del rimorchio speravano di passare la frontiera francese, a Ventimiglia. 

L’autista se ne accorge, comincia a urlare intimandogli di scendere, poi con qualcosa che sembra una cintura, sicuramente con una parte in metallo, comincia a frustarle. Le donne chiedono di smetterla. 

Sono immagini del 15 luglio e il video fa il giro dei siti d’informazione. Parte il fremito dello sdegno a poco prezzo. Eppure le scene di violenza a Ventimiglia sono all’ordine del giorno, anche se non vengono riprese quasi mai e quasi mai meritano di entrare nel rullo delle agenzie e in pagine sui giornali. 

Basterebbe ascoltare le associazioni che lavorano al confine francese, l’Arci di Imperia, la Caritas, Associazione Popoli in Arte, Associazione Martina Rossi, Casa dei Circoli Culture e Popoli Ceriale, Pays de Fayence Solidaire. Volontari italiani e francesi sul confine di Tenda e Ventimiglia dicono da tempo che quel confine sta scoppiando. 

Ed è così su tutti i confini, italiani e europei. La violenza ai bordi interessa il Mediterraneo, la rotta balcanica, quasi tutti i confini interni. La notizia di ieri non è una notizia: l’Unione europea ha esternalizzato le frontiere e nel frattempo ha indurito le violenze interne. Ogni metro di chi prova a salvarsi deve essere una lezione per lui ma soprattutto un monito per tutti gli altri. 

La violenza è un metodo, non è un autotrasportatore con la cinghia in mano. 

Buon martedì. 

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Schumacher fa coming out ma la strada è lunga

“La cosa più bella nella vita è quando si ha al proprio fianco il giusto partner con il quale si può condividere tutto”. È il messaggio che Ralf Schumacher, 49 anni, ex pilota di Formula 1 come il fratello Michael, ha affidato ad un post su Istagram, corredato da una foto che lo ritrae abbracciato ad un uomo – che secondo la stampa tedesca si chiama Etienne – davanti ad un tramonto.

Il post è stato condiviso dal figlio 22enne David, che l’ha commentato con parole toccanti: “Sono molto felice che tu abbia finalmente trovato qualcuno che ti fa sentire davvero a tuo agio e sicuro – scrive David, anche lui pilota, nella categoria Gran Turismo -. Non importa se uomo o donna. Ti sostengo al 100%, papà, e ti auguro tutto il meglio! Congratulazioni!”. E questo è il bello della storia, alla faccia di chi giudica l’amore degli altri sentendosi padrone delle vite degli altri. Poi ci sono alcune considerazioni. Il fatto che Ralf Schumacher abbia fatto coming out solo all’età di 49 anni è la prova che c’è ancora molta strada da fare prima della normalità. Perché nessun calciatore professionista fa coming out durante la sua carriera professionistica.

Un altro episodio rilevante: nel 2021 il pilota Lewis Hamilton ha vinto il gran premio in Arabia Saudita sfoggiando un casco a sostegno della comunità Lgbt e chiedendo che i sauditi facessero passi avanti sul campo dei diritti. Un ex pilota contestò Hamilton dicendo che i suoi valori “sono molto importanti e può rappresentarli su Instagram e sugli altri social network. L’unica domanda è perché deve sempre farlo in una tuta Mercedes e in pista. Può essere polarizzante. Se i piloti si precipitano troppo in cose del genere è pericoloso, lo sport non lo merita”. Era Ralf Schumacher.

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Il paradosso dell’attentato a Donald

L’ideale sarebbe stato un indiscutibile democratico, meglio ancora un Antifa nell’accezione negativa che la destra sovranista vorrebbe dare all’obbligo di essere antifascisti per Costituzione.

Thomas Matthew Crooks, 20 anni, di Bethel Park, ha deluso le aspettative. “Un bravo studente di matematica al liceo che lavorava in una casa di cura”, scrive il Washington Post. Crooks non aveva precedenti con le forze dell’ordine, non aveva mai dato segni di squilibrio e non ha lasciato traccia di minacce. Gli ex compagni di classe lo hanno descritto come gentile, educato e intelligente.

Chi era Thomas Matthew Crooks?

L’uomo armato lavorava come assistente dietetico presso il Bethel Park Skilled Nursing and Rehabilitation Center, in un sobborgo di Pittsburgh che conta circa 34.000 abitanti e si trova a circa 40 miglia a sud di Butler. Crooks “ha svolto il suo lavoro senza preoccupazioni e i suoi precedenti penali erano puliti”, ha affermato l’amministratore della struttura in una nota. L’elenco dei diplomati della Bethel Park High School stilato da un’agenzia di stampa locale nel 2022 fa figurare Crooks come uno dei 20 studenti ad aver ricevuto un premio di 500 $ per matematica e scienze dalla scuola quell’anno.

Accanto al suo corpo è stato trovato un fucile semiautomatico tipo AR-15. Gli investigatori hanno confermato che l’arma è stata regolarmente acquistata dal padre dell’uomo armato. L’FBI ha spiegato che la famiglia sta collaborando alle indagini.

Di certo si sa che Crooks si esercitava al Clairton Sportsmen’s Club, un poligono a sud di Pittsburgh. “Il Club non è in grado di rilasciare ulteriori commenti in merito a questa questione alla luce delle indagini in corso delle forze dell’ordine”, recita la nota stampa del centro sportivo rilasciata dal suo consulente legale, Robert Bootay, esprimendo le proprie condoglianze per la famiglia di Corey Comperatore, uno spettatore ucciso.

Il registro degli elettori indica il signor Crooks come repubblicano, sebbene i registri federali di finanziamento delle campagne elettorali mostrino che prima aveva donato 15 dollari al Progressive Turnout Project, un gruppo liberale, tramite la piattaforma di donazioni democratica ActBlue nel gennaio 2021. Per ora, dicono gli investigatori, è impossibile identificarlo con una precisa ideologia politica.

L’ombra delle armi sulla violenza politica

Gli inquirenti hanno trovato alcuni ordigni rudimentali sulla sua auto e nell’abitazione. Spesso gli attentatori, i cosiddetti “shooter”, si preparano ordigni per barricarsi con atteggiamenti di guerriglieri. Le assonanze già evidenti invece sono con la strage avvenuta a Austin, in Texas, quando nel 1996 un veterano uccise quindici persone sparando da una torre. Dal trentaduesimo piano di un hotel aveva sparato invece Steven Paddock uccidendo 60 persone. Due anni fa Robert Crimo III ne ha uccise sette sparando da un tetto a Highland Park, Illinois.

Allora forse converrebbe accendere la luce su un Paese in cui le armi sono la prima causa di mortalità tra i giovani americani. Il tentato assassinio è avvenuto un mese dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha inferto l’ultimo colpo agli sforzi per frenare le armi da fuoco, annullando il divieto sui “bump stock”, dispositivi che aumentano notevolmente la potenza di fuoco dei fucili. La misura era stata implementata dopo una sparatoria di massa a Las Vegas, la più mortale nella storia moderna degli Stati Uniti.

A Bethel Park, la comunità oggi sta cercando di fare i conti da domenica con l’ultimo atto di violenza armata, che ha spinto un angolo della periferia americana nel cuore delle elezioni presidenziali del 2024. “È scioccante. È un po’ spaventoso”, ha detto Jeffrey, il vicino della famiglia Crooks. “Non sai mai cosa pensa la gente”.

In Italia la delusione per un attentatore che non corrisponde al tipo utile per alzare ancora l’intensità della battaglia politica contro gli avversari indica la responsabilità con cui si sta affrontando il problema. Del resto chi sono quelli che vogliono le armi libere dalle nostre parti li conosciamo bene.

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Von der Leyen, sfida all’ultimo voto per blindare il bis. Meloni di fronte a un dilemma cruciale

Giovedì 18 luglio, nell’emiciclo del Parlamento europeo a Strasburgo, Ursula von der Leyen affronterà la sfida decisiva per la sua riconferma a presidente della Commissione europea. Con una maggioranza assoluta fissata a 361 voti su 720, von der Leyen ha trascorso due settimane frenetiche a caccia di ogni singolo voto, cercando di consolidare il sostegno necessario. Nonostante l’ottimismo diffuso tra i suoi sostenitori, il percorso verso la conferma appare tutt’altro che agevole.

I numeri sulla carta sembrano favorevoli: il Partito Popolare Europeo (PPE), i Socialisti e Democratici (S&D) e i liberali di Renew contano complessivamente 401 membri, una maggioranza che dovrebbe garantire la riconferma. Tuttavia, la storia e le dinamiche parlamentari insegnano che le defezioni sono sempre dietro l’angolo. Nel 2019, von der Leyen riuscì a essere eletta con un margine risicato di soli nove voti, nonostante un vantaggio teorico ben più ampio. Questo precedente pesa come un’ombra sul voto di giovedì, con una previsione di diserzioni tra il 10 e il 15% nei tre principali gruppi europeisti.

Il peso delle defezioni e il ruolo decisivo dei Verdi per la conferma di von der Leyen

In questa cornice di incertezza, un ruolo cruciale potrebbe essere giocato dai Verdi, che con i loro 53 eletti potrebbero fornire i voti decisivi. Le recenti dichiarazioni della presidente dei Verdi, Terry Reintke, lasciano spazio a un moderato ottimismo per la presidente uscente: “Abbiamo avuto uno scambio molto costruttivo”, ha dichiarato Reintke, sottolineando l’interesse comune contro l’estrema destra. Tuttavia, i Verdi attendono ancora di vedere le linee programmatiche definitive e il discorso di von der Leyen prima di annunciare il loro voto.

Ma il vero nodo della questione potrebbe trovarsi altrove, e precisamente a Roma. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (Ecr), si trova di fronte a un dilemma che potrebbe avere implicazioni profonde per il futuro politico dell’Italia e dell’Europa. Al momento, la posizione ufficiale dell’Ecr è di “libertà di voto”, con molti membri del gruppo, tra cui i 20 deputati polacchi del PiS, dichiaratamente contrari a von der Leyen. Tuttavia, i 24 deputati di Fratelli d’Italia rimangono un’incognita. Nicola Procaccini, presidente dell’ECR, ha confermato che il voto del gruppo è ancora negativo, ma ha lasciato uno spiraglio, sostenendo che le “indicazioni” di Meloni, attese dopo l’audizione con von der Leyen, potrebbero influenzare la decisione finale.

Il dilemma di Giorgia Meloni e l’incognita dei Conservatori

Meloni è in bilico tra la fedeltà alle promesse elettorali e il pragmatismo politico. Votare a favore di von der Leyen potrebbe essere visto come un tradimento dai suoi elettori ma potrebbe rappresentare l’unica opportunità per aumentare l’influenza dell’Italia in Europa. Gli alleati conservatori della presidente uscente della Commissione sostengono che un voto contrario sarebbe un regalo per i populisti e destabilizzerebbe ulteriormente il già fragile scenario geopolitico. D’altra parte, un appoggio a von der Leyen potrebbe rafforzare la posizione dell’Italia nelle future negoziazioni europee, permettendo a Meloni di contare di più nei tavoli che contano.

In questa situazione complessa, la strategia di von der Leyen è chiara: evitare accordi formali con i Verdi per non alienarsi ulteriormente la sua base nel Ppe, ma allo stesso tempo corteggiare i voti individuali del gruppo Ecr. Tuttavia, come sottolineato da esponenti di spicco del Ppe, come l’ex presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, e il commissario europeo greco Margaritis Schinas, la prudenza è d’obbligo. La posta in gioco è alta: un fallimento giovedì potrebbe portare a una paralisi della Commissione europea fino al 2025, con conseguenze imprevedibili per l’Europa.

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