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Il ciclone Trump e l’assenza di soldi: che brutta aria sulla Cop29 di Baku – Lettera43

Donald non ci sarà alla conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici in Azerbaigian, un Paese che vive di gas e petrolio. Ma il negazionismo del tycoon sul riscaldamento globale e l’amore che ha per le trivelle sono un pessimo segnale per il Pianeta. Mancano i fondi per finanziare la transizione verde e la lobby dei combustibili fossili è ancora troppo forte.

Il ciclone Trump e l’assenza di soldi: che brutta aria sulla Cop29 di Baku

A Baku, capitale dell’Azerbaigian dove dall’11 al 22 novembre 2024 è in programma la 29esima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, l’aria è pesante. Non è colpa solo della recente vittoria di Donald Trump alle Presidenziali Usa, che riporta al potere il negazionismo climatico: il Paese sul Mar Caspio è puntellato dalle raffinerie e dai pozzi di petrolio. È stato costruito su questo business dalla metà del XIX secolo e i combustibili fossili sono il 90 per cento delle sue esportazioni. Ironia della sorte: il simbolo nazionale è una fiamma di gas.

Il ciclone Trump e l'assenza di soldi: che brutta aria sulla Cop29 di Baku
Tutto pronto per la Cop29 a Baku, in Azerbaigian (Getty).

Trivelle, incendi, eolico: le inquietanti sparate di Trump

Trump ovviamente non ci sarà. Se volessimo stilare un compendio del vento che spira dal nuovo governo americano potremmo riprendere il motto di Donald, «drill, baby, drill», cioè «trivella, baby, trivella», accompagnato dal sardonico sorriso con cui nel 2019 si era spinto a dire che le turbine eoliche causano il cancro. Trump non ci sarà perché pensa che «il concetto di riscaldamento globale è stato creato dalla Cina e per la Cina, al fine di rendere non competitive le manifatture statunitensi» (tweet del 2012) e perché durante una visita in California nel settembre 2020, in risposta a un funzionario che parlava degli incendi e del cambiamento climatico, disse: «Inizierà a fare più fresco. Aspetta e vedrai».

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Attivisti climatici con i ritratti di Greta Thunberg e Donald Trump (Getty).

Pressante attività di lobbying e campagne di disinformazione

In verità non è che il suo predecessore Joe Biden abbia brillato sull’argomento. Molti faranno notare che nessun Paese ha mai prodotto tanto petrolio e gas come gli Stati Uniti ora, con il 20 per cento in più di licenze emesse durante l’amministrazione Biden rispetto al primo mandato di Trump. A Baku l’aria sarà pesante perché la quasi annuale riunione di una quindicina di giorni iniziata nel 1992 sembra avere ottenuto ben poco rispetto alle attese. La Cop29 arriva dopo il 2023 che è stato l’anno più caldo mai registrato e in coda al 2024 che segnerà sicuramente un nuovo record. È vero che 15 anni fa il mondo si avviava a 6° di riscaldamento globale al di sopra dei livelli pre-industriali e ora ci stiamo attestando intorno ai 3°, ma l’obiettivo di 1,5° richiederebbe di raggiungere zero emissioni nette nei prossimi due decenni. Troppo ambizioso per i signori dei combustibili fossili che hanno alzato il fronte con una pressante attività di lobbying e con una virale campagna di disinformazione.

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Macchine per le strade di Baku (Getty).

Il problema della finanza climatica, cioè la mancanza di denaro

Ma la questione centrale, a Baku, non è solo la parata di leader che si alternano al podio per declamare impegni solenni. Non è neppure solo il ritorno di Trump. Il problema più grande, quello che aleggia pesante nelle sale della conferenza e si insinua tra le delegazioni, è il denaro. Di finanza climatica si parla da decenni, ma troppo spesso senza uscire dai limiti della retorica. La Cop29 ha l’odore acre del petrolio e il suono delle monete che tintinnano in mani esitanti, mentre i fondi che dovevano arrivare ai Paesi in via di sviluppo restano promesse di carta.

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Foto di gruppo dei delegati alla pre-Cop29 (Getty).

Il ministro dell’ecologia azero faceva (fa?) affari col petrolio

I numeri parlano chiaro: la strada verso il contenimento del riscaldamento globale entro gli 1,5° gradi richiede investimenti massicci e immediati. Eppure gli impegni economici spesso svaniscono come fumo tra i corridoi delle conferenze. La presidenza della Cop29 affidata a Mukhtar Babayev, ministro dell’ecologia dell’Azerbaigian ed ex vicepresidente della compagnia petrolifera statale Socar, non aiuta a dissipare i dubbi. L’Azerbaigian è un Paese in cui l’economia, la politica e la vita stessa sono indissolubilmente legate al petrolio. Parlare di una transizione verde in un contesto del genere non è solo una sfida: è una provocazione. E la provocazione più grande è quella economica: chi finanzierà la transizione? Chi garantirà che gli sforzi non siano vani e che i Paesi più vulnerabili non vengano lasciati indietro? Chi dirà all’Azerbaigian che il suo attuale paradigma economico e sociale non dovrà esistere più?

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Il presidente della Cop29 e ministro dell’Ecologia azero Mukhtar Babayev (Getty).

Fondo verde per il clima lontano dall’essere operativo

Il Fondo verde per il clima, istituito per sostenere gli Stati in via di sviluppo, è lontano dall’essere pienamente operativo. Le promesse di contributi si sono spesso infrante contro l’inerzia politica e la mancanza di volontà concreta. L’Europa, spinta dai suoi interessi e dalle sue crisi, cerca di mantenere una posizione credibile, ma anche i suoi fondi sono limitati e soggetti a tensioni interne. L’Africa, l’Asia meridionale e le isole del Pacifico, già sotto la morsa delle calamità naturali, chiedono risposte concrete. Il clima di Baku, caldo e saturo di aspettative, è anche il termometro di una sfida globale: il denaro si muove, ma troppo spesso nella direzione sbagliata. La lobby dei combustibili fossili, forte di una presenza che permea sia i governi sia le economie, ha affinato le sue tecniche di influenza. Gli investimenti nelle energie rinnovabili avanzano, però non abbastanza rapidamente da colmare il divario.

La Cop29 e i piani a lungo termine sempre più vuoti

La scelta per la Cop29 è semplice: continuare con le promesse e i piani a lungo termine, che suonano sempre più vuoti, o affrontare la realtà con decisioni che risuonino oltre le sale della conferenza. I Paesi più ricchi saranno disposti a mettere finalmente sul tavolo le risorse necessarie per una transizione equa? O le discussioni si limiteranno ancora una volta a dichiarazioni di principio, mentre le temperature salgono e il tempo scorre? Servono soldi. Quelli veri, quelli necessari, quelli che fanno la differenza tra discorsi accorati e azioni reali. E se nessuno lo farà, l’unico vero vincitore sarà ancora una volta il silenzio assordante del denaro che resta immobile. E della temperatura che sale.

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Un Paese sempre più vecchio: la Legge 104 ormai è solo un cerotto

Prendersi cura dei propri famigliari non basta più. L’analisi dell’andamento dell’utilizzo dei permessi retribuiti previsti dalla legge 104 (che dovrebbe garantire  assistenza, integrazione sociale e diritti dei disabili e di coloro che devono occuparsi di loro) nel settore privato extra-agricolo dal 2005 al 2022 fatta da Maria De Paola e Luca Sommario dimostra come lo strumento non sia già ingrato di rispondere efficacemente. La quota di lavoratori che ne usufruiscono è cresciuta vertiginosamente, passando dallo 0,26% al 2,3%: una variazione che riflette l’aumento della popolazione anziana e la crescente necessità di assistenza.

Un bisogno crescente: il peso della cura sulle donne italiane

Non si tratta di crude cifre sulla carta ma di un segnale concreto che evidenzia un cambiamento nei bisogni sociali. Le persone che si prendono cura dei propri familiari con disabilità grave stanno diventando sempre più numerose e sono principalmente donne. Anche se formalmente la legge 104 è accessibile a tutti, nella realtà sono le donne a portare avanti la maggior parte del lavoro di cura, rappresentando un 60% dei beneficiari dei permessi, con una predominanza maggiore nelle regioni del Sud. In una società che ancora non ha realizzato un’effettiva parità di genere, il carico familiare della cura ricade su di loro in modo sproporzionato, alimentando un ciclo che aumenta la pressione sulle donne lavoratrici, riducendo per loro opportunità di carriera e aumentando il rischio di uscire dal mercato del lavoro.

L’evoluzione delle esigenze assistenziali – si legge nello studio dei due economisti pubblicato sull’ultimo numero della rivista dell’associazione Etica e Economia – è dettata non solo dall’invecchiamento ma anche da condizioni demografiche e sociali. Basti pensare che, secondo i dati Istat del 2021, quasi un terzo (28,4%) degli italiani sopra i 65 anni soffre di gravi limitazioni motorie, sensoriali o cognitive. Tale percentuale sale al 40% tra gli over 80, un dato che evidenzia quanto sia difficile per queste persone mantenere un’autonomia. Non si tratta più, quindi, solo di un sostegno per chi è affetto da disabilità congenite o di lungo corso ma di una risposta a una condizione cronica di fragilità che arriva spesso con l’età avanzata. E se pensiamo al progressivo allungamento della vita media si prevede che il fenomeno sarà in continuo aumento nei prossimi decenni.

È interessante osservare che la distribuzione territoriale dell’uso dei permessi 104 non riflette il tradizionale divario Nord-Sud in modo lineare. Alcune aree del Centro e del Nord, come le province di Perugia (dove l’incidenza dei permessi è al 4,44%) e Roma (3,73%), vedono una quota molto elevata di lavoratori che usufruiscono dei permessi, mentre altre aree, come Bolzano e Agrigento, si collocano al di sotto dell’1%. Questa variabilità territoriale riflette non solo differenze culturali, ma anche la diversa composizione del tessuto occupazionale e sociale. Nelle aree in cui è più alta la presenza di lavori stabili e a tempo pieno è più probabile che le persone abbiano la possibilità di prendere giorni di permesso senza subire gravi contraccolpi economici, mentre nelle aree con maggiore incidenza di lavoro informale, il quadro è più complicato.

La legge 104 alla prova dei tempi: un sistema in crisi

La legge 104, introdotta ormai oltre trent’anni fa, ha indubbiamente rappresentato un pilastro per il sostegno delle famiglie italiane che si trovano a gestire situazioni di disabilità. Tuttavia il contesto in cui venne pensata era molto diverso. La demografia, l’economia e le strutture familiari erano tutte profondamente diverse rispetto a oggi. Basti pensare che, all’epoca, il supporto famigliare era ancora spesso fornito da famiglie numerose in cui più membri contribuivano all’assistenza. Oggi, invece, sono sempre più comuni nuclei familiari ristretti o addirittura famiglie monocomponenti, spesso impossibilitate a contare su un aiuto esterno. La trasformazione sociale risulta evidente osservando l’aumento del numero di persone che ricorrono a servizi assistenziali, nonostante la difficoltà di accesso e i costi elevati.

Proprio qui sta il punto critico: la legge 104, che pur rimane uno strumento essenziale, non è più sufficiente. Il peso della cura grava interamente sui familiari che non dispongono di alternative valide o accessibili. Il problema non può essere risolto semplicemente incrementando il numero di permessi ma richiede una riforma strutturale che integri nuovi strumenti e servizi. In paesi come la Germania e la Svezia, ad esempio, sono stati introdotti programmi di supporto specifici per l’assistenza agli anziani, che prevedono agevolazioni fiscali, incentivi economici e una maggiore accessibilità ai servizi di assistenza domiciliare. Anche in Italia, secondo lo studio, bisognerebbe pensare a una combinazione di misure simili che possano alleggerire il carico sui familiari e offrire un sostegno reale alle persone non autosufficienti. Prima che il già fragile sistema del welfare collassi del tutto. 

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La graticola ungherese: Várhelyi, fedelissimo di Orbán, finisce nel limbo della Commissione Ue

C’è qualcosa di tremendamente ironico nel vedere Olivér Várhelyi, fedelissimo di Viktor Orbán, arrancare sui diritti delle donne per conquistare la poltrona di Commissario europeo. L’uomo che dovrebbe occuparsi della salute dei cittadini Ue si è presentato all’audizione del Parlamento europeo con un bigino di luoghi comuni che farebbe sorridere se non fosse drammaticamente serio: “Sono un alleato delle donne perché ho una moglie e tre figlie”, ha detto con la stessa convinzione di chi dice di non essere razzista perché ha un amico di colore.

Il Parlamento Ue alza il muro su Várhelyi

Ma il Parlamento europeo questa volta non ci sta. Per la prima volta in questa tornata di audizioni dei commissari designati, gli europarlamentari hanno alzato il cartellino giallo (tendente al rosso). Várhelyi è l’unico dei 16 commissari fin qui esaminati a non aver ottenuto il via libera immediato. Una bocciatura che sa di diffidenza politica ma anche di sostanza.

Il commissario ungherese, già responsabile dell’Allargamento nella Commissione von der Leyen, si è trovato sotto il fuoco incrociato di domande su diritti riproduttivi, vaccini e benessere animale. E le sue risposte hanno convinto solo l’estrema destra e i conservatori dell’Ecr, insufficienti per raggiungere quella maggioranza dei due terzi necessaria per l’approvazione.

“Le risposte date da Várhelyi non hanno soddisfatto le aspettative di Renew Europe”, hanno fatto sapere i liberali europei, mentre i Verdi, per bocca di Sara Matthieu, hanno espresso “profonda preoccupazione nel sentire un potenziale commissario alla salute dire che l’aborto non è una questione medica”. 

Il commissario designato ora ha 24 ore per rispondere a una nuova serie di domande scritte. Una specie di compito a casa che sa tanto di ultima chiamata. Gli eurodeputati vogliono sapere come intenda promuovere concretamente i diritti delle donne nel suo ruolo, quali passi farà per garantire l’accesso alla salute sessuale e riproduttiva, come affronterà l’esitazione vaccinale e la disinformazione – anche nel suo paese d’origine.

L’ombra lunga di Orbán

Non è solo questione di competenza tecnica. L’ombra di Viktor Orbán aleggia pesante su questa nomina. Várhelyi porta con sé il peso politico di rappresentare un governo che ha fatto della guerra ai diritti una bandiera ideologica. E non ha aiutato il suo curriculum da “bad boy” delle istituzioni europee: solo l’anno scorso aveva definito “idioti” gli europarlamentari, un’uscita per cui non si è ancora scusato spontaneamente.

La presidente von der Leyen, che pure si è spesa in un incontro dell’ultima ora con i capigruppo di Ppe, S&D e Renew, ora si trova di fronte a un dilemma: insistere su una nomina che rischia di trasformarsi in un boomerang politico o cercare un’alternativa meno divisiva C’è chi, come Renew Europe, aveva ventilato l’ipotesi di un ridimensionamento delle competenze di Várhelyi, privandolo dei dossier più sensibili come vaccini e diritti riproduttivi. Ma sarebbe come ammettere l’inadeguatezza del candidato mantenendolo comunque in sella.

Lunedì prossimo gli europarlamentari si riuniranno per valutare le risposte scritte del commissario designato. Se non dovessero raggiungere la maggioranza dei due terzi, la palla passerebbe alle commissioni al completo, dove basterebbe una maggioranza semplice. Ma sarebbe comunque una vittoria di Pirro, un commissario zoppo prima ancora di iniziare il suo mandato.

In questa vicenda c’è tutto il paradosso dell’Europa di oggi: un commissario espressione di un governo illiberale chiamato a gestire temi sensibili come la salute e i diritti, in un equilibrismo politico che rischia di trasformarsi in farsa. O forse è proprio questo il punto: mettere alla prova la capacità dell’Unione di difendere i suoi valori fondamentali, anche quando significa dire dei no scomodi. Várhelyi ha 24 ore per convincere gli scettici. Ma forse questa volta non basterà avere una moglie e tre figlie per dimostrare di essere dalla parte giusta della storia.

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Il fracasso delle parole

Lo spessore del governo Meloni sta nella solitudine pomposa con cui la nave Libra è arrivata ieri mattina in Albania. Lo stuolo di militari, i giornalisti, i costi e la burocrazia di una nave militare hanno scaricato sulla costa otto persone ridotte a scalpi (una peraltro già riportata in Italia) da dare in pasto agli istinti dei loro elettori.

Nei prossimi giorni i sette rimasti diventeranno pietre dello scandalo per armare l’attacco alla magistratura, ancora una volta. Saremo sommersi da una ridda di voci che ci dicono di giudici politicizzati, di attivismo politico delle toghe e la polvere sotterrerà ancora il punto principale: questo governo non sa governare stando dentro le leggi. Lo spessore del governo Meloni sta nell’autoritarismo usato per mancanza di autorevolezza contro un insegnante, Christian Raimo. La piccola vendetta di cortile si è trasformata in un caso politico – l’ennesimo – che certifica l’attitudine a comandare per manifesta incapacità di governare le idee degli altri.

Lo spessore del governo Meloni sta nel fracasso della retorica su Musk, su Trump, su Orbàn, mentre Nomisma certifica che tre famiglie su dieci hanno il reddito eroso dall’inflazione e non riescono a pagare più l’affitto, figuriamoci a sognare di poter avere una casa. Lo spessore del governo Meloni sta nel motto “prima gli italiani” che ora è spalmato in Albania, in Ungheria, a Kiev, a Washington, ovunque non debba fare i conti con i problemi degli italiani.

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La scelta di Vivian, figlia di Musk: addio al padre e alla Patria

Vivian Jenna Wilson, figlia transgender di Elon Musk, ha deciso di lasciare gli Stati Uniti. La scelta non è solo una questione personale, ma un atto emblematico che riflette la disillusione di chi vede il Paese scivolare verso un’era di regressione sociale. Dopo la vittoria di Donald Trump, il ritorno di un leader che incarna il populismo, il patriarcato e l’esclusione, la dichiarazione di Vivian su Threads — “Non vedo il mio futuro negli Stati Uniti” — suona come una condanna senza appello.

Vivian non è una figura qualsiasi: è la figlia dell’uomo che gioca a fare il Prometeo moderno con i razzi e le auto elettriche, ma che ha sostenuto pubblicamente un presidente che non solo mina i diritti civili, ma anche la sicurezza e la dignità delle persone transgender. La relazione tra padre e figlia è già stata un campo di battaglia: Vivian aveva già accusato Musk di essere un genitore freddo, facile all’ira e narcisista. Un uomo che, tra un tweet e l’altro, ha abbracciato un machismo tecnologico che non conosce empatia.

Non c’è solo l’ombra di Trump in questa fuga, ma quella di un intero sistema che permette ai potenti di giocare con le vite altrui. Musk, con la sua influenza e il suo endorsement, ha contribuito a legittimare un discorso tossico, ricalcando il copione dell’irresponsabilità mascherata da visione. Vivian, in fuga da una patria e da un padre, è il simbolo di una generazione che cerca altrove una promessa di dignità.

E mentre le torri d’avanguardia di Musk svettano nel cielo, al suolo rimane l’amaro: una libertà decantata solo per chi rientra nei suoi canoni.

 

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Bocciata la corsa al riarmo: il 55% degli italiani contrario all’aumento delle spese militari

La maggioranza degli italiani si oppone all’aumento delle spese militari e sostiene una tassa sugli extra-profitti delle aziende attive nel settore bellico. Lo rivela un sondaggio SWG per Greenpeace Italia, che conferma una tendenza già osservata nel gennaio 2023. Il 55% degli intervistati si dichiara contrario al piano del governo di incrementare il budget della Difesa fino al 2% del Pil entro il 2028, passando da 30 a circa 40 miliardi di euro. Solo il 23% approva questa proposta, mentre il 22% preferisce non esprimersi.

Spese militari, un budget miliardario che divide

Il sondaggio  arriva a pochi giorni dalla trasmissione al Parlamento di una manovra di bilancio che aumenta il budget della Difesa e dal lancio della nuova campagna “Ferma il riarmo!” promossa da Greenpeace Italia, Fondazione PerugiAssisi, Rete Pace e Disarmo e Sbilanciamoci. I risultati mettono in luce un sentimento diffuso di insoddisfazione: il 65% degli italiani è favorevole a una tassa sugli extra-profitti delle aziende che traggono vantaggio dai conflitti e dalle crisi geopolitiche. Questi profitti straordinari, alimentati dall’invasione russa dell’Ucraina e dalle tensioni in Medio Oriente, appaiono come un’ingiustizia per molti cittadini, soprattutto in un contesto di sacrifici economici.

“Le cittadine e i cittadini italiani vogliono meno spese militari e più investimenti per il benessere collettivo”, afferma Sofia Basso di Greenpeace Italia. La preoccupazione è che il perseguimento dell’obiettivo del 2% del Pil per la Difesa possa compromettere settori essenziali come la sanità e il welfare. Questo scenario evidenzia una spaccatura tra le priorità governative e le aspettative della popolazione.

Il dissenso verso l’aumento delle spese militari non è isolato. Il 52% degli italiani si oppone anche a un incremento della spesa militare europea, promossa dalla Commissione Ue e dal nuovo commissario alla Difesa. Questa posizione riflette un desiderio di bilanciare le risorse pubbliche a favore di investimenti che migliorino la qualità della vita, anziché alimentare la macchina bellica.

L’idea di tassare gli extra-profitti delle aziende belliche raccoglie un consenso particolarmente forte tra gli over 55 e i residenti nel Nord-Est, con il 76% dei 55-64enni a favore. Tale misura viene percepita come un atto di equità: un modo per restituire alla collettività una parte dei guadagni generati da un settore che prospera in periodi di instabilità. I profitti delle aziende belliche sono visti come un simbolo di disuguaglianza, di un sistema che premia chi alimenta le tensioni mentre le famiglie fanno i conti con l’aumento del costo della vita.

Appelli per un cambio di rotta: il peso delle scelte economiche

Greenpeace e le organizzazioni della campagna “Ferma il riarmo!” chiedono una riduzione delle spese militari per destinare più fondi a salute, istruzione e sostenibilità ambientale. “È tempo che il governo riconosca che la corsa al riarmo rischia di portare al collasso il nostro sistema sociale”, conclude Basso. Questo grido d’allarme si colloca in un contesto in cui la sicurezza nazionale deve bilanciarsi con le esigenze della società civile, che chiede servizi migliori e una maggiore protezione sociale.

Il risultato è lineare: gli italiani, spinti da una percezione di ingiustizia e dalla preoccupazione per il futuro, reclamano politiche che rispecchino i loro bisogni reali. Non si tratta solo di numeri e percentuali: è la storia di un popolo che, pur consapevole delle necessità di difesa, riconosce l’urgenza di un cambio di rotta. In questo contesto la proposta di tassare gli extra-profitti non è una provocazione ma un appello a una giustizia più alta, capace di sostenere le comunità e favorire un progresso condiviso. Una visione ben diversa da quella coltivata dal governo. 

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La Libra ormeggia in Albania: una nave per 8 migranti e per la propaganda

Al porto albanese di Shengjin questa mattina c’erano più giornalisti e fotografi che passeggeri. Dopo due giorni, la nave militare italiana Libra è arrivata in Albania intorno alle 8 del mattino. A bordo ci sono 6 persone provenienti dall’Egitto e due dal Bangladesh, magro bottino dell’operazione pubblicitaria che il governo offre ai suoi elettori.

La nave Libra e il simbolo di un’operazione controversa

Nell’ultima settimana, l’Italia ha registrato un totale di 850 sbarchi di migranti: 743 il 4 novembre e 107 il 5 novembre. Questi portano il totale degli arrivi via mare a novembre a 1.211 persone. Dall’inizio dell’anno fino al 5 novembre 2024, sono sbarcati complessivamente 56.624 migranti. Gli 8 a bordo della Libra sono quelli che hanno passato la procedura di pre-screening effettuata a bordo della stessa nave per verificare la sussistenza dei requisiti per essere collocati nei centri albanesi: essere uomini maggiorenni, ritenuti non vulnerabili e provenienti da paesi sicuri (secondo la normativa italiana).

Ora si ripete il film già visto tre settimane fa. I migranti sono passati dall’hotspot nei pressi del porto, dove saranno sottoposti ad alcune procedure di verifica e controllo sanitario, dopodiché verranno trasferiti al campo di Gjader. Qui il loro trattenimento e la loro probabile richiesta d’asilo dovranno essere convalidati dai giudici italiani ed è altamente probabile che la sezione immigrazione del tribunale di Roma possa smentire le intenzioni del governo, così com’è successo per i primi 12 migranti che, in attesa dell’accoglimento del loro ricorso, sono stati “parcheggiati” al Cara di Bari.

La missione del Tai e le reazioni internazionali

In Albania è arrivata la missione del Tavolo Asilo e Immigrazione (Tai), la principale rete della società civile impegnata nella promozione e difesa dei diritti delle persone migranti, realizzata in collaborazione con il Gruppo di Contatto Parlamentare sull’immigrazione per monitorare le procedure e le condizioni di accoglienza. Con loro ci sono i parlamentari Franco Mari, di Alleanza Verdi Sinistra, e Rachele Scarpa, del Pd, a cui si aggiungerà nei prossimi giorni Alfonso Colucci del Movimento 5 Stelle.

Nella nota il Tai afferma: “Nonostante i pronunciamenti di tribunali italiani e della Corte di Giustizia Europea, il governo continua a perseguire una propaganda anti-immigrati che sembra prevalere sugli interessi del Paese e sui diritti fondamentali delle persone. La decisione di mobilitare risorse significative per trasferire appena 8 migranti – egiziani e bengalesi – evidenzia l’assurdità di un’operazione sproporzionata rispetto ai suoi obiettivi. Dopo il rilascio dei 12 migranti trasferiti lo scorso ottobre, a seguito della mancata convalida dei decreti di trattenimento da parte del Tribunale di Roma, il governo ha intensificato lo scontro con la magistratura”.

Per il Tai “l’aver incluso Paesi come l’Egitto nella lista dei cosiddetti ‘Paesi sicuri’ non cambia il quadro: ogni giorno oppositori politici e attivisti per i diritti umani vengono arrestati o fatti sparire. Il caso Regeni, ancora irrisolto, è la prova più evidente che il governo egiziano non garantisce i diritti fondamentali”.

Il prevedibile nuovo scontro tra il governo Meloni e la magistratura ha ottenuto l’appoggio anche del presidente ungherese Viktor Orbàn che da Budapest, nella conferenza stampa finale della riunione dei leader d’Europa, ha detto che bisogna uscire dalla “trappola” costituita “dall’attivismo giurisdizionale”. “Gli elettori non possono accettarlo: eleggono i leader perché li servano. Se gli attivisti giudiziari li fermano, questo è contro la democrazia. È una questione di regolazione eccessiva”, ha detto Orbàn. Del resto, la sua allergia alle regole non è certo una sorpresa.

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L’effetto Trump rivitalizza Orbán: champagne a Budapest, preoccupazioni a Bruxelles

Viktor Orbán non ha mai nascosto la sua predilezione per Donald Trump. E questa settimana a Budapest, con il suono dei tappi di champagne che riecheggia nelle sale della politica europea, il primo ministro ungherese celebra la vittoria dell’ex presidente americano come un trionfo personale. Orbán, maestro di tempismo, aveva pianificato tutto. In un momento di disordine politico tra i tradizionali giganti dell’Ue come Francia e Germania, il premier ungherese si erge come la figura chiave di un blocco transatlantico che guarda con ammirazione all’America di Trump.

La scommessa su Trump e il nuovo asse sovranista

La scena è questa: 47 leader europei riuniti a Budapest per la Comunità Politica Europea, con Orbán al centro di un palcoscenico che sembra orchestrato per rafforzare la sua immagine di leader imprescindibile. Non è solo una questione di festeggiamenti; Orbán è pronto a sfruttare ogni occasione per consolidare la sua narrativa di “Rendere l’Europa di nuovo grande”, uno slogan che risuona come eco di quello trumpiano. E mentre l’Europa è costretta a confrontarsi con l’elezione di Trump e le sue implicazioni, Orbán si muove con l’agilità di un veterano del populismo.

Non è un mistero che l’elezione di Trump abbia scosso Bruxelles. I diplomatici europei sono già al lavoro, preoccupati per le minacce di nuove tariffe americane fino al 20% sulle importazioni. “La nostra reazione deve essere strategica”, ha dichiarato un diplomatico dell’UE a Politico, sottolineando l’importanza di un approccio ponderato che possa definire il tono delle relazioni future. Ma la sfida più grande è mantenere l’unità tra gli Stati membri, un obiettivo che rischia di sgretolarsi sotto il peso delle ambizioni individuali.

Nel frattempo, Giorgia Meloni osserva con attenzione. La premier italiana, accolta da Orbàn alla Puskas Arena con baciamo e foto di rito, è identificata come una figura capace di fungere da ponte tra le posizioni più rigide del blocco sovranista e le istituzioni europee, ancora fiduciose nella sua collaborazione. La sua alleanza ideologica con Trump e la vicinanza con figure come Elon Musk le conferiscono una posizione unica: abbastanza interna da dialogare con Ursula von der Leyen, ma sufficientemente allineata con le correnti più conservatrici per cavalcare l’onda populista. Orbán, però, ha ben altro in mente che un semplice brindisi.

Mentre Budapest è il centro delle celebrazioni, i segnali di allarme non mancano. Da una parte, la Commissione europea osserva preoccupata. Věra Jourová, vicepresidente uscente incaricata dei valori e della trasparenza, ha avvertito che i movimenti più conservatori vedranno rafforzata la loro influenza su temi come l’Ucraina, la migrazione e i diritti di genere. Il ritorno di Trump spiana la strada a una nuova era di tensioni, dove Orbán e i suoi alleati potrebbero spingere ulteriormente il dibattito verso una concezione di sovranità che minaccia l’equilibrio comunitario. Intanto il commissario ungherese designato Olivér Várhelyi che dovrebbe ottenere le deleghe per la Salute e il Benessere degli Animali è uno dei candidati più in bilico della nuova squadra di von der Leyen.

Orbán festeggia, tra brindisi e sondaggi in calo

Ma Orbán non è invulnerabile. Otto mesi dopo il lancio del partito Tisza, guidato dall’ex alleato e ora avversario Péter Magyar, i sondaggi indicano un sorpasso storico: il Tisza ha raggiunto il 46% delle intenzioni di voto, lasciando Fidesz al 39%. Non è un evento isolato; è il primo segnale in 18 anni di una possibile erosione del potere di Orbán.

Così la realtà domestica si intreccia con la dimensione internazionale. Mentre Orbán alza i calici, le sfide interne potrebbero minare la sua posizione proprio quando si sente più forte. E il gioco è tutto da scrivere: tra il rischio di nuove divisioni nell’UE e una crescente pressione sui leader europei per rafforzare la cooperazione difensiva e commerciale, il ritorno di Trump spinge ogni Paese a cercare una via di dialogo bilaterale con Washington. Come avverte Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga, questo potrebbe essere il preludio a una disintegrazione dell’unità europea.

Orbán brinda, l’Europa trattiene il fiato.

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Meloni e l’arte del gnegneismo

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni – probabilmente credendo di essere simpatica – in diretta radiofonica durante la trasmissione Un giorno da pecora di Rai Radio 1 ha inviato un messaggio in cui dice di stare male ma di essere costretta a lavorare perché non ha “particolari diritti sindacali”.

La battuta sarebbe già di cattivo gusto così. Meloni, a differenza dei 3 milioni di italiani, il 13% del totale, non ha il problema di tornare a casa povera anche dopo un’estenuante giornata di lavoro. Sono persone che hanno una retribuzione annuale uguale o inferiore ai 6.000 euro, a cui andrebbero aggiunti altri 3 milioni di lavoratori irregolari e in nero.

Meloni, pur lavorando, potrà fare visite e accertamenti medici, al contrario di circa 4,5 milioni di italiani che hanno rinunciato a visite o accertamenti medici nel 2023 per l’incremento delle liste d’attesa, difficoltà di accesso ai servizi sanitari e problemi economici.

Ma i “diritti sindacali” a cui fa riferimento la presidente del Consiglio sembrano essere una stilettata allo sciopero generale indetto da Cgil e Uil per il prossimo 29 novembre contro la legge di Bilancio del governo. Quando il segretario della Cgil Maurizio Landini ha detto che è «il momento di una vera rivolta sociale», Fratelli d’Italia l’ha avvisato di «stare molto attento», minacciando addirittura azioni legali.

La “febbre” di Meloni è stata la scusa per non incontrare i sindacati nei giorni scorsi. La sua battuta di ieri è stata l’infantile vendetta. Voleva essere simpatica, Meloni, e invece ha dimostrato per l’ennesima volta di essere maestra del gnegneismo, sconnessa dalla realtà e sana solo al cospetto di Orbàn impegnato nel baciamano.

Buon venerdì.

Nella foto: La presidente del Consiglio Giorgia Meloni con il primo ministro ungherese Orbàn al vertice europeo a Budapest, 7 novembre 2024

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Omicidio Vassallo, una storia tanto italiana

Ma chi se lo ricorda più Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica assassinato oltre quattordici anni fa Per mesi la sua morte ha occupato le pagine dei giornali sotto il marchio del “sindaco pescatore”, con quella tendenza a romanticizzare gli omicidi che piace tanto a certa stampa. Poi, il silenzio.

Ieri, su richiesta del pm di Salerno Marco Colamonici e del procuratore capo Giuseppe Borrelli, sono state emesse quattro ordinanze di arresto per l’omicidio del 5 settembre 2010. Tra gli arrestati ci sono il colonnello dei carabinieri Fabio Cagnazzo e l’imprenditore Giuseppe Cipriano, detto ‘Peppe Odeon’, proprietario di una sala cinematografica a Scafati.

Secondo la Procura, Vassallo fu ucciso perché voleva denunciare un traffico di droga intorno al porto di Acciaroli, organizzato dal clan camorrista Fucito con la complicità di carabinieri infedeli e imprenditori. Aveva fissato un appuntamento con un ufficiale della compagnia dei carabinieri di Agropoli per il 6 settembre 2010, un appuntamento a cui non è mai arrivato.

Il colonnello Cagnazzo, allora in servizio al nucleo investigativo di Castello di Cisterna, redasse un’informativa che dirottò le indagini su un sospetto brasiliano, Bruno Humberto Damiani, poi archiviato due volte: un depistaggio in piena regola. Cagnazzo si premurò anche di sequestrare i video di una telecamera di sorveglianza sul porto, senza autorizzazione del magistrato.

Tra gli arrestati ci sono anche il brigadiere Lazzaro Cioffi, già condannato a 15 anni per traffico di droga, e il collaboratore di giustizia Romolo Ridosso. Un bel quadretto di criminalità organizzata e istituzioni deviate. Una storia così tanto italiana.

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