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La favola del primato italiano: sul Pnrr i numeri raccontano altro

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ogni volta che ne ha l’occasione torna a sbandierare il presunto primato italiano nella realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). L’ultima volta è accaduto il 2 luglio, quando ha commentato sui social l’annuncio della Commissione Ue riguardo alla valutazione preliminare positiva per l’erogazione della quinta rata del Pnrr. “L’Italia è il primo Paese in tutta l’Unione per obiettivi raggiunti e avanzamento finanziario del Pnrr”, ha dichiarato la leader di Fratelli d’Italia.

“Siamo lo Stato membro che finora ha ricevuto l’importo maggiore”, ha aggiunto, sostenendo che l’Italia ha ottenuto 113,5 miliardi di euro, il 58,4% del totale del nostro Pnrr. Ma questa affermazione, come sottolineato da Pagella Politica, non rispecchia la realtà dei fatti. I numeri, infatti, raccontano un’altra storia. Il Pnrr italiano, nel piano originario approvato nel 2021 dal governo Draghi, contava su 191,5 miliardi di euro, cifra poi aumentata a 194,4 miliardi con l’aggiunta delle risorse del REPowerEU, un programma volto a finanziare progetti energetici per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili russi.

L’erogazione dei fondi del Pnrr italiano – così come di quelli degli altri Paesi – è legata a 617 traguardi e obiettivi da raggiungere in cambio di dieci rate di finanziamenti. Secondo i dati della Commissione, finora l’Italia ha raggiunto 178 dei 617 traguardi e obiettivi, pari al 29% del totale. Questa percentuale, però, non tiene conto dei 54 traguardi e obiettivi raggiunti con la quinta rata, la cui valutazione preliminare positiva è stata data il 2 luglio. Se assumiamo il raggiungimento di questi traguardi, la percentuale sale al 37%: 232 traguardi e obiettivi raggiunti sui 617 concordati. Ma come si posiziona l’Italia rispetto agli altri Paesi europei? È qui che il castello di carte delle dichiarazioni di Meloni crolla.

Pnrr, il confronto

La Francia ha raggiunto il 73% dei traguardi e obiettivi concordati, la Danimarca il 46%, il Lussemburgo il 43% e Malta il 39%. Quindi, ben quattro Paesi sono davanti all’Italia in termini percentuali di attuazione del Pnrr. Anche confrontando il numero di rate ricevute, l’Italia non può vantare un primato assoluto. Finora ha ricevuto quattro rate, a cui si aggiungerà presto la quinta, se tutto andrà come previsto. Questo significa che siamo al 50% del totale delle rate concordate. La Francia ha ricevuto tre rate su cinque, raggiungendo il 60%. Meloni ha affermato che l’Italia è il Paese che ha ricevuto l’importo maggiore del Pnrr.

Anche qui, i numeri raccontano una storia diversa. L’Italia ha ottenuto finora 102,5 miliardi di euro. Ai 113,5 miliardi dichiarati da Meloni si arriva considerando come già fatta l’erogazione degli 11 miliardi della quinta rata. Anche ammettendo questa somma, la percentuale di fondi ricevuti dall’Italia sul totale del Pnrr è del 58,4%. Ma la Francia ha ricevuto il 76,6% del suo piano, e la Danimarca il 59,3%, superando quindi l’Italia. Non è la prima volta che la presidente del Consiglio racconta questa favola, e non sarà l’ultima. Ogni volta che Meloni rivendica un primato inesistente, bisogna basarsi sui fatti e sui numeri. La realtà è che l’Italia non è prima in Ue per la realizzazione del Pnrr.

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Migranti, non solo dal mare: uccisi pure da milizie e governi nell’inferno terrestre verso l’Europa

Attraversano deserti e mari e a ogni passo sfidano la morte. Sono i migranti e i rifugiati che percorrono le rotte dall’Africa verso l’Europa, vittime di violenze inaudite e sfruttamento. In politica sono il piatto forte della propaganda dei sovranisti. In terra sono un girone dantesco che striscia ai bordi dell’Europa.

Migranti, le rotte della disperazione: dall’Africa all’Europa

L’ultimo rapporto dell’UNHCR, realizzato insieme all’OIM e al Mixed Migration Centre, getta luce su una realtà agghiacciante che si consuma quotidianamente lungo le rotte migratorie terrestri e marittime. Il titolo stesso è un pugno nello stomaco: “In questo viaggio, a nessuno importa se vivi o muori”.

I numeri parlano chiaro: le persone che attraversano il deserto del Sahara sono più di quelle che si imbarcano sul Mediterraneo. Le vittime si stima siano il doppio di quelle che si consumano in mare. Il rapporto, che copre un periodo di raccolta dati di tre anni, segnala un aumento del numero di persone che tentano queste pericolose traversate terrestri e dei rischi di protezione che corrono.

Chi sono? Guardando le prime 10 nazionalità di chi è arrivato in Italia via mare tra il 2018 e il 2022, emergono dati significativi. Siriani, maliani e sudanesi hanno altissime percentuali di riconoscimento dello status di rifugiato: rispettivamente il 95,23%, il 60,32% e l’83,25%. Persone che fuggono da situazioni drammatiche, con il diritto alla protezione internazionale. Eppure vengono trattati come criminali, respinti e abbandonati. 

L’inferno in terra: abusi e sfruttamento dei migranti

Il rapporto dell’UNHCR fotografa una situazione in peggioramento. Il deterioramento delle condizioni nei paesi di origine e in quelli di accoglienza spinge sempre più persone a intraprendere questi viaggi della disperazione. Nuovi conflitti divampano nel Sahel e in Sudan, l’impatto devastante dei cambiamenti climatici e delle catastrofi aggrava emergenze nuove e protratte nell’Est e nel Corno d’Africa. A tutto questo si aggiungono manifestazioni di razzismo e xenofobia che colpiscono rifugiati e migranti.

L’orrore più grande accade prima di rischiare nell’ultimo tratto, quello per mare. Il rapporto rileva che in alcune parti del continente, i rifugiati e i migranti attraversano sempre più spesso aree in cui operano gruppi di insorti, milizie e altri attori criminali. Qui sono diffusi il traffico di esseri umani, i rapimenti a scopo di riscatto, il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale. Alcune rotte di contrabbando si stanno spostando verso aree più remote per evitare zone di conflitto attivo o controlli alle frontiere, sottoponendo le persone in movimento a rischi ancora maggiori.

L’elenco degli abusi denunciati da rifugiati e migranti è agghiacciante: tortura, violenza fisica, detenzione arbitraria, morte, rapimento a scopo di riscatto, violenza sessuale e sfruttamento, riduzione in schiavitù, traffico di esseri umani, lavoro forzato, espianto di organi, rapina, espulsioni collettive e respingimenti. La Libia si conferma l’epicentro di questo inferno in terra, seguita dal deserto del Sahara, Mali, Niger e Sudan.

Complicità e inazione: i colpevoli oltre i criminali

I colpevoli? Il rapporto punta il dito non solo contro i criminali ma anche contro chi dovrebbe garantire sicurezza e protezione. Le bande criminali e i gruppi armati sono indicati come i principali responsabili di questi abusi, ma non mancano forze di sicurezza, polizia, militari, ufficiali dell’immigrazione e guardie di frontiera. Nella sezione orientale della rotta, i militari e la polizia sono stati percepiti come i principali responsabili delle violazioni dei diritti umani dal 48% degli intervistati, contro il 20% e il 21% riportati rispettivamente nelle sezioni settentrionale e occidentale.

Nonostante gli impegni assunti dalla comunità internazionale per salvare vite umane e affrontare le vulnerabilità, in conformità con il diritto internazionale, le tre organizzazioni avvertono che l’attuale azione internazionale è inadeguata. Lungo la rotta del Mediterraneo centrale si registrano enormi lacune in termini di protezione e assistenza, che spingono rifugiati e migranti a proseguire in viaggi pericolosi.

Il sostegno specifico e l’accesso alla giustizia per i sopravvissuti a varie forme di abuso sono raramente disponibili lungo le rotte. Il sostegno è ostacolato anche da finanziamenti inadeguati e restrizioni all’accesso umanitario, anche in luoghi chiave come i centri di detenzione informale e le strutture di accoglienza.

UNHCR, OIM e partner umanitari fanno il possibile per colmare le lacune, potenziando i servizi di protezione e assistenza salvavita, i meccanismi di identificazione e di indirizzo lungo le rotte. Ma è come svuotare il mare con un secchiello, spiegano. La prossime Ue guidata ancora da von der Leyen non lascia presagire nulla di buono. Servono risposte concrete, immediate, su larga scala. Sempre le stesse: corridoi umanitari, vie legali e sicure per chiedere asilo. Perché come recita il titolo del rapporto, in questo viaggio a qualcuno deve importare se vivi o muori. A noi.

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Il Regno Unito volta pagina. Vittoria per i Laburisti. Starmer sarà il nuovo premier

l Regno Unito volta pagina dopo 14 anni di governo conservatore. Le elezioni generali tenutesi ieri hanno segnato una netta vittoria del Partito Laburista guidato da Keir Starmer, che si appresta a diventare il nuovo Primo Ministro. Secondo i primi exit pool, i laburisti hanno conquistato 410 seggi alla Camera dei Comuni, ben oltre la soglia della maggioranza assoluta fissata a 326. Un trionfo che segna la fine dell’era Tory iniziata nel 2010 e proseguita attraverso tre diverse elezioni. Per i conservatori si profila invece una disfatta storica, con appena 131 seggi ottenuti, il peggior risultato della storia. Terza forza tornano a essere i Lib-dem con 51 seggi, seguiti dalla destra di Reform Uk (13) e dallo Scottish National Party (10).

Il Partito laborista ha vinto le elezioni in Regno Unito

La giornata elettorale si è svolta in un clima di grande attesa, con i seggi aperti dalle 7 alle 22 nelle quattro nazioni del Regno Unito. Ne viene fuori la volontà di cambiamento degli elettori britannici dopo anni difficili segnati dalla Brexit, dalla pandemia e dalla crisi economica.

Keir Starmer, 61enne ex procuratore della Corona, ha incentrato la sua campagna elettorale sulla parola d’ordine del “cambiamento”, promettendo di voltare pagina rispetto all’era conservatrice. Pur ribadendo che non rimetterà in discussione la Brexit, Starmer ha puntato su temi come il rilancio del servizio sanitario nazionale, la lotta al caro vita e nuovi investimenti nei servizi pubblici.

Sunak ha pagato lo scotto di anni turbolenti per i Tories

Dal canto suo, il premier uscente Rishi Sunak ha pagato lo scotto di anni turbolenti per i Tories, segnati da scandali e una girandola di leader. Il suo tentativo di giocare d’anticipo convocando le elezioni a luglio, nella speranza di capitalizzare qualche timido segnale positivo sull’economia, si è rivelato un azzardo fallimentare. A penalizzare ulteriormente i conservatori è stata anche la concorrenza a destra del nuovo partito Reform UK guidato da Nigel Farage, che ha eroso voti preziosi in numerosi collegi. Il sistema elettorale maggioritario britannico ha così amplificato la sconfitta Tory, premiando invece la rimonta laburista. “Basta con il caos di 14 anni di governo tory, è ora di voltare pagina e cambiare il Paese”, è stato il mantra di Starmer durante la campagna elettorale e anche nel suo ultimo appello prima del voto. Nel quale ha chiesto ai britannici un sostegno proprio per un vero cambiamento: “Il cambiamento può avvenire solo se lo votate”. “Saremo un governo per tutti i britannici, non solo per pochi. Ricostruiremo i servizi pubblici, rilanceremo l’economia e restituiremo fiducia nelle istituzioni”, è il suo messaggio degli ultimi giorni.

Per il Regno Unito si apre un nuovo capitolo anche sul fronte internazionale, a partire dai rapporti con la presidente della Commissione Ue – che va verso una conferma alla guida dell’esecutivo comunitario proprio nei prossimi giorni con il voto dell’Europarlamento – Ursula von der Leyen. Pur ribadendo che il Regno Unito non rientrerà nell’Unione, Starmer ha promesso di lavorare per relazioni più strette con Bruxelles, in particolare sul piano commerciale. La sconfitta conservatrice apre ora scenari inediti per il partito che ha governato il Paese negli ultimi 14 anni. Rishi Sunak è già pronto alle sue dimissioni da leader, aprendo la strada a una nuova corsa per la leadership Tory. Tra i nomi che circolano per la successione ci sono quelli di Penny Mordaunt e Kemi Badenoch.Per i laburisti si tratta invece di un ritorno al governo dopo quasi 15 anni. L’ultima volta che il partito guidò il Paese fu con Gordon Brown, successore di Tony Blair, sconfitto nel 2010 da David Cameron. Ora Starmer avrà il compito di traghettare il Regno Unito fuori da anni difficili, tra le conseguenze della Brexit e le sfide economiche.

Tra le prime sfide che attendono il nuovo premier c’è sicuramente il rilancio del servizio sanitario nazionale, messo a dura prova dalla pandemia, e nuove misure per contrastare l’aumento del costo della vita che ha colpito duramente molte famiglie britanniche. Sul fronte internazionale, Starmer dovrà ridefinire le relazioni con l’Unione Europea nel quadro post-Brexit e rilanciare il ruolo globale del Regno Unito.

Keir Starmer esulta: “Il mandato comporta grandi responsabilità”

“Ce l’abbiamo fatta! Il cambiamento inizia ora. Il partito laburista è cambiato, è pronto a servire il nostro paese, pronto a riportare la Gran Bretagna al servizio dei lavoratori. Il mandato comporta grandi responsabilità. Dobbiamo riportare la politica al servizio del pubblico. Questa è la grande prova della politica in quest’epoca: la lotta per la fiducia è la battaglia che definisce la nostra epoca. Prima il Paese, poi il partito è un principio guida” ha detto il leader laburista Keir Starmer nel discorso per commentare l’esito del voto in Gran Bretagna.

“Il nostro compito non è altro che rinnovare le idee che tengono insieme il nostro Paese, un rinnovamento nazionale”, ha detto in un discorso pronunciato mentre il suo partito si assicurava la maggioranza assoluta nel nuovo Parlamento. “Non posso promettervi che sarà facile”, ha aggiunto Starmer.

In Parlamento irrompe anche Nigel Farage

In Parlamento irrompe anche Nigel Farage, presidente onorario della formazione populista Reform U, eletto per la prima volta come parlamentare nel Regno Unito.

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Se i diritti sono per censo diventano privilegi

Lunedì la figlia del presidente del Camerun, Brenda Biya, ha pubblicato una foto sul suo profilo Instagram in cui bacia la modella brasiliana Layyons Valença, con la didascalia: “PS: sono pazza di te e voglio che il mondo lo sappia”. Il post non esplicita il suo orientamento sessuale ma Biya ha poi ripubblicato nelle sue storie di Instagram diversi articoli che descrivono la foto come un coming out. C’è un piccolo particolare: in Camerun l’omosessualità è illegale dal 1972 e dal 2016 una legge prevede fino a 5 anni di carcere.

La figlia del presidente del Camerun, Brenda Biya, ha pubblicato una foto in cui bacia la modella brasiliana Layyons Valença

Il padre di Biya, Paul, è presidente del Camerun dal 1982. Il gesto di Brenda Biya è stato ovviamente accolto come un segnale incoraggiante dalla comunità Lgbtq camerunense. “Sta diventando una voce per il cambiamento sociale in un paese dove i tabù sono profondamente radicati”, ha detto alla stampa l’attivista transgender camerunese Shakiro che è stato condannato sulla base della legge del 2016: nel 2021 fu condannata a cinque anni di carcere per “tentata omosessualità” e dal 2023 vive in Belgio, dove ha chiesto asilo.

Il gesto di Brenda, però, ha sollevato anche alcune riflessioni sulle sproporzionate possibilità di ricchi e poveri: per alcuni è evidente che la ragazza abbia potuto fare coming out sui social perché vive in Svizzera e ha maggiori opportunità di difendersi contro la legge anti-Lgbt nel caso in cui venisse perseguita, grazie alla sua alta posizione nella classe sociale e alla sua maggiore istruzione. È esattamente così. I diritti non sono un simbolo da sventolare. Sono diritti solo se accessibili a tutti. Altrimenti si chiamano privilegi, anche se profumano di quel progressismo che funziona sui social.

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La sfida per il lavoro e l’unità

Nonostante il pessimismo e la distrazione l’Italia sta vivendo un momento di straordinaria mobilitazione popolare. Al centro ci sono quattro quesiti referendari che mirano a ridisegnare il panorama dei diritti del lavoro nel nostro Paese. La Cgil, promotrice dell’iniziativa, ha lanciato una sfida ambiziosa: raccogliere le firme necessarie per indire un referendum che cancelli gli attacchi ai diritti dei lavoratori degli ultimi anni, dal Jobs Act di Renzi in poi. E la risposta dei cittadini è stata travolgente.

Nonostante il pessimismo e la distrazione l’Italia sta vivendo un momento di straordinaria mobilitazione popolare

“Abbiamo già superato ampiamente le 850mila firme per ognuno dei quattro quesiti, quindi stiamo parlando di milioni di firme”, annuncia con orgoglio il segretario della Cgil, Maurizio Landini. Un risultato che va ben oltre le aspettative e che dimostra quanto il tema del lavoro sia sentito dagli italiani. Il primo quesito mira a ripristinare la tutela del reintegro per i licenziamenti illegittimi, di fatto abrogando le norme del Jobs Act che hanno reso più facile licenziare. Il secondo punta a garantire un lavoro dignitoso, intervenendo sulla disciplina dei contratti a termine. Il terzo si concentra sulla stabilità del lavoro, cercando di limitare e mettere un freno al dilagare del precariato.Infine, il quarto quesito affronta il tema cruciale della sicurezza sul lavoro, estendendo la responsabilità delle imprese appaltatrici in caso di infortuni.

Sono temi che toccano da vicino la vita di milioni di italiani. Lo sa bene Alessandro Barbero, storico e scrittore, che ha deciso di sostenere apertamente l’iniziativa: “Firmo per tutte le persone che non hanno potuto lottare, che hanno avuto indennizzi da fame e a cui continuano a proporre contratti a tempo determinato invece di un’assunzione stabile”. Parole che risuonano nel cuore di chi vive sulla propria pelle la precarietà e l’insicurezza del lavoro contemporaneo. La mobilitazione non si ferma ai confini nazionali. La Cgil ha organizzato una raccolta firme straordinaria che coinvolge diverse città europee, da Bruxelles a Barcellona, da Francoforte a Basilea. Un’iniziativa che dimostra come il tema del lavoro sia centrale non solo per l’Italia, ma per l’intera Europa.

“Non ci siamo dimenticati dei 6 milioni di connazionali nel mondo, come spesso accade”, sottolinea Filippo Ciavaglia dell’area Internazionale della Cgil. Il successo della raccolta firme è ancora più significativo se si considera il contesto in cui avviene. In un’epoca di disaffezione verso la politica e di scarsa partecipazione, vedere centinaia di migliaia di cittadini mobilitarsi per una causa comune è un segnale forte. È la dimostrazione che la società civile non ha abdicato al suo ruolo politico, anzi lo sta rivendicando con forza. “Credo che sia un risultato molto importante, che indica la volontà dei cittadini e dei lavoratori di cancellare delle norme che hanno precarizzato il lavoro, lo hanno reso meno sicuro, hanno indebolito la vita delle persone, hanno abbassato i salari”, commenta Landini. “E credo che sia una domanda di libertà nel lavoro”.

La libertà nel lavoro, appunto. Un concetto che può sembrare paradossale, ma che in realtà è al cuore della questione. Perché, come sottolinea il leader dell Cgil, “una persona per essere libera non dev’essere precaria, deve avere uno stipendio dignitoso e non deve morire sul lavoro che fa, deve poter usare la propria intelligenza e potersi realizzare nel lavoro che fa”. Il referendum si configura così non solo come uno strumento di opposizione a determinate politiche ma come un’affermazione positiva di diritti.

È un modo per dire che un altro mondo del lavoro è possibile, un mondo in cui la dignità e la sicurezza dei lavoratori non sono optional, ma presupposti irrinunciabili. Indipendentemente dall’esito finale, questa mobilitazione ha segnato un punto di svolta. Ha dimostrato che i temi del lavoro sono ancora centrali nell’agenda del Paese, riportando l’economia reale come priorità. Al di là della propaganda il Paese è sfiancato da lavori precari e salari da fame. E non è finita qui. Perché mentre la macchina referendaria sul lavoro è in pieno movimento, all’orizzonte si profila già una nuova sfida.

Cgil e Uil hanno infatti annunciato l’intenzione di promuovere un referendum contro la legge sull’Autonomia differenziata. “Perché quella legge aumenta i divari e le diseguaglianze, non solo a danno del Mezzogiorno ma negando la crescita dell’intero Paese”, spiega Landini. È un’ulteriore conferma di come la società civile stia assumendo un ruolo sempre più attivo e propositivo nel panorama politico italiano. I referendum tornano a essere un simbolo di partecipazione democratica, un modo per riaffermare il primato della volontà popolare su temi cruciali per il futuro del Paese. È una lezione di democrazia che non può essere ignorata dai partiti. Mentre si ingrossano le file degli astenuti le iniziative politiche dal basso sono in ottima salute. A questo punto la domanda è lecita: non sarà che la crisi sia dei partiti e non della politica Solo che per rispondere i leader dovrebbero avere coraggio, tanto coraggio.

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Un altro, un’altra ammazzata

A Roma in via degli Orseolo al numero civico 36 c’è un nugolo di palazzi bassi color mattone e alcuni che tendono al rosa. Poi c’è un’area recintata vuota, inaspettata nel caos della capitale. Infine c’è Villa Sandra. Ci si entra da via Portuense ma chi ci lavora esce da dietro. Ieri, non erano ancora le due del pomeriggio, in via degli Orseolo al numero 36 c’era anche il corpo di Manuela Pietrangeli, 50 anni festeggiati con un contratto di lavoro che prometteva serenità in mezzo alla tempesta. Pietrangeli aveva un buco in mezzo al petto, come iniziano certi romanzi e certe serie a puntate. 

A sparare è stato Gianluca Molinaro che da tre anni era separato dalla donna. Avevano anche un figlio, ha nove anni. Molinaro era a bordo della sua auto, ha abbassato il finestrino. Uno sparo l’ha colpita al braccio, lei era con una collega, provando a scappare ha chiesto aiuto. Un fucile a canne mozze è l’arma del delitto. Un fucile a canne mozze che la colpisce al petto uscendo dal finestrino di un’auto. 

Sembra una scena di mafia scritta da Sciascia e invece è un altro femminicidio. I giornali scrivono che lei era buona. La notizia che lei è morta, uccisa da un uomo che aveva lasciato. È una notizia anche che l’assassino abbia delle denunce che del femminicidio sono veri e propri reati spia. Due mesi di carcere per violenze contro la sua ex compagna, denunce per atti persecutori. È la sua ex compagna (con cui ha un’altra figlia) che l’ha convinto a costituirsi. Racconta che quando lui l’ha chiamata confessando il femminicidio era ubriaco e voleva uccidersi. Non si è ucciso, no, e ha chiamato un’altra sua vittima – per fortuna viva – per mondarsi. Ora è in arresto. Un altro, un’altra ammazzata. 

Buon venerdì. 

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Ha detto tutto lui

«Non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di diritti “in nome del dovere di governare”. Una democrazia “della maggioranza” sarebbe una insanabile contraddizione». Non ci gira tropo intorno il presidente della Repubblica parlando a Trieste e puntualizzando cosa sia la democrazia (parlamentare) e la Costituzione. 

«La democrazia come forma di governo – ha detto Mattarella – non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce». Per questo il capo dello Stato invita a non confondere la «volontà generale» con quella di una maggioranza che si considera «come rappresentativa della volontà di tutto il popolo».

Mattarella pronuncia «un fermo no all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice». «La coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile di leale e irrinunziabile vitalità democratica». Per questo sono necessari «limiti alle decisioni della maggioranza che non possano violare i diritti delle minoranze».

Le parole che arrivano dal Quirinale si sovrappongono alle critiche verso la riforma del premierato fortemente voluta da Giorgia Meloni e dalla sua maggioranza. Mattarella parla anche della necessità di evitare che il «principio “un uomo-un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori». Queste invece sono all’indirizzo della ministra per le riforme Casellati che negli ultimi giorni spinge per una legge elettorale ancora più maggioritaria. 

Mi pare che ci sia tutto. Buon giovedì. 

Nella foto: il presidente Mattarella a Trieste, frame video, 3 luglio 2024

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Non sarà un tappo di plastica a far morire i leghisti di sete

Da ieri i tappi di plastica non rimovibili delle bottiglie, protagonisti della catastrofica campagna elettorale per le europee di Matteo Salvini, sono diventati obbligatori per legge. Il leader della Lega e i suoi compagni di partito hanno usato il tappo che rimane attaccato alla bottiglia come simbolo delle “leggi senza senso” dell’Unione europea.

Da ieri i tappi di plastica non rimovibili, protagonisti della catastrofica campagna elettorale di Salvini, sono diventati obbligatori per legge

Erano evidentemente convinti che una gran parte degli elettori fosse drammaticamente angustiata dalla fatica cerebrale di trovare la collocazione esatta per poter bere senza comprimersi le narici. Ogni partito politico del resto ha legittimamente la sua agenda di priorità. Funziona così. Per Salvini e la sua compagnia politica quel tappo di plastica dovrebbe essere la metafora della burocrazia dell’Unione europea che rende difficile la vita ai cittadini.

“Più Italia, meno Europa!”, urlavano i manifesti elettorali leghisti, dove il “più Italia” era rappresentato da un tappo staccabile. Nella sua ultima indagine Legambiente ha censito 705 rifiuti ogni 100 metri sulle spiagge italiane. I rifiuti dispersi in mare o lungo le coste, restano una delle grandi minacce ambientali da affrontare a livello globale. Quei rifiuti sono causa di inquinamento che arreca gravi danni agli ecosistemi oceanici, impattando sia sulla fauna selvatica che sugli esseri umani. Il 40,2% di questi è rappresentato da 5 tipologie di oggetti tra cui – indovina un po’? – proprio i tappi di plastica. Secondo il report “Plastic & Climate” la produzione, l’incenerimento e lo smaltimento della plastica aggiungono all’atmosfera più di 850 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Non saranno i tappi a fare morire i leghisti di sete.

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Regno Unito verso la svolta: il tramonto dei conservatori

Manca solo un giorno al voto che potrebbe segnare la fine di un’era per il Regno Unito. Domani 4 luglio gli elettori britannici si recheranno alle urne per eleggere i 650 membri della Camera dei Comuni, in quello che si preannuncia come un terremoto politico destinato a riscrivere gli equilibri di potere oltremanica.

Dopo 14 anni di dominio incontrastato, il Partito Conservatore rischia una disfatta di proporzioni storiche. I sondaggi sono impietosi: danno i Tories in svantaggio di oltre 20 punti percentuali rispetto ai Laburisti. Un divario abissale che potrebbe tradursi in una débâcle senza precedenti per i conservatori, con la prospettiva concreta di essere ridotti a un manipolo di 80-90 deputati. Uno scenario da incubo per il giovane premier Rishi Sunak, che si è ritrovato a dover gestire una campagna elettorale in salita fin dall’inizio.

La caduta dei conservatori: un decennio di turbolenze

Dal canto suo, il leader laburista Keir Starmer assapora già il gusto dolce della vittoria. Con la cautela di chi sa che in politica nulla è scontato fino all’ultimo, il 62enne ex procuratore della corona sta già lavorando alla formazione della sua squadra di governo. I bookmaker lo danno per favorito assoluto: il Labour potrebbe conquistare una maggioranza schiacciante di 440-450 seggi, un risultato che supererebbe persino il trionfo di Tony Blair nel 1997.

Nell’ultimo giorno di campagna, Sunak tenta disperatamente di esorcizzare la sconfitta. “Intendo impegnarmi fino all’ultimo momento”, ripete come un mantra il premier uscente, lanciando appelli agli indecisi a “non consegnarsi” ai laburisti. Ma il suo sembra ormai un canto del cigno, la resistenza estrema di chi sa di essere con le spalle al muro. Il sistema elettorale maggioritario britannico rischia di amplificare ulteriormente la portata del tracollo conservatore.

Starmer, dal canto suo, si limita a evitare passi falsi dell’ultimo minuto. La sua strategia è quella della cautela e della rassicurazione. Punta tutto sulla sua immagine di “uomo normale”, lontano dagli eccessi ideologici del suo predecessore Jeremy Corbyn. Un profilo moderato e centrista che sembra aver fatto breccia nell’elettorato, stanco di anni di instabilità e caos politico.

Il Labour si prepara a raccogliere i frutti di una campagna incentrata sui temi sociali ed economici: più fondi per la sanità e l’istruzione pubblica, misure per il costo della vita, spinta sulle energie rinnovabili. Temi che hanno fatto presa su un elettorato provato da anni di austerity e dalle conseguenze della Brexit.

Il ritorno dei laburisti: una nuova era per il Regno Unito

I conservatori pagano lo scotto di un decennio turbolento, segnato dalle lacerazioni sulla Brexit e da una successione vertiginosa di premier: da David Cameron a Theresa May, passando per il controverso Boris Johnson fino all’effimera parentesi di Liz Truss. Sunak, arrivato a Downing Street nell’ottobre 2022, non è riuscito a invertire la rotta del declino Tory.

L’incognita di queste elezioni è rappresentata da Reform UK, il partito populista guidato dall’eterno Nigel Farage. I sondaggi gli attribuiscono un potenziale 10% dei consensi, che potrebbe erodere voti preziosi ai conservatori nei collegi in bilico. Un’ulteriore spina nel fianco per Sunak.

Tutto lascia presagire che domani sera il Regno Unito si sveglierà con un nuovo inquilino a Downing Street. Keir Starmer si prepara a varcare la soglia della residenza del premier, ponendo fine a 14 anni di egemonia conservatrice. Un passaggio di consegne che potrebbe avvenire già venerdì, una volta certificato l’esito del voto.

Il nuovo governo laburista promette di imprimere una svolta nella politica britannica. Starmer punta a ricucire i rapporti con l’Unione Europea, pur senza rimettere in discussione la Brexit. Sul fronte interno, la priorità sarà il rilancio del servizio sanitario nazionale, fiore all’occhiello del welfare britannico messo a dura prova da anni di tagli.

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Ghetti abusivi di braccianti, la morte di Satnam Singh smuove il governo

Il datore di lavoro di Satnam Singh, il bracciante indiano ferito da un macchinario e scaricato in mezzo a una strada, è stato arrestato. è indagato per omicidio con dolo eventuale, la consulenza medico-legale ha accertato che il bracciante avrebbe potuto essere salvato. Il padre dell’indagato era a sua volta sotto inchiesta dal 2019 per reati di caporalato e sfruttamento della manodopera. I ghetti dell’Agro Pontino, di Rosarno, di Borgo Mezzanone continuano indisturbati a macinare schiavi a disposizione dei caporali. Da quelle parti morti come quella di Satnam sono inevitabili rischi del mestiere sommerso.

La missione 5 del Pnrr: promesse di inclusione e coesione

La Missione 5 del Pnrr, quella che prevede gli interventi di inclusione e coesione, stanziò 200 milioni di euro per il superamento degli insediamenti abusivi dei braccianti agricoli. Il 29 marzo del 2022 l’allora ministro del Lavoro Andrea Orlando firmò il decreto 55 che distribuiva quei soldi alle amministrazioni locali per superare i ghetti.

Come ricorda il periodico della Cgil, Collettiva, a quel decreto si arrivò dopo una serie di incontri tra l’Anci, l’Associazione dei comuni italiani e il ministero del Lavoro ai tavoli per la lotta la caporalato. Vennero censiti 150 ghetti con almeno 10mila persone.

Il decreto 55 del 29 marzo 2022 assegnava le risorse ai 37 comuni in 11 Regioni destinatari della misura, che aveva come obiettivo proprio il contrasto al caporalato attraverso la realizzazione di condizioni abitativi dignitose. Tra quei comuni c’era anche Latina, lì dove Satnam Singh è morto dissanguato. Solo che quei soldi non sono mai arrivati nonostante il comune abbia approvato ormai da un anno e mezzo il Piano di azione locale, passaggio necessario per passare all’incasso.

Entro giugno dell’anno scorso avrebbero dovuto essere distribuite le risorse ma non si è visto un centesimo. I sindaci in ben due occasioni hanno manifestato la loro delusione durante gli incontri del’Anci senza ottenere nessuna risposta dal governo. A marzo scorso con il decreto Pnrr quater il governo Meloni ha commissariato una serie di interventi tra cui il superamento dei ghetti.

Come al solito è stato nominato un commissario, perché l’autonomia è differenziata ma l’accentramento è un vizio antico. Siamo al 4 giugno. Passa un mese e non se ne sa nulla finché ieri è trapelata la notizia che oggi è stata convocata una cabina di regia negli uffici del ministro Raffaele Fitto con la ministra del Lavoro Maria Elvira Calderone e quello dell’Interno Matteo Piantedosi, insieme al commissario straordinario Maurizio Falco.

Fondi Pnrr: promesse mancate e inazione governativa

Le opere a cui sono destinate quei 200 milioni devono essere completate entro il 2025. Mancano pochi mesi. Per la segretaria confederale della Cgil, Maria Grazia Gabrielli “La Cgil e la Flai da quando il Pnrr ha previsto queste risorse per superare baraccopoli e insediamenti abusivi, hanno posto attenzione e hanno lanciato l’allarme sul loro effettivo utilizzo, per evitare che quelle risorse vengano utilizzate per altro come spesso accade”. “Gli interventi previsti dalla Missione 5 – spiega la dirigente sindacale – vanno semmai ampliati, certo non svuotati di efficacia. Il superamento di questi veri e propri ghetti è un elemento concreto, adesso va posta la massima attenzione perché queste risorse siano destinate e spese entro i tempi stabiliti e vincolanti”.

Oggi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni esulta per l’attuazione del Pnrr e annuncia la cabina di regia per “gli insediamenti abusivi in agricoltura”. Intanto Singh è morto. 

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