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Quindi ora si dimette La Russa

«Non c’è spazio, in Fratelli d’Italia, per posizioni razziste o antisemite, come non c’è spazio per i nostalgici dei totalitarismi del ‘900, o per qualsiasi manifestazione di stupido folklore». Scrive così Giorgia Meloni in una lettera ai dirigenti del suo partito, Fratelli d’Italia, in merito all’inchiesta di Fanpage da cui è emersa la fascisteria come brand all’interno di Gioventù nazionale, la formazione giovanile che amata parte ha avuto nell’ascesa della presidente del Consiglio. 

È l’ennesimo cambio di strategia di fronte a un imbarazzo evidente, malvestito, malcelato, simulato. Proprio Meloni aveva gridato al «pericolo democratico» invocando l’intervento del Presidente della Repubblica. Qualcuno le ha fatto notare l’enormità e l’inutilità di quella prima reazione.

A nulla sono serviti i legulei sguinzagliati dalla stampa amica per dimostrarci che il giornalismo sotto copertura sarebbe illegale. «Non c’è alcuno spazio tra le nostre fila per chi recita un copione macchiettistico utile solo al racconto che i nostri avversari vogliono fare di noi», scrive Meloni, rivendicando di avere fatto «i conti con il ventennio». 

Sforzandosi di prendere per autentiche le parole della premier ci si potrebbe immaginare quindi che da questa mattina vengano espulsi da Fratelli d’Italia tutti coloro che utilizzano o hanno utilizzato l’ombra di Mussolini per piacere agli elettori. «Non siamo un partito che guarda al passato», scrive Meloni e quindi ci si aspetta che scompaia la fiamma all’interno del simbolo elettorale. Ci sarebbe da espellere la neo eurodeputata Elena Donazzan che ha cantato in radio Faccetta nera. Ah, ci sarebbe da fare dimettere anche il presidente del Senato, volendo. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: Giorgia Meloni, frame da un video di fanpage

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Autonomia, prima lite a destra: altolà di Musumeci a Zaia

Probabilmente hanno fatto la legge sull’Autonomia differenziata sperando rimanesse uno slogan. Si potrebbe spiegare così la piccata reazione del ministro della Protezione civile Nello Musumeci alla lettera vergata lunedì dal presidente della Regione Veneto Luca Zaia. Nella sua missiva indirizzata alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni il governatore leghista chiede la riapertura del tavolo di confronto per l’attuazione dell’autonomia differenziata, secondo quanto previsto dalla Costituzione, per trattare su nove materie in cui non è prevista la definizione dei Lep. “Premetto che da siciliano sono autonomista fino al midollo – ha risposto a stretto giro il ministro Musumeci su SkyTg24 – anche se in Sicilia l’autonomia non l’abbiamo usata come opportunità ma soltanto come un privilegio”. Ma riguardo alla richiesta di Zaia, Musumeci parla di “un problema di opportunità e la politica deve obbedire anche alla regola non scritta della opportunità”.

Autonomia, la provocazione politica

Per Musumeci “in questo momento nelle regioni del Mezzogiorno d’Italia permangono delle perplessità, anche all’interno della coalizione di governo. Chiederei a Zaia – dice il ministro – di accelerare, invece, insieme con noi governo il processo che deve portare alla individuazione dei Lep, che costituiscono una garanzia per quelle regioni che essendo svantaggiate guardano con diffidenza alla concreta applicazione della riforma”. Una zuffa politica che svela ciò che in molti prevedevano: l’autonomia differenziata soffia su chi la intende come metafora dolce dell’antica secessione (la Lega in testa) e chi l’ha mal sopportata come scambio politico all’interno della maggioranza per saldare la tenuta del governo.

Il problema sottovalutato da Musumeci e il suo partito (Fratelli d’Italia) insieme a un’ampia fronda all’interno di Forza Italia è che le leggi infine si usano, ognuno a modo suo. Prevedere lo scopo dei leghisti non era così difficile. “Se noi riuscissimo ad accelerare – dice ancora Musumeci – come prevede la legge per individuazione dei Lep con criteri stabiliti, possiamo anche consentire per le deleghe non legate ai livello essenziale di prestazione di poterle affidare alle regioni. Non è detto che tutte le regioni debbano usare l’autonomia differenziata. – aggiunge il ministro – La richiesta di Zaia è legittima, se non è una provocazione politica e cominciamo a lavorare sulla individuazione dei lep che costituiscono il presupposto per potere dire ‘la riforma c’è e può partire”.

La frattura interna

Lo scorso 21 giugno Massimo Villone, professore emerito di Diritto costituzionale nell’Università Federico II di Napoli aveva spiegato in un’intervista a La Notizia che nella riforma del governo “l’ampiezza delle materie è il primo vulnus. Poi se guardiamo a queste materie si vede una frammentazione del Paese che impedisce le politiche pubbliche necessarie strategiche. Se noi frammentiamo il Paese, per esempio per le grandi reti di trasporto e di comunicazione, stiamo impedendo di avere un sistema efficiente”. Poco più di una settimana fa il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto (che è anche vice segretario nazionale di Forza Italia) aveva espresso critiche alla legge così com’è. Nella maggioranza si era faticato parecchio per simulare una ricomposizione. “Il Sud deve smettere di continuare a piangere”, aveva detto in quell’occasione il ministro Musumeci intento a ricucire. Zaia e il presidente lombardo Attilio Fontana avevano già cominciato a brindare. Ora ci si accorge che la maggioranza che ha votato la legge non sta in piedi nell’attuarla.

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La povertà educativa non va in vacanza neppure d’estate. Il Sud più discriminato

Quando l’anno scolastico termina e le scuole chiudono i battenti, per molti bambini e adolescenti in Italia si apre una stagione fatta di opportunità. Opportunità che, tuttavia, non sono equamente distribuite lungo la penisola, creando un divario che accentua la già preoccupante povertà educativa. La funzione dei centri estivi e delle attività pre e post scuola, infatti, non si limita a supportare le esigenze lavorative delle famiglie, ma diventa un baluardo contro la perdita di apprendimento estivo, il cosiddetto “summer learning loss”.

Secondo i dati Openpolis, nel 2019 erano solo 9,8 ogni 100 residenti tra i 3 e i 14 anni a beneficiare di centri estivi e attività analoghe in Italia. Questa cifra nasconde una disparità allarmante: mentre in Emilia Romagna l’offerta raggiungeva il 17,6%, nelle regioni del Sud continentale scendeva drasticamente al 2,2%. La povertà educativa, che già affligge molte aree del Paese durante l’anno scolastico, trova un terreno ancora più fertile nei mesi estivi, quando le scuole chiudono e le alternative per i più giovani si riducono drasticamente.

Opportunità estive: un’analisi delle disuguaglianze regionali

Emilia Romagna e Lombardia emergono come isole felici in questo panorama desolante, con una copertura rispettivamente del 17,6% e del 15,9% tra i residenti in età scolare. Al contrario, regioni come Calabria (2,3%), Puglia (1,6%) e Campania (1,1%) testimoniano l’assenza quasi totale di tali servizi, lasciando i bambini senza strutture dove poter continuare a crescere e apprendere anche fuori dalle mura scolastiche.

Milano spicca tra le città con la migliore offerta: nel 2019, ben 34,9 ogni 100 minori potevano accedere a centri estivi. Seguono Verona, Parma, Bologna e Fermo con cifre che oscillano intorno ai 20 utenti ogni 100 minori. Tuttavia, l’Italia meridionale e alcune zone centrali offrono un quadro sconfortante: città come Taranto, Crotone, Bari, e Napoli registrano meno di 0,65 utenti ogni 100 minori. Questi numeri evidenziano un’assenza di investimenti in strutture essenziali per garantire un’educazione continua e inclusiva.

L’importanza dei centri estivi per combattere la povertà educativa

I centri estivi non rappresentano solo un’opportunità di svago, ma costituiscono un fondamentale strumento educativo e sociale. Attraverso attività ludiche, sportive, laboratori espressivi e manuali, gite e momenti di gioco strutturato e non, questi centri contrastano la perdita di apprendimenti estivi e promuovono la socializzazione e il diritto al gioco sancito dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia.

La carenza di tali servizi nei comuni del Sud e in quelli di medie dimensioni non è solo una questione di numeri, ma di diritti negati. In Emilia Romagna, ogni 100 minori ci sono 17,6 utenti di centri estivi, mentre in regioni come la Campania il dato si ferma a 1,1. Questo divario sottolinea come l’accesso alle opportunità educative sia fortemente legato al luogo di residenza, alimentando un circolo vizioso di povertà educativa che si perpetua da una generazione all’altra.

L’Italia dovrebbe puntare a un’armonizzazione delle politiche educative che garantisca pari opportunità a tutti i bambini, indipendentemente dal loro luogo di nascita. Sta scritto nella Costituzione. L’articolo 31 della Convenzione sui diritti dell’infanzia recita che “gli Stati parti riconoscono al fanciullo il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica”. 

Ma tranquilli, ci sarà sempre qualche anima pia pronta a gridare “colpa loro!” quando questi ragazzi, cresciuti nell’abbandono istituzionale, finiranno per cercare altrove quel senso di appartenenza che lo Stato gli ha negato. A quel punto un altro “decreto Caivano” non si potrà negare. 

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Debutto da presidente Ue, Orbán fa subito l’Orbán

Primi giorni di presidenza ungherese del Consiglio dell’Ue e Viktor Orbán fa l’Orbán, come si poteva facilmente immaginare. Alla cerimonia del passaggio di consegne tra Belgio e Ungheria il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ha lanciato il monito: “Competitività, difesa e allargamento: conosciamo tutti le sfide che dobbiamo affrontare. Farlo insieme e uniti è l’unico modo per superarle”. Orbán ha risposto con un pezzo pubblicato dal Financial times: “La perdita di competitività dell’Ue – ha scritto il premier ungherese – ha rappresentato una tendenza crescente negli ultimi decenni. Questo declino può essere attribuito principalmente alle decisioni sbagliate di Bruxelles che vanno contro la realtà dell’economia mondiale”.

Non male come inizio. Nel frattempo il suo consigliere Balazs Orban pubblicava un post su X richiamando un articolo di un sito cinese accusato di disinformazione per sostenere Marine Le Pen e la tesi secondo cui “spontaneamente e simultaneamente gli elettori dell’Occidente si stanno sollevando per ripudiare i loro leader”. Ieri Orbàn si è presentato a sorpresa – ma nemmeno troppo – in Ucraina.

Il governo ungherese sta bloccando 6,6 miliardi di euro che dovrebbero servire per rimborsare 1,6 miliardi di euro ai Paesi che li hanno già trasferiti all’Ucraina e usare altri 5 miliardi nel 2024 per comprare equipaggiamento militare per Kiev, La posizione del premier ungherese è sempre la stessa: sentita vicinanza alle posizioni di Putin. Forse per questo la tradizionale visita della Commissione europea all’inizio di presidenza di turno del Consiglio europeo è già slittata. E la Lega di Salvini è già pronta a salire sul carro.

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Fanpage, giornalisti sotto copertura metodo da regime? L’analisi della giurista Azzollini smonta la versione di Giorgia

Al termine del Consiglio europeo dello scorso 28 giugno, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha commentato per la prima volta l’inchiesta della testata giornalistica Fanpage, che ha svelato atteggiamenti antisemiti, razzisti, di esaltazione del fascismo e del nazismo da parte di alcuni militanti di Gioventù Nazionale, il movimento giovanile di Fratelli d’Italia.

Fanpage e la libertà di stampa

Meloni ha dichiarato che i “sentimenti razzisti, antisemiti o nostalgici” sono “incompatibili con Fratelli d’Italia” e “con la destra italiana”. Tuttavia, ha criticato Fanpage per l’uso di una giornalista sotto copertura che si è infiltrata dentro Gioventù Nazionale, affermando: “Prendo atto che da oggi nello scontro politico è possibile infiltrarsi nei partiti politici e nelle organizzazioni sindacali, riprenderne segretamente le riunioni e pubblicarle discrezionalmente”. Meloni ha anche posto un quesito: “Perché non è mai successo con nessun altro?”. In realtà, negli anni recenti, ci sono stati casi simili di giornalisti che si sono infiltrati in riunioni del Movimento 5 Stelle tra il 2012 e il 2017.

La presidente del Consiglio ha messo in dubbio la legittimità delle inchieste giornalistiche sotto copertura come quella di Fanpage, domandando retoricamente: “È consentito? Lo chiedo a lei, lo chiedo ai partiti politici, lo chiedo al presidente della Repubblica. È consentito da oggi?”. Secondo Meloni, “in altri tempi questi sono i metodi che usano i regimi: infiltrarsi nei partiti politici non è un metodo giornalistico”.

Fanpage, Azzollini: infondate le accuse di Meloni

Contrariamente a quanto suggerito da Meloni, le inchieste giornalistiche sotto copertura sono legittime e supportate da varie norme e sentenze giudiziarie che permettono ai giornalisti di infiltrarsi in partiti e organizzazioni politiche. Come spiegato dalla giurista Vitalba Azzollini per Pagella politica, la libertà di informazione, tutelata dall’articolo 21 della Costituzione, include il diritto del giornalista di informare e del cittadino di essere informato. Il giornalismo d’inchiesta, spesso praticato sotto copertura, è una componente fondamentale di questa libertà, come dimostrato storicamente dalla pioniera Nellie Bly alla fine dell’Ottocento.

La Corte di Cassazione nel 2010 ha riconosciuto l’importanza del giornalismo d’inchiesta come l’”espressione più alta e nobile dell’attività di informazione”. Anche la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) ha sostenuto il diritto di ricerca libera delle notizie e la protezione delle fonti giornalistiche.

La “Carta dei doveri del giornalista”, adottata nel 1993 dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) e dall’Ordine nazionale dei giornalisti, afferma che il giornalista deve difendere il diritto all’informazione e diffondere notizie di pubblico interesse. Tuttavia, esistono condizioni specifiche che legittimano il giornalismo sotto copertura, come stabilito dalla legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti (legge n. 69 del 1963) e dalle “Regole deontologiche relative al trattamento di dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica” contenute nel Codice della privacy (decreto legislativo n. 196 del 2003).

La legge del 1963 stabilisce che i giornalisti devono rispettare la verità sostanziale dei fatti e la lealtà e la buona fede, ma possono non rivelare la propria identità quando ciò comporta rischi per la loro incolumità o rende impossibile l’esercizio della funzione informativa. Come chiarito da Vitalba Azzollini per Pagella politica, l’inchiesta di Fanpage sembra rientrare in queste eccezioni, poiché la giornalista non avrebbe potuto documentare certi comportamenti senza agire sotto copertura.

L’articolo 51 del codice penale dispone che l’esercizio di un diritto esclude la punibilità, e il diritto di cronaca può giustificare la pubblicazione di notizie anche se può configurare reati come la diffamazione o le interferenze nella vita privata, a patto che la notizia sia vera, di interesse pubblico e presentata in modo misurato. La legittimità della pubblicazione di dati sensibili dipende dall’essenzialità dell’informazione, come specificato dalle Regole deontologiche.

Inchieste scomode: quando il giornalismo fa tremare il potere

Infine, la pubblicazione di dati personali e sensibili è permessa quando è di rilevante interesse pubblico, soprattutto per persone note o che esercitano funzioni pubbliche. Nell’inchiesta di Fanpage, l’interesse pubblico è evidente poiché coinvolge dirigenti di Gioventù Nazionale e ha suscitato l’attenzione internazionale.

La legittimità delle inchieste sotto copertura quindi dipende dall’interesse pubblico e dalla rilevanza delle informazioni divulgate. Nel caso di Fanpage, come spiegato da Vitalba Azzollini per Pagella politica, la documentazione di comportamenti razzisti e antisemiti all’interno di Gioventù Nazionale ha permesso di chiarire la posizione di Fratelli d’Italia e della sua leader, contribuendo alla trasparenza e al dibattito democratico.

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In Francia lo stesso copione

In Francia si ripete il copione italiano. Tra gli inganni di questi anni c’è l’aver creduto che il post-fascismo possa diventare alfiere contro l’antisemitismo quando invece la postura (simulata come molte altre) è solo passo nel percorso di potabilizzazione. 

I sovranisti hanno dapprima edulcorato la propria definizione. Sono post-fascisti nelle idee, nei modi, nel retaggio culturale, nelle citazioni, talvolta nei motti stessi ma gli è bastato imbellettarsi con un pizzico di vago patriottismo per nascondere il tutto sotto una coltre di protezionismo dei confini. La preoccupazione principale di Bardella in Francia – come accade qui in Italia – è quella di apparire eredi naturali seppur evoluti del fascismo proponendone una formula “buona” e degna di calcare il palco internazionale. 

La lotta all’antisemitismo (di facciata) è utile per sdoganare un suprematismo nei confronti delle altre etnie. La difesa del popolo ebraico (bianco e influente) consente di accelerare sullo spauracchio dell’islamizzazione, è un appiglio per difendersi dalle accuse di xenofobia e consente una collocazione nel quadro internazionale. 

La guerra ai poveri è una stortura di liberalismo simulato, il negazionismo delle questioni di genere è coperto dalla difesa della famiglia, il negazionismo climatico viene addobbato con menzognere preoccupazioni economiche, l’autoritarismo è giustificato dal conservatorismo culturale. Il fascismo nuovo è la versione codarda di quello vecchio, con gli stessi nemici e con le stesse soluzioni. L’antifascismo come mero esercizio di memoria è il suo alleato migliore. 

Buon martedì. 

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Giorgia all’angolo in Ue. Comandare non è governare

Il disastro di Giorgia Meloni legato alle elezioni europee è solo all’inizio. Dopo essere stata tenuta fuori da qualsiasi ragionamento politico a Bruxelles ora si ritrova con l’ombra di un gruppo a destra abitato dal suo ex amico Viktor Orbàn. Il premier ungherese con il suo partito Fidesz è stato allontanato dal Partito popolare europeo ed è stato ritenuto indesiderato dal gruppo Ecr, il gruppo europeo di Meloni.

Il disastro di Giorgia Meloni legato alle elezioni europee è solo all’inizio

Ora Orbàn con l’ex premier ceco fuoriuscito dall’Alde e con l’ex ministro dell’Interno austriaco capo del Partito della Libertà, Herbert Kickl, sta apparecchiando un nuovo gruppo di nazionalisti ed euroscettici. A giorni dovrebbero arrivare anche Marine Le Pen fresca dell’ottimo risultato in Francia del Rassemblement national e forse – udite udite – pure quel Matteo Salvini che insperatamente potrebbe uscire dall’angolo proprio grazie all’imperizia internazionale della presidente del Consiglio.

Era inevitabile che i tentennamenti di Meloni su von der Leyen e la sua ritrosia alla costituzione di un gruppo in Europa dove Fratelli d’Italia non sarebbe più stato il primo partito avrebbe sconquassato gli equilibri della destra europea. Salvini si dice convinto che il nuovo gruppo “possa essere la strada giusta fare un grande gruppo che ambisca a essere il terzo nell’Europarlamento e che porti avanti quello che i cittadini ci hanno chiesto, ad esempio su un ambientalismo intelligente e non ideologico”.

Meloni è incastrata. Il suo gruppo Conservatori e riformisti rischia di essere eroso. Il gruppo Identità e democrazia potrebbe addirittura sciogliersi nella nuova iniziativa politica. È la differenza sostanziale tra il governare e il comandare. A Bruxelles non si alza nessuno al primo cenno di Meloni.

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Migranti, i conti del governo non tornano: non è vero che solo il 10% ha diritto alla protezione

Si tratta di uno dei famosi lapsus piantedosiani, quelli con cui il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi rivela la sua strategia politica sul tema dei migranti. Intervistato lo scorso 27 giugno da La Stampa il ministro ha strenuamente difeso il progetto del governo di affittare un’enclave in Albania per piazzarci dei costosissimi centri di “accoglienza e trattenimento” nei siti di Shëngjin e Gjadër. 

Per Piantedosi l’esborso di 650 milioni di euro per un progetto che avrebbe dovuto partire più di un mese fa e invece è già slittato (forse) a novembre è giustificato dai suoi benefici, in particolare alla riduzione delle risorse spese dall’Italia e dall’”intera Europa” a “beneficio di persone che poi, al 90 per cento circa, si riveleranno non averne diritto”. 

Le statistiche sui migranti. Nel 2023 il 46,3% delle richieste presentate in Italia ha avuto risposta positiva

Non è la prima volta che il titolare del Viminale ridimensiona il numero di migranti che ricevono protezione in Italia. ”Come già successo l’anno scorso, il ministro dell’Interno sottostima il numero di persone che ricevono una forma di protezione dopo essere arrivate nel nostro Paese o in un Paese dell’Unione europea“, scrive Pagella Politica.

“A meno del 10 per cento di coloro che arrivano in Italia viene riconosciuto lo status di rifugiato. Oltre il 90 per cento è spinto solo da ragioni economiche”, aveva detto a Libero il 28 agosto dell’anno scorso. Ma le cose stanno davvero così? 

Come ricostruisce Pagella Politica citando i dati di Eurostat, nel 2023 il 52,8 per cento delle domande d’asilo presentate per la prima volta in tutti e 27 gli Stati membri dell’Ue ha avuto una risposta positiva.

Questa percentuale era pari al 48,8 per cento nel 2022 e al 38,2 per cento nel 2021. Detto altrimenti, spiega il sito di Fact Checking, “più della metà delle richieste d’asilo esaminate nel 2023 nell’Ue ha ricevuto come risposta la concessione di una tra le tre forme di protezione che possono essere concesse ai richiedenti d’asilo”. 

Al 22,4 per cento dei richiedenti è stato riconosciuto lo status di rifugiato, la forma di protezione internazionale che si applica quando c’è il timore che un migrante, ritornando nel suo Paese d’origine, possa essere perseguitato per vari motivi, tra cui quelli di religione, nazionalità o appartenenza a un determinato gruppo sociale.

Al 19,2 per cento è stata riconosciuta la protezione sussidiaria. Che viene concessa ai migranti che, sebbene non abbiano i requisiti per essere riconosciuti come rifugiati, correrebbero un rischio a tornare nel proprio Paese di origine.

Infine, all’11,2 per cento dei richiedenti è stata riconosciuta la protezione per motivi umanitari, che ha regole diverse nei vari Stati europei e che il governo italiano vorrebbe in tutti i modi cancellare se non fosse per il vincolo delle leggi internazionali. 

Migranti fantasma

In Italia nel 2023 il 46,3 per cento delle richieste d’asilo presentate per la prima volta nel nostro Paese ha ricevuto una risposta positiva, quindi poco meno di una su due. Il 10,4 per cento dei richiedenti ha ricevuto lo status di rifugiato e il 13,8 per cento la protezione sussidiaria, mentre al 22,2 per cento è stata concessa la protezione per motivi umanitari.

Il mito dell’invasione dei “migranti economici” dunque non regge alla prova dei numeri. Nel 2023 delle 77.200 domande esaminate il 48,4% ha ricevuto risposta positiva.

Nel 2023 il sistema d’asilo italiano ha esaminato 41.415 domande: 49,8% i dinieghi (20.625), 11,9% i riconoscimenti dello status di rifugiato (4.910), il 14,9% sono stati i beneficiari di protezione sussidiaria (6.185), il 23,4% i beneficiari di protezione speciale (9.690) secondo i dati Eurostat.

Poi ci sarebbero i 2.476 i morti e dispersi nel Mediterraneo centrale, che continua ad essere la rotta più letale del mondo (dati OIM).

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Molestie sul lavoro: il patriarcato in cifre che l’Italia finge di non vedere

Ci risiamo. L’Istat ci consegna l’ennesimo rapporto che grida vendetta ma che rischia di rimanere lettera morta nell’indifferenza generale. Il 13,5% delle donne italiane tra i 15 e i 70 anni ha subito molestie sessuali sul lavoro. Un esercito di oltre 1,8 milioni di vittime silenziose, schiacciate tra la paura di perdere il posto e la vergogna di denunciare.

Ma attenzione: non stiamo parlando solo di pacche sul sedere o battutine volgari. Il ventaglio è ampio e va dagli sguardi lascivi alle proposte indecenti, fino ad arrivare a veri e propri abusi fisici. Un calvario quotidiano che colpisce soprattutto le più giovani: il 21,2% delle lavoratrici tra i 15 e i 24 anni ha già vissuto sulla propria pelle questa forma di violenza.

E gli uomini? Anche loro non sono immuni, ma i numeri parlano chiaro: solo il 2,4% ha subito molestie sul lavoro. Una disparità che riflette il tanto temuto “patriarcato”, dove il potere – quasi sempre maschile – viene usato come arma di ricatto e sopraffazione.

L’istruzione? Un’arma a doppio taglio per le donne

Ma c’è di più. L’istruzione, che dovrebbe essere uno scudo, diventa paradossalmente un fattore di rischio: il 14,8% delle donne laureate ha subito molestie, contro il 12,3% di quelle con titolo di studio inferiore. Come dire: più sali, più ti esponi al pericolo. E la geografia Il Nord-Ovest e il Centro guidano questa triste classifica, con punte del 20,3% in Piemonte. Un dato che fa a pugni con la retorica del Sud arretrato e maschilista.

Il silenzio assordante delle vittime

Ma il dato più agghiacciante è un altro: solo il 2,3% delle vittime denuncia alle forze dell’ordine. Un muro di omertà e paura che protegge i molestatori e perpetua il ciclo della violenza. L’indagine Istat ci regala altri dettagli cda brividi. Nell’81% dei casi, le donne subiscono molestie da parte di uomini.

E chi sono questi maschi alfa del terzo millennio? Per lo più colleghi (37,3%) o clienti, pazienti, studenti (26,2%). Insomma, gente comune, non mostri nascosti nell’ombra. E non crediate che si tratti di episodi isolati. L’80% delle donne ha subito molestie più volte negli ultimi 12 mesi. Un incubo ricorrente, una ferita che si riapre ogni giorno varcando la soglia dell’ufficio.

Ma forse il dato più inquietante è quello che non c’è. Quel 24,8% di donne che non ne ha parlato con nessuno. Un silenzio assordante, fatto di vergogna, paura, rassegnazione. Un silenzio che grida più forte di qualsiasi statistica. Anche gli uomini preferiscono tacere nel 28,7% dei casi.

Ma c’è una differenza sostanziale: quando decidono di parlare, gli uomini si rivolgono più facilmente alle autorità. Il 26,7% degli uomini che ha subito molestie gravi ha contattato le forze dell’ordine o altre istituzioni, contro appena il 6,3% delle donne.

L’indagine Istat ci offre anche uno spaccato temporale. Negli ultimi tre anni, il 4,2% delle donne e l’1% degli uomini ha subito molestie sul lavoro. Numeri in calo rispetto al dato lifetime, ma che non lasciano spazio all’ottimismo. Perché dietro ogni percentuale c’è una persona, una dignità calpestata, un diritto negato.

E non dimentichiamo i ricatti sessuali, quella zona grigia dove il confine tra molestia e abuso si fa sottile. Sono 298mila le donne che hanno subito ricatti per ottenere un lavoro o un avanzamento di carriera. Un numero che fa rabbrividire e che ci racconta di un mondo del lavoro dove il merito è troppo spesso sacrificato sull’altare del più bieco machismo.

I numeri ci raccontano di un’Italia dove la parità di genere sul lavoro resta un miraggio. Un’Italia dove troppo spesso le donne sono costrette a scegliere tra la propria dignità e la propria carriera. Un’Italia che ha bisogno urgente di una rivoluzione culturale, prima ancora che legislativa. Con buona pace di quelli che “il patriarcato non esiste”. 

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Meloni, Fanpage e quell’idea distorta di giornalismo – Lettera43

A destra parlano di attacco alla democrazia, come se stanare ragazzotti fascisti in un partito fosse un pericolo. Dicono che bisogna limitarsi alla cronaca, ai fatti, evitare le opinioni. Ma quello è lavoro da ufficio stampa. Il punto è che hanno paura. Della verità scomoda, del cambiamento, di mettere in discussione le proprie convinzioni.

Meloni, Fanpage e quell’idea distorta di giornalismo

Diteci esattamente quale giornalismo volete, che razza di idea avete del giornalismo, quale dovrebbe essere la formula per accarezzare i lettori, la politica, l’imprenditoria tutta ed evitarci il rogo. Giorgia Meloni, giornalista professionista – come ci tiene a ricordare nel suo curriculum depositato a Palazzo Chigi – ha un’idea confusa, rabberciata dalle idee di qualche decennio fa. Ha spiegato la presidente del Consiglio che il giornalismo che si infila tra le beghe del potere è un attacco alla democrazia e non si capisce bene di chi sia quella democrazia messa a rischio dallo stanare ragazzotti fascisti riuniti in organizzazione. Tanta è la confusione sotto il cielo che la premier ha chiesto addirittura l’intervento di Sergio Mattarella, non si capisce bene per cosa. Forse Meloni vorrebbe che il presidente della Repubblica bussasse alla porta di Fanpage per tirare l’orecchio al direttore Francesco Cancellato e dirgli che i bambini non devono occuparsi delle cose dei grandi, non devono ascoltare i loro discorsi, devono stare in cameretta a giocare, devono farsi i fatti loro. Spira quell’aria del giornalismo come recinto dove ci si può divertire però senza esagerare. Quella stessa aria che nel ‘500 soffiava sulla testa dei giullari. Va bene ridere e far ridere, però occhio a non esagerare.

Meloni, Fanpage e quell'idea distorta di giornalismo
Sergio Mattarella stringe la mano a Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

Quelli per cui la stampa dovrebbe limitarsi alla cronaca e attenersi ai fatti

Ci sono quelli per cui i giornalisti dovrebbero limitarsi alla cronaca. Dicono proprio così, limitarsi. Come se la cronaca fosse un lavoro di ribattuta dei fatti. Poi si correggono: attenersi ai fatti, dicono. Evitare le opinioni. Ricordano quelle redazioni in cui al giovane praticante viene chiesto di telefonare al direttore prima di aggiungere un aggettivo. Limitarsi ai fatti è la reductio del “limitarsi ai nostri fatti”. Per loro i giornalisti sono impiegati a tempo pieno con lo scopo di propagare certe azioni, solo quelle, e rendere popolari le loro opinioni. Lo chiamano giornalismo, ma non sanno che è lavoro da ufficio stampa. E gli uffici stampa costano.

Per loro il “giornalista bravo” è quello con cui sono sempre d’accordo

Ci sono quelli per cui i giornalisti bravi sono quelli che mettono su carta le loro riflessioni al bar, tra amici. Per loro un “giornalista bravo” è un giornalista con cui sono sempre d’accordo. Sognano le edicole come un social fisico in cui incontrare gente con le loro stesse idee, con le identiche opinioni, tutti in lotta verso un unico obiettivo: collimare in molti e non sentirsi mai soli. Giornalismo come bonus psicologico.

Quelli dei nomignoli, degli sfottò: è stand up comedy su carta

Poi ci son quelli che vogliono il giornalismo con i nomignoli, con gli sfottò, con il perculamento dell’avversario come zenit del piacere. Per loro il giornalismo è stand up comedy su carta. Ridono a crepapelle. «Hai visto stamattina sul giornale x come il giornalista y ha bastonato il politico z?». E godono. Il giornalismo è un momento ludico. Chiamano gli avversari politici con i nomignoli inventati dal loro editorialista di punta. È tutto un gozzovigliare di faccette, di darsi di gomito, di moderne maschere di commedia dell’Arte sul palcoscenico del presente.

Chi sfodera autorevolezza e competenza come marchio doc rilasciato

Ci sono quelli che il giornalismo è il fine, mica il mezzo. L’autorevolezza come la competenza è un marchio doc rilasciato all’origine per un decina di firme e quel caravanserraglio di giornalisti sono la guida spirituale del Paese. Se il loro giornalista preferito scrive una sciocchezza o addirittura una falsità, quella bugia diventa verità. Se gli fate notare che le cose non stanno così, loro rispondono: «L’ha scritto x». Discussione chiusa. Giornalismo come nuovissimo testamento.

I complottisti che vorrebbero le inchieste sul “non ce lo dicono”

Naturalmente ci sono quelli che vorrebbero il giornalismo del “non ce lo dicono”. Più le tesi sono assurde, disparate e disperate e più un giornalista è meritevole di stima. Vorrebbero un giornalismo rarefatto dove il coraggio è direttamente proporzionale al coraggio di essere irrealistici. Il naif è da Pulitzer.

Cosa hanno in comune tutte queste visioni distorte? La paura

Immaginate in questa realtà come sia messo male il giornalismo che non si piega alle aspettative di nessuno, che scava in profondità, che dà voce a chi non ce l’ha, che sfida il potere e le sue narrazioni preconfezionate. Pensate come vanno poco di moda i giornalisti che non cercano approvazione, ma la verità; e che non si limitano a riportare i fatti, ma li contestualizzano e li analizzano criticamente. In fin dei conti, tutte queste visioni distorte del giornalismo hanno un elemento in comune: la paura. Paura della verità scomoda, paura del cambiamento, paura di mettere in discussione le proprie convinzioni. Ma il vero giornalismo non può e non deve piegarsi a queste paure. Il suo compito è illuminare gli angoli bui della società, dare voce a chi non ne ha, sfidare il potere costituito e le narrative dominanti. Non è un mestiere per compiacere, ma per scuotere le coscienze. Chi invoca un giornalismo “limitato”, in realtà, chiede di limitare la democrazia stessa.

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