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La guerra a Gaza ha fatto un’altra vittima: il patrimonio culturale

La campagna militare di Israele a Gaza ha causato devastazioni senza precedenti. Decine di migliaia di persone sono state uccise, molte delle quali donne e bambini, e molte altre sono rimaste ferite. Più della metà degli edifici di Gaza sono stati danneggiati o distrutti, inclusi importanti siti culturali e religiosi come moschee, musei, siti storici e cimiteri. Utilizzando immagini satellitari e video open source, Scripps News e Bellingcat hanno identificato oltre 150 siti di patrimonio culturale o religioso danneggiati o distrutti a Gaza.

Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) dichiarano di non avere una dottrina che miri a causare danni massimi alle infrastrutture civili, indipendentemente dalla necessità militare. Tuttavia, ciò non ha evitato che alcuni dei siti esaminati, come cimiteri e moschee, siano stati distrutti o danneggiati. La distruzione diffusa ha attirato l’attenzione delle Nazioni Unite, poiché il bersagliamento intenzionale di siti di patrimonio culturale violerebbe il diritto internazionale.

Devastazione dei siti culturali e religiosi

Dopo otto mesi di guerra, oltre 35.000 palestinesi e 1.200 israeliani sono stati uccisi. Secondo le Nazioni Unite, più del 75% della popolazione di Gaza è stata costretta a lasciare le proprie case, spesso spostandosi ripetutamente. La distruzione ha colpito duramente anche i siti archeologici, alcuni dei quali risalenti a migliaia di anni fa. Un esempio significativo è un sito sulla costa a nord di Gaza City, danneggiato già nel 2021 e ulteriormente colpito durante l’invasione di terra del 2023.

Forensic Architecture, un gruppo di ricerca con sede nel Regno Unito, ha analizzato i danni al sito, identificando decine di crateri causati da attacchi aerei e movimenti di veicoli militari. Anche stazioni costruite per pompare acqua di mare nei tunnel di Hamas minacciano la terra a lungo termine, danneggiando ulteriormente le rovine archeologiche e mettendo a rischio le riserve idriche di Gaza.

L’invasione di terra ha danneggiato numerosi siti archeologici, come il Tell Ali Muntar, un sito occupato ininterrottamente per secoli. La pressione sulla terra a Gaza, uno dei luoghi più densamente popolati del mondo, porta a costruire su siti archeologici, mettendo ulteriormente a rischio il patrimonio culturale.

Le moschee, parte integrante della vita quotidiana dei palestinesi, sono state gravemente colpite. L’Unesco ha documentato i danni a 47 siti di interesse culturale, sottolineando l’impatto devastante sulla vita delle persone. La moschea Al Omari, uno dei siti più famosi, è stata quasi completamente distrutta. La distruzione di questi luoghi non è solo una perdita storica, ma anche un colpo alla vita quotidiana della popolazione.

Implicazioni internazionali e perdita d’identità

Il gruppo Heritage for Peace ha documentato i danni ai siti culturali e religiosi a Gaza, pubblicando un rapporto dettagliato. La distruzione di oltre 100 moschee e 21 cimiteri evidenzia la gravità della situazione. Anche il sito di un mosaico bizantino scoperto sotto un uliveto nel 2022 è stato pesantemente danneggiato.

La protezione del patrimonio culturale è cruciale durante i conflitti armati. La Convenzione dell’Aia protegge esplicitamente i beni culturali, e la distruzione di questi siti è stata utilizzata come prova nel caso contro Israele presso la Corte Penale Internazionale. Preservare la cultura palestinese diventa ancora più importante di fronte a questa devastazione. Molti osservatori internazionali ritengono che la distruzione del patrimonio culturale a Gaza non sia solo una questione di perdita storica, ma un attacco alla vita e all’identità di un intero popolo.

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Lezione di diritti a Giorgia, stavolta da Marina B.

Dopo Alessandra Mussolini il governo Meloni prende un metaforico schiaffo anche da Marina Berlusconi. “Se parliamo di aborto, fine vita o diritti Lgbtq, mi sento più in sintonia con la sinistra di buon senso. Perché ognuno deve essere libero di scegliere. Anche qui, vede, si torna alla questione di fondo, quella su cui non credo si possa arretrare di un millimetro: la questione della libertà”, dice l’imprenditrice figlia dell’ex presidente del Consiglio in un’intervista al Corriere della Sera. A dire il vero nella stessa intervista Marina Berlusconi esprime un concetto politicamente ancora più sostanzioso: “Dobbiamo fare i conti anche con un nemico interno, non meno insidioso”, spiega, “il successo alle Europee di movimenti con idee antidemocratiche non può non allarmare. Le preoccupazioni sulle conseguenze del prossimo voto negli Stati Uniti aumentano”.

E ancora: “La risposta però non può certo essere quella di rinchiudersi nei propri confini”. Non bisogna essere analisti politici per comprendere che l’editrice si riferisca all’avanzare dei gruppi in Europa dei Conservatori e riformisti europei di cui fa parte Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni e il gruppo Identità e democrazia capeggiato dalla Lega di Matteo Salvini. Insomma, la figlia del leader storico del centrodestra Silvio Berlusconi ritiene pericoloso l’arretrare sulle libertà civili e preoccupante l’avanzare in Europa dei movimenti di riferimento della presidente del Consiglio e del suo vice. Questo a proposito del mantra “il popolo è con noi” ripetuto ossessivamente da Meloni e dai suoi seguaci. Dopo Mussolini e Berlusconi che impartiscono lezioni di diritti a questo governo chi sarà il prossimo?

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Ora possiamo far tornare l’antisemitismo un argomento da prendere sul serio?

Nella seconda puntata della sua inchiesta Fanpage mostra come l’antisemitismo – quello vero, non quello confuso con la difesa delle vite umane a Gaza – sia endemico all’interno della componente giovanile del partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. 

A margine degli eventi politici e organizzativi del partito, oltre che nelle chat del movimento giovanile, sono frequenti gli insulti, soprattutto quelli antisemiti, provenienti in particolare da coloro che si sentono costretti a sostenere la solidarietà a Israele come dettato dal governo di Giorgia Meloni. “Gli ebrei sono una casta, campano di rendita in virtù dell’Olocausto – afferma una militante del circolo di Gioventù nazionale Centocelle – Sono troppi, io li disprezzo come razza, perché oggettivamente è una razza, c’è la razza ariana, c’è la razza ebraica, c’è la razza nera”.

Non si tratta, come aveva riferito al Parlamento il ministro Ciriani, di “casi privati, i solati e decontestualizzati”. I protagonisti della caccia all’ebreo sono figure dirigenziali all’interno del movimento giovanile di Fratelli d’Italia nonché assistenti di importanti parlamentari. 

L’ex portavoce della Comunità ebraica di Roma nonché di una parlamentare di Fratelli D’Italia, Ester Mieli, è la vicepresidente della commissione Segre per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza e ieri ha sbottato. «le parole e i comportamenti là tenuti sono per me motivo di condanna e disapprovazione», ha scritto ieri in una nota. 

Ai giovani di Fratelli d’Italia si potrebbero aggiungere le uscite dei molti “adulti” di questi mesi. Ora possiamo fare tornare l’antisemitismo un argomento da prendere sul serio? Grazie. 

Buon giovedì. 

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Immigrati e Made in Italy: non sono i rifugiati il vero problema dello sfruttamento del lavoro agricolo

Si torna a parlare – ma si smetterà presto – dello sfruttamento dei lavoratori migranti nell’agricoltura. La morte di Satnam Singh a Latina pone ancora una volta l’annoso tema “dell’eccellenza del cibo italiano” dipendente dalle braccia straniere.

“Un fatto costantemente ignorato dalla pubblicità patinata e dagli eventi ufficiali del made in Italy”, come scrive il  docente di Sociologia delle migrazioni nell’università degli studi di Milano, Maurizio Ambrosini. Singh è la centesima vittima immigrata sul lavoro nel 2024.

In una riflessione per lavoce.info Ambrosini sottolinea come in agricoltura “scarsa capacità contrattuale nei confronti della distribuzione e scarsa capacità d’innovazione tecnologica sono compensate dallo sfruttamento del lavoro, fornito oggi sempre più da immigrati in varie condizioni legali”.

Il sociologo sottolinea che dove il lavoro umano non può essere sostituito dalle macchine, o non lo è per mancanza d’investimenti, la stagionalità delle produzioni richiede “grandi afflussi di manodopera per periodi molto brevi, senza che si presti sufficiente attenzione – e controlli dovuti – a come questi lavoratori vengano assunti, trattati e alloggiati. Va ricordato per contro che vi sono regioni in cui i pomodori non si raccolgono più a mano”.

Immigrazione e Made in Italy

Gli immigrati che lavorano regolarmente in Italia sono stimati dall’Istat in 2,4 milioni circa, più del 10 per cento degli occupati.

In agricoltura, però, il loro contributo è più rilevante: gli stranieri occupati nel settore sono quasi 362 mila (alla fine del 2022) e coprono il 31,7 per cento delle giornate di lavoro registrate. Ma questi sono solo i numeri ufficiali che non tengono conto di un vasto mondo di lavoro sommerso.

Una recente ricerca promossa dal centro studi Confronti per conto della Fai-Cisl sui lavoratori immigrati nell’agroalimentare (“Made in Immigritaly. Terre, colture, culture”) evidenzia come le principali provenienze nazionali registrate nei dati istituzionali sono tuttora, nell’ordine: Romania, Marocco, India, Albania e Senegal.

Le nazionalità dei rifugiati non compaiono nelle prime posizioni, e in generale l’Africa subsahariana è sottorappresentata. Quindi no, il problema non sono gli immigrati irregolari e i richiedenti asilo, come si sente dire in questi giorni.

“Nonostante la stabilità delle presenze di im­migrati – dice Paolo Naso, curatore della ricerca e docente di Scienza politica all’Università La Sapienza di Roma – il Paese continua a vivere una sorta di schizofrenia tra la narrazione dell’immigrazione come invasione onerosa e socialmente rischiosa da una parte, e un sempre più evidente bisogno di manodopera immigrata dall’altra”. A balzare all’occhio piuttosto è la debolezza di uno Stato che installa ambulatori e servizi igienici in prossimità dei cosiddetti “ghetti” o costruisce tendopoli ma non riesce, come scrive Ambrosini – “a incidere sui rapporti di lavoro e a convincere i datori di lavoro ad applicare i contratti”.

Esempi virtuosi
Ma nell’agricoltura, spiega Ambrosini, lo sfruttamento non è un destino. In Trentino migliaia di lavoratori stagionali ogni anno arrivano, soprattutto dall’Europa orientale, sono assunti quasi sempre regolarmente e alloggiati dignitosamente.

Oggi il problema è che non ne arrivano più a sufficienza. In provincia di Bergamo, come in altre province della Valpadana, gli indiani sikh – coetnici di quelli sfruttati a Latina – lavorano nell’industria zootecnica, con impieghi stabili, contratti regolari, alloggi decenti. In Veneto le produzioni di eccellenza impiegano manodopera straniera che riceve trattamenti adeguati.

L’industria delle carni in Emilia-Romagna applica i contratti e stabilizza i lavoratori, pur con stratificazioni etniche e rivalità. “Lo sfruttamento non è un destino, – spiega Ambrosini – e le produzioni del made in Italy possono ricorrere al lavoro degli immigrati anche riconoscendolo e tutelandolo”.

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Opporsi all’opposizione col solito vittimismo

Il vittimismo della presidente del Consiglio Giorgia Meloni non è una novità. Opporsi all’opposizione è stata la tecnica comunicativa usata fin dal suo insediamento. Del resto sull’opporsi Meloni e Fratelli d’Italia hanno costruito l’enorme aumento del consenso. Opporsi all’Unione europea, opporsi al gender, opporsi alla sinistra, opporsi a taluni giornalisti, opporsi alle femministe, opporsi ai magistrati, opporsi a certi scrittori: opporsi come mantra per fare fiutare ai propri elettori il profumo della battaglia. Arrivata al governo Meloni però non ha smesso di opporsi e ha accelerato sul vittimismo. Così ieri l’abbiamo ascoltata mentre ha parlato di “toni irresponsabili da guerra civile”. Di chi? Dell’opposizione, ovviamente. Secondo Meloni i suoi avversari politici “non hanno argomenti nel merito”.

Forse le sfugge che il ruolo dell’opposizione sia proprio questo, incalzarla. L’abbiamo addirittura ascoltata mentre parla di “sinistra” che “manda in giro liste di proscrizione dei parlamentari del sud”. La parola proscrizione in bocca ad un governo che esclude gli scrittori dissidenti alla Fiera di Francoforte, che chiama pluralismo l’occupazione della Rai e che desta allarme a Bruxelles per gli interventi sulla libertà di stampa è un capolavoro. Di chi ha parlato quindi la presidente del Consiglio? Dell’opposizione. Chi è in difficoltà governare ha sempre bisogno di nemici da offrire in pasto ai suoi sostenitori. Così alla bisogna torna utile incendiare e dividere. Anche le sconfitte alle amministrative sono colpa della legge elettorale. E da lontano s’ode il rumore della terra che inizia a franare sotto i piedi.

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Ora il nemico sono i ballottaggi. E viene quasi da ridere solo a scriverlo

La malsana idea di dare colpa alla legge elettorale dopo una sconfitta sembra prendere piede nei partiti di maggioranza. Non li sfiora il dubbio che portarsi via il pallone perché la partita non va come vorrebbero sia un atteggiamento infantile più adatto a una rissa da cortile che al governo di una nazione. 

Leggendo i giornali di stamattina si viene a sapere che la Lega di Matteo Salvini (praticamente scomparso dopo la batosta delle europee) vorrebbe accelerare per cambiare le regole dei ballottaggi nelle elezioni amministrative addirittura in estate. 

La concentrazione è dedicata allo strumento legislativo da usare. Nella Lega temono che il Tuel (il testo unico degli enti locali) vedrà la luce troppo tardi per soddisfare la pancia degli elettori che vogliono risposte immediate per avere la sensazione della forza pronta dell’esecutivo. Qualcuno vorrebbe infilare l’abolizione dei ballottaggi sulla legge che resusciterà le province. Qualcuno vorrebbe un bel decreto cotto durante il Consiglio dei ministri, magari intestandolo proprio a Salvini che ha bisogno di tornare redivivo. 

L’agenda delle preoccupazioni dei leader di governo insomma è intasata da come disarticolare le dinamiche elettorali che sfavoriscono i propri candidati. Scomparse dai radar le piaghe dello sfruttamento nei campi e dei morti sul lavoro. Scomparsa l’Europa brutta e cattiva che andava rovesciata (Meloni tratta per elemosinare uno strapuntino). Scomparse le altre decine di allarmi che dalle parti di Palazzo Chigi durano giusto qualche ora come arma di distrazione.

Ora il nemico sono i ballottaggi. E viene quasi da ridere solo a scriverlo. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: La presidente del Consiglio Meloni e il presidente del Senato La Russa, Roma, 25 aprile 2023 (governo.it)

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Dal Fast Fashion ai soliti fossili, gli investimenti in…sostenibili dell’Unione Europea

n un mondo che cerca disperatamente di aggrapparsi alle promesse di un futuro più pulito, il sipario si alza su uno spettacolo inquietante: i fondi “sostenibili” dell’UE, quelli che dovrebbero guidarci verso un domani più etico, sono infarciti di investimenti in aziende di fast fashion, combustibili fossili e produttori di Suv. È il Guardian, insieme ai suoi partner mediatici, a rivelare che ben 18 miliardi di dollari dei loro fondi finiscono nelle tasche dei 200 maggiori inquinatori del pianeta.

Gli investitori, con oltre 87 miliardi di dollari in fondi registrati sotto le normative ambientali e sociali dell’UE, ora sanno che parte di questi investimenti sostengono i principali responsabili delle emissioni di gas serra. Un quinto di questi fondi, promossi con termini eco-compatibili, nasconde infatti connessioni con le aziende più inquinanti.

Gli attivisti non ci stanno. Chiedono regole più severe, sottolineando come l’attuale sistema confonda gli investitori e trasformi la gente comune in involontari sostenitori della crisi climatica. Lara Cuvelier di Reclaim Finance lancia l’allarme: “I risparmiatori di pensioni e il pubblico vengono ingannati sulla vera natura della finanza sostenibile”.

Investimenti verdi, ma non troppo: il grande inganno delle etichette eco-compatibili

L’indagine condotta da Voxeurop in collaborazione con il Guardian ha messo sotto la lente di ingrandimento i 25 maggiori inquinatori in otto settori ad alta intensità di carbonio, tracciando gli investimenti dei fondi che rispettano la direttiva UE sulla finanza sostenibile. I dati rivelano un quadro sconfortante: gran parte degli investimenti nei 200 maggiori inquinatori proviene da fondi classificati come articolo 8, che promuovono obiettivi ambientali o sociali, con ulteriori 2 miliardi di dollari da fondi articolo 9, destinati all’investimento sostenibile.

Nonostante i regolamenti non siano pensati per il marketing, le classificazioni sono usate per esaltare le credenziali verdi dei prodotti finanziari. L’Autorità europea per gli strumenti finanziari e i mercati (ESMA) e i watchdog europei delle banche e delle assicurazioni chiedono riforme radicali per combattere il greenwashing. Le etichette “articolo 8” e “articolo 9” sono diventate sinonimo di qualità ambientale ma l’inganno è evidente. 

Il problema è grave: 11,7 miliardi di dollari di investimenti nei maggiori inquinatori provengono da fondi con nomi come “ESG” (ambientale, sociale e di governance), e 1,1 miliardi da fondi con termini come “pulito”, “transizione”, “zero netto” e “Parigi”. Questi ultimi richiamano l’accordo sul clima di Parigi del 2015, siglato con la promessa di mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, un obiettivo che richiederebbe rapide riduzioni delle emissioni per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Ma tra i primi dieci destinatari di questi fondi verdi regolamentati dall’UE si trovano aziende di combustibili fossili e case automobilistiche che continuano a produrre veicoli sempre più grandi.

ESMA interviene: nuove regole contro il greenwashing, ma basteranno?

Xavier Sol, direttore finanziario sostenibile di Transport & Environment, denuncia la situazione: “I più grandi portafogli verdi d’Europa sono le stesse società sporche, riconfezionate come sostenibili. Abbiamo bisogno di capitale privato per accelerare la transizione verde, non per ostacolarla”. Sol insiste che solo gli investimenti destinati ad attività realmente verdi dovrebbero ricevere un’etichetta sostenibile.

L’ESMA ha recentemente aggiornato le linee guida, vietando ai fondi con significativi investimenti in combustibili fossili di definirsi verdi. Queste nuove regole, che entreranno in vigore entro la fine dell’anno, non sono giuridicamente vincolanti e i regolatori nazionali possono ignorarle. Cuvelier osserva: “Finora i regolatori hanno usato solo la carota con gli investitori, ma non è abbastanza”. È un verde che tende sempre al grigio. 

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Leggi Usa contro l’aborto: due anni di Calvario per le donne. Human Right Watch: crisi dei diritti umani

In Italia l’attacco all’aborto da parte delle destre è frutto di una strategia sottile. Non si passa infatti per l’abolizione o la modifica della 194 ma attraverso la sua applicazione integrale, sfruttando i gangli di una legge che prevede la possibilità che i ginecologi pratichino l’obiezione di coscienza. In Parlamento giacciono quattro proposte di legge che mettono comunque la 194 nel mirino. L’ultima, targata Fratelli d’Italia, punta a dare diritti giuridici all’embrione fin dal momento del concepimento Per immaginarne gli effetti basta fare un salto negli Usa. L’America post-Roe è un campo minato di leggi e divieti che hanno trasformato il diritto all’aborto in una chimera per milioni di donne.

A due anni dalla sentenza Dobbs vs. Jackson Women’s Health Organization, che ha annullato Roe vs. Wade, il panorama dei diritti riproduttivi negli Stati Uniti è drasticamente cambiato, in peggio. La decisione della Corte Suprema del 2022 ha scatenato una reazione a catena di restrizioni statali che ha reso l’aborto un percorso irto di ostacoli, spesso insormontabili, per molte donne americane. Human Rights Watch denuncia che questa decisione ha creato una vera e propria crisi dei diritti umani. Le leggi restrittive varate da numerosi Stati hanno costretto molte donne a portare a termine gravidanze non vitali o gravidanze frutto di violenza sessuale, mettendo in pericolo la loro salute fisica e mentale. Queste leggi hanno imposto “una sofferenza inutile a chi cerca di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione”.

Il panorama legale post-Dobbs è un mosaico di normative contraddittorie e draconiane.

L’effetto Dobbs

La Corte Suprema, nella sua sentenza, ha rimesso agli Stati la facoltà di legiferare in materia di aborto. Questo ha creato un’America divisa, dove il diritto all’aborto dipende dal codice postale della donna. Gli Stati più conservatori hanno approvato leggi che vietano l’aborto a partire dalle sei settimane, spesso prima che molte donne sappiano di essere incinte. In Texas, ad esempio, la Heartbeat Bill vieta l’aborto non appena si rileva l’attività cardiaca fetale, con pochissime eccezioni. In Mississippi, i divieti di aborto hanno costretto una ragazza di 13 anni a portare a termine una gravidanza per stupro.

Il Texas e l’Oklahoma hanno approvato leggi che consentono ai privati cittadini di citare in giudizio cliniche, operatori sanitari e individui per aver aiutato qualcuno ad abortire e i legislatori del Texas e del Missouri hanno cercato di rendere illegale ottenere aborti fuori dallo Stato. La situazione è resa ancora più disperata dalla mancanza di accesso a cure mediche sicure e dalla chiusura di numerose cliniche che fornivano servizi abortivi. Secondo il Guttmacher Institute, il 75% delle donne che cercano un aborto negli Stati Uniti sono a basso reddito, e queste restrizioni colpiscono in modo sproporzionato le donne più povere, quelle di colore e quelle che vivono in aree rurali, ampliando ulteriormente il divario di disuguaglianza socio-economica.

Le testimonianze di donne americane costrette a portare avanti gravidanze non vitali sono un potente richiamo all’urgenza di un cambiamento nel paese. La BBC ha raccontato le storie di donne obbligate a portare avanti gravidanze con feti non vitali, mettendo in luce l’iniquità delle leggi attuali e la necessità di una riforma che metta al centro la salute e il benessere delle donne. Human Rights Watch conclude il suo rapporto con un appello accorato: gli Stati Uniti devono “riconoscere l’aborto come un diritto umano fondamentale” e devono “agire per garantire che ogni donna abbia accesso a cure sicure e legali”. La lotta per i diritti riproduttivi è tutt’altro che finita e noi qui in Italia lo sappiamo bene.

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Gaza, uccisi più giornalisti che nella Seconda guerra mondiale: la denuncia delle Ong e l’inchiesta di The Intercept

Salman Bashir seguiva la guerra di Israele a Gaza da un mese quando il suo collega giornalista, Mohammed Abu Hatab, è stato ucciso. Durante una trasmissione in diretta Bashir ha gettato a terra il suo giubbotto con la scritta “PRESS”, gridando: “Siamo vittime in diretta TV”. Abu Hatab, reporter per Palestine TV, è stato ucciso in un attacco israeliano che ha distrutto la sua casa e ucciso 11 membri della sua famiglia a Khan Younis.

Abu Hatab è uno dei più di 100 giornalisti uccisi nei nove mesi di guerra, che rendono questo conflitto il più mortale per i giornalisti, superando persino la Seconda guerra mondiale. Con l’offensiva militare di Israele a Gaza, seguita all’attacco di Hamas del 7 ottobre, la vita dei giornalisti nella Striscia è diventata un incubo.

Il conflitto più mortale per i giornalisti

In quattro mesi Arab Reporters for Investigative Journalism ha collaborato con altre 13 organizzazioni per indagare sugli attacchi contro i giornalisti palestinesi, la distruzione degli uffici dei media a Gaza e gli attacchi ai giornalisti in Cisgiordania. Nonostante i blackout delle telecomunicazioni il consorzio è riuscito a intervistare 120 testimoni e consultare circa 25 esperti e analisti di armi.

Determinare il numero esatto di giornalisti uccisi è difficile ma il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) ha documentato l’uccisione di 102 giornalisti palestinesi, rendendo questa la guerra più mortale per i giornalisti da quando l’organizzazione ha iniziato a raccogliere dati nel 1992. Carlos Martínez de la Serna, direttore del programma al CPJ, ha dichiarato: “Sono stati uccisi mentre raccoglievano cibo, mentre riposavano in una tenda, mentre riferivano sulle conseguenze di un bombardamento”.

Il Sindacato dei giornalisti palestinesi (SPJ) alza la cifra a 140 giornalisti e lavoratori dei media uccisi dall’inizio della guerra e altri 176 feriti. Queste morti rappresentano il 10 per cento dei giornalisti a Gaza, secondo Shuruq As’ad, portavoce del sindacato. “I giornalisti di tutto il mondo dovrebbero essere protetti indipendentemente dal paese in cui lavorano”, ha detto.

L’esercito israeliano nega aver preso di mira i giornalisti. “L’IDF respinge apertamente la falsa accusa di uccisione mirata di giornalisti”, ha affermato il portavoce israeliano. Ma CPJ e altre organizzazioni sono convinte che i giornalisti uccisi fossero ben riconoscibili mentre svolgevano il proprio lavoro. 

Nell’inchiesta pubblicata da The Intercept i giornalisti in Gaza hanno dichiarato di sentirsi “bersagliati”. Molti hanno paura di indossare giubbotti e caschi, rendendo difficile il loro lavoro. Sami Barhoum, corrispondente per TRT Arabia, ha raccontato di essere stato colpito direttamente da un proiettile di artiglieria mentre era in missione. Il suo cameraman, Sami Shehadeh, ha detto dal suo letto d’ospedale prima dell’amputazione della gamba: “Perché indossiamo giubbotti da stampa Perché indossiamo i caschi? Così possono prenderci di mira”.

Reporter senza frontiere (RSF) ha presentato tre denunce alla Corte penale internazionale riguardo ai crimini di guerra contro i giornalisti. Le denunce includono casi di oltre 20 giornalisti palestinesi uccisi dall’esercito israeliano. “RSF ha ragionevoli motivi per credere che alcuni di questi giornalisti siano stati deliberatamente uccisi e che altri siano stati vittime di attacchi deliberati da parte delle forze di difesa israeliane contro i civili”, ha dichiarato l’organizzazione.

Il conflitto più mortale per i giornalisti

La sorveglianza israeliana a Gaza è capillare. Droni sorvolano costantemente la Striscia, raccogliendo informazioni e conducendo attacchi. Khalil Dewan, ricercatore sull’uso dei droni, ha affermato che l’esercito israeliano “colpisce i suoi obiettivi con un alto grado di conoscenza di chi sta uccidendo”. Almeno 20 giornalisti e lavoratori dei media sono stati attaccati da droni dall’inizio della guerra.

In questo contesto, i giornalisti palestinesi continuano a rischiare la vita per documentare la guerra. Nonostante le immense difficoltà, la loro dedizione resta incrollabile. Come ha scritto il giornalista Roshdi al-Sarraj poco prima di essere ucciso da un attacco aereo: “Non ce ne andremo… e se ce ne andremo, andremo in cielo, e solo in cielo”.

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Assange è libero

Julian Assange è libero. Ha lasciato il carcere di massima sicurezza di Belmarsh dopo avervi trascorso 1901 giorni. Gli è stata concessa la libertà su cauzione dall’Alta Corte di Londra ed è stato rilasciato nel pomeriggio all’aeroporto di Stansted, dove si è imbarcato su un aereo ed è partito dal Regno Unito.

“Questo è il risultato di una campagna globale – scrive Wikileaks – che ha coinvolto organizzatori di base, attivisti per la libertà di stampa, legislatori e leader di tutto lo spettro politico, fino alle Nazioni Unite. Ciò ha creato lo spazio per un lungo periodo di negoziati con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, che ha portato a un accordo che non è stato ancora formalmente finalizzato. Forniremo maggiori informazioni il prima possibile”. 

Dopo più di cinque anni in una cella di 2×3 metri, isolato 23 ore al giorno, presto si riunirà alla moglie Stella Assange e ai loro figli, che hanno conosciuto il padre solo da dietro le sbarre. WikiLeaks ha pubblicato storie rivoluzionarie di corruzione governativa e violazioni dei diritti umani, ritenendo i potenti responsabili delle loro azioni. In qualità di caporedattore, Julian ha pagato duramente per questi principi e per il diritto delle persone a sapere.

Ci sarà sempre una ragione di Stato per silenziare le voci scomode al potere. Talvolta c’è anche una legge scritta apposta per garantire impunità. Ci sarà sempre anche chi, per fortuna, ritiene il giornalismo come cane da guardia del potere e continuerà a scrivere e a pubblicare.

Buon martedì. 

Nella foto: Julian Assange all’ambasciata dell’Ecuador, 2014 (David G. Silvers)

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