Vai al contenuto

Blog

Le destre si impantanano nell’egemonia culturale

Immaginate una parte politica ossessionata dalla cultura degli altri. Immaginate una parte politica ossessionata dal sapere degli altri tanto da bollarli come “professoroni”. Immaginatela per anni relegata all’opposizione mentre promette ai suoi elettori che “esiste un’altra cultura”, come se la cultura fosse il vezzo di riscrivere la storia o di piegare la realtà alle proprie opinioni. Immaginateli dopo una vita passata così mentre riescono a raggiungere il potere, straripanti di voglia di imporre la propria “egemonia culturale”.

Per prima cosa scambiano la capacità di costruire una cultura prevalente con la sordina messa alle voci avverse. Arrivano in Rai, storica costruttrice di cultura popolare, e dopo aver satenato il fuggi fuggi dei presunti volti (e voci) ostili si accorgono che, con i rincalzi scelti dai nuovi vertici da loro insediati, gli ascolti arrancano. Nel progetto un ruolo fondamentale ovviamente lo copre il ministro della Cultura. Al ministero arriva Gennaro Sangiuliano che il 6 luglio del 2023, da giurato del Premio Strega, ammette di avere votato libri che forse leggerà.

Poi si corregge. “Sì, li ho letti perché ho votato però voglio, come dire, approfondire questi volumi”, dice. Lo scorso 4 aprile il ministro ha spostato Times Square da New York a Londra. A gennaio dell’anno scorso ci ha spiegato che “il fondatore del pensiero di destra in Italia è stato Dante Alighieri” e ora ci spiega che “Colombo voleva raggiungere le Indie circumnavigando la terra sulla base delle teorie di Galileo Galilei”. Che non era ancora nato. Immaginate il naturale nervosismo di quella parte politica a fatica arrivata fin lì.

L’articolo Le destre si impantanano nell’egemonia culturale sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Premierato, altro che riforma anti-ribaltone. La giurista Azzollini: resta possibile cambiare maggioranza

Il 18 giugno scorso il Senato ha approvato la controversa riforma costituzionale del “premierato”, una proposta tanto ambiziosa quanto discussa, fortemente voluta dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. La riforma costituzionale promette di rivoluzionare il nostro sistema politico, introducendo l’elezione diretta del presidente del Consiglio e una cosiddetta “norma anti-ribaltoni”. Il mito della “stabilità” del governo è un chiodo fisso della maggioranza di governo ma, come suggerisce Vitalba Azzollini nel suo articolo per Pagella Politica, le promesse del governo potrebbero non reggere alla prova dei fatti.

La presidente Meloni ha spesso sottolineato come uno dei “grandi obiettivi” della riforma sia garantire il diritto dei cittadini di scegliere da chi essere governati, mettendo fine alla stagione dei ribaltoni. Questa riforma del premierato nasce con l’intento di evitare situazioni come quella del 2018-2019, quando in un breve arco di tempo si passò da un governo Movimento 5 Stelle-Lega a un governo Movimento 5 Stelle-Partito Democratico, entrambi guidati da Giuseppe Conte. Tuttavia, nonostante le buone intenzioni, il testo approvato dal Senato sembra fallire nel suo obiettivo principale: impedire i ribaltoni tra governi.

La riforma del premierato: promesse e realtà

La novità principale della riforma è la modifica dell’articolo 92 della Costituzione, che prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Questo cambiamento è significativo, poiché il capo del governo non sarà più nominato dal presidente della Repubblica, ma sarà scelto direttamente dai cittadini. Tuttavia, i cambiamenti non finiscono qui. L’articolo 94, che regola il rapporto di fiducia tra Parlamento e governo, subisce anch’esso delle modifiche. In particolare, il terzo comma stabilisce che, se il governo non ottiene la fiducia entro dieci giorni dalla sua formazione, il presidente della Repubblica deve sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. Questo meccanismo si ripete anche in caso di revoca della fiducia da parte delle camere.

Questa riforma, tuttavia, lascia ampi margini di manovra che potrebbero consentire ancora i tanto temuti ribaltoni. Nonostante il nuovo meccanismo di fiducia. Osserva la giurista Azzollini, non c’è alcuna garanzia che il presidente del Consiglio successivo sia sostenuto dalla stessa maggioranza elettorale. Infatti, la legge non specifica che la nuova maggioranza debba essere identica a quella espressa dalle urne, aprendo così la possibilità a coalizioni diverse.

Il precedente del 2005, durante il terzo governo Berlusconi, è illuminante. Allora, una norma “anti-ribaltone” fu inclusa nella riforma costituzionale, bocciata poi con un referendum nel 2006. Questa prevedeva che il presidente del Consiglio potesse essere costretto alle dimissioni solo con il voto contrario della maggioranza assoluta della Camera, senza il sostegno dell’opposizione. Un meccanismo rigido, ma efficace per evitare cambi di governo senza passare per nuove elezioni.

Ambiguità legislativa e il rischio di nuovi ribaltoni

Al contrario, la riforma Meloni, come evidenzia Azzollini, sembra mancare di simili garanzie. Il rischio di governi di unità nazionale o di maggioranze diverse resta concreto. Il testo della legge parla di un “parlamentare eletto in collegamento con il presidente del Consiglio”, ma non specifica che debba essere supportato dalla stessa coalizione vincente. Questa ambiguità lascia aperta la porta a potenziali ribaltoni, nonostante le promesse contrarie.

Quindi no, nonostante le dichiarazioni di Meloni, la riforma costituzionale sembra più un compromesso che una soluzione definitiva. Se l’intento era di rafforzare la democrazia evitando i ribaltoni, il risultato ottenuto potrebbe non essere all’altezza delle aspettative. La riforma, così com’è, rischia di lasciare intatto il problema che prometteva di risolvere. 

L’articolo Premierato, altro che riforma anti-ribaltone. La giurista Azzollini: resta possibile cambiare maggioranza sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Renew Europe perde pezzi e il bis di von der Leyen vacilla: Ecr e Verdi tornano in partita per la Commissione Ue

Il cammino verso la riconferma di Ursula von der Leyen si fa accidentato.A pochi giorni da un vertice cruciale dei leader dell’Ue, il sostegno che la presidente della Commissione europea sperava di ricevere da Renew Europe, uno dei suoi principali alleati, le sta scivolando tra le dita. Non è che l’inizio di una complessa partita a scacchi politica.

Jacob Moroza-Rasmussen, ex segretario generale dell’ALDE, riassume a Politico il problema in termini semplici: “La matematica non è dalla parte di von der Leyen in questo momento.” I numeri parlano chiaro. La decisione improvvisa del populista ceco Andrej Babiš di ritirare i suoi sette deputati da Renew ha inflitto un colpo pesante, riducendo i seggi dei liberali da 102 a soli 74. Il gruppo dei liberali è stato superato persino dai conservatori e riformatori europei (ECR), che includono i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

L’incertezza del sostegno di Renew Europe a von der Leyen

La situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che uno dei pezzi grossi dei liberali, il primo ministro olandese Mark Rutte, parteciperà al suo ultimo Consiglio europeo prima di assumere il nuovo ruolo di segretario generale della Nato. Senza Rutte, la dinamica interna di Renew potrebbe vacillare ancora di più.

Von der Leyen e il Partito Popolare Europeo (Ppe) hanno finora dialogato solo con i socialisti e democratici (S&D) e Renew, escludendo sia i Verdi che l’Ecr. Una scelta rischiosa, soprattutto in un Parlamento europeo dove i numeri contano più di ogni altra cosa. Se von der Leyen non riuscirà a raggiungere un accordo soddisfacente con questi partiti, il suo futuro come presidente della Commissione potrebbe essere in pericolo.

La presidente ha bisogno di 361 voti su 720 nel ballottaggio segreto previsto per il 18 luglio. Anche sommando tutti i membri di Ppe, S&D e Renew, si arriva a 398 voti, ma non tutti questi voti sono garantiti. Alcuni membri del Ppe e dell’S&D potrebbero non sostenerla e Renew sta perdendo pezzi. Una situazione di incertezza che non fa che aumentare la tensione.

“Siamo fiduciosi nel portare a termine un accordo al Consiglio europeo”, ha detto un funzionario del Ppe a Politico, mantenendo un velo di ottimismo. Ma il Parlamento europeo è un campo di battaglia diverso, dove le dinamiche possono cambiare rapidamente. Se i leader dell’UE ritengono che von der Leyen non abbia abbastanza sostegno, possono ritardare il voto dei deputati da luglio a settembre, come accadde con José Manuel Barroso nel 2009.

Strategia e sfide nel Parlamento Europeo

Simon Hix, professore di politica comparata, sottolinea l’importanza del Ppe, ma avverte che costruire una maggioranza stabile sarà arduo. “Non ci sono vere alternative a von der Leyen”, aggiunge Hix, suggerendo che offrire a Meloni un portafoglio di vicepresidenza potrebbe garantirle i 24 voti necessari.

L’equilibrio è precario. I socialisti e Renew, sebbene meno potenti del Ppe, sono comunque necessari in Parlamento. E i socialisti hanno avvertito chiaramente: il loro sostegno non è garantito se von der Leyen si avvicina troppo a Meloni o altre forze di destra.

Nel frattempo, i Verdi si fanno avanti, reclamando un posto nei negoziati. “Chiunque voglia maggioranze stabili può negoziare con noi Verdi”, ha dichiarato ieri Rasmus Andresen. Ma anche aggiungendo i Verdi, il rischio di non avere i numeri rimane, e potrebbe persino costare il sostegno all’interno del Ppe.

La mossa di Babiš di lasciare Renew potrebbe non sorprendere, ma le sue conseguenze psicologiche sul Consiglio europeo sono profonde. L’Ecr, ora più grande di Renew, potrebbe diventare più assertivo, complicando ulteriormente la situazione. Un negoziato inconcludente potrebbe portare a un pasticcio politico che nessuno desidera. Von der Leyen cammina su un filo sottile, sperando di non cadere nel vuoto dell’incertezza politica.

L’articolo Renew Europe perde pezzi e il bis di von der Leyen vacilla: Ecr e Verdi tornano in partita per la Commissione Ue sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

La parola impronunciabile: capitalismo

Il Tg La7 ha pubblicato in esclusiva un documento della Procura in cui si legge che Renzo Lovato, padre di Antonello Lovato, il 37enne che ha abbandonato sotto casa il bracciante indiano Satnam Singh dopo che quest’ultimo aveva perso il braccio destro in un incidente sul lavoro nella sua azienda agricola, è indagato da cinque anni per reati di caporalato in un altro procedimento. Spiace quindi per il ministro all’Agricoltura Francesco Lollobrigida che si è lanciato subito in difesa degli agricoltori, come se il caporalato fosse un fortuito caso alimentato dagli schiavi e non dagli schiavisti. 

Nel frattempo scopriamo che Prakhash e Kamal Hinduja, origini indiane e passaporto britannico, membri della famiglia più ricca del Regno Unito, spendevano più per il mangime del loro cane che per lo stipendio di uno dei loro domestici, nella loro villa di Ginevra. Un giudice svizzero ha condannato gli Hinduja, il figlio Ajay e la moglie di lui Amrata a pene da quattro a quattro anni e mezzo di carcere per sfruttamento della manodopera e lavoro illegale, mentre è caduta l’accusa più grave mossa nei loro confronti, traffico di esseri umani. Il clan Hinduja è a capo di una multinazionale indiana che possiede solo in Regno Unito beni per 50 miliardi di euro, e ben di più nel resto del mondo: loro è per esempio la catena internazionale di alberghi Raffles. Eppure l’accusa è di avere ridotto i domestici letteralmente in schiavitù. Il retrogusto di fondo alle due vicende ha un nome impronunciabile che pochi si concedono il lusso di scrivere: il capitalismo. Forse sarebbe il caso di parlarne. 

L’articolo La parola impronunciabile: capitalismo sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

A proposito della casa (e non di Salis)

Lasciando perdere il baccano e la paternalistica banalizzazione che certi sedicenti liberali hanno ordito sulla questione del diritto alla casa per aiutare la destra (ma va) contro Ilaria Salis si potrebbe invece leggere il rapporto speciale sull’alloggio in Europa, dal Global Policy Lab di Politico. 

In un sondaggio in vista dell’impennata di estrema destra della scorsa settimana nelle elezioni del Parlamento europeo, i sindaci del continente hanno elencato l’alloggio come una delle questioni più importanti che i loro collegi elettorali devono affrontare. «Abbiamo raggiunto il punto di rottura di una situazione che è stata in lento rosolamento per anni», ha detto Sorcha Edwards, il segretario generale di Housing Europe, che rappresenta i fornitori di alloggi pubblici, cooperativi e sociali. «Per molto tempo, i politici sono stati felici di ignorare la questione perché ha colpito i gruppi a basso reddito che votano di meno, ma ora tocca la classe media stessa». 

Gli europei spendono in media quasi il 20 per cento del loro reddito familiare disponibile per l’alloggio, e c’è la percezione che la disponibilità stia diventando più scarsa. Edwards ha detto che i Paesi europei avevano investito in alloggi a prezzi accessibili nel dopoguerra, ma hanno abbandonato la questione negli anni Ottanta. Quando le amministrazioni neoliberiste del piccolo governo sono salite al potere hanno ampiamente tagliato la spesa. I consigli municipali a corto di denaro che avevano precedentemente costruito alloggi hanno rinunciato alle nuove costruzioni e hanno addirittura ceduto parte del patrimonio.

«Abbiamo avvertito di questo problema per almeno 10 anni, ma i politici sono stati felici di ignorarlo fino a poco tempo fa, quando è tornato all’ordine del giorno»”, ha detto Edwards. «Anni di inazione sono stati ora peggiorati da una crescita inflazionistica e da [un] aumento dei prezzi dei mutui che ha portato la stagnazione delle costruzioni del settore privato». 

Buon lunedì. 

L’articolo proviene da Left.it qui

Il femminicidio non tira più, inghiottito da stereotipi e storie periferiche – Lettera43

Il caso del 77enne che a Cagliari ha ammazzato la moglie di 59 anni che rientrava tardi la sera finirà nel dimenticatoio. Non è una vicenda “golosa” come quella di Giulia Tramontano, non stuzzica lotte al patriarcato come con Giulia Cecchettin. E così senza sensazionalizzazione perdiamo il focus su un fenomeno ormai strutturale.

Il femminicidio non tira più, inghiottito da stereotipi e storie periferiche

Luciano Ellies ha 77 anni. È un dato da tenere a mente perché a quell’età la preponderanza del testosterone è una favola da filmetti sui bagnini che non invecchiano mai. Dicono che vivesse da separato in casa con la moglie Ignazia Tumatis che di anni ne aveva 59. Aveva, al passato, perché 10 volte una punta di coltello l’ha trafitta mentre rientrava a casa, a Cagliari, in via Podgora. La mano sul coltello è quella del marito separato in casa Luciano che contestava l’orario di rientro della donna che evidentemente considerava abbastanza sua da gestire nelle entrate e nelle uscite.

Niente scusa del raptus per umanizzare gli assassini

Luciano Ellies ha telefonato alle figlie. «Ho ucciso la mamma», sono state le sue parole. Dice che lei durante la discussione le ha «riso in faccia» e lui non ci ha visto più. Ho forse ci ha visto benissimo, a dire la verità, perché una decina di fendenti non sono un raptus. Anzi, a ben vedere il raptus è psico-magia che piace a certi commentatori per umanizzare gli assassini e a certi avvocati per imboccare il famoso sentiero del non in grado di intendere e di volere.

La guerra dei numeri e il conteggio che continua a salire

Secondo l’Osservatorio femminicidi di Repubblica Ignazia è la 33esima vittima di femminicidio del 2024, anche se nel frattempo il conteggio continua ad aggiornarsi, con il caso di Arezzo dove un 80enne ha spato alla moglie malata di Alzheimer. Per il pannello di femminicidio.info invece è la 19esima. Alcuni centri antiviolenza sottolineano come le donne ammazzate siano 48. Il ministero dell’Interno al 16 giugno, quando Ignazia era ancora viva, scriveva che «sono stati registrati 126 omicidi, con 43 vittime donne, di cui 38 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 21 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner».

Il femminicidio non tira più, inghiottito da stereotipi e storie periferiche
Una manifestazione a Roma contro la violenza sulle donne (Imagoeconomica).

Disputa semantica tra “emergenza” culturale e fenomeno strutturale

La disputa sui numeri però è un terreno fertile per le discussioni che guardano il dito lasciando perdere la luna. Barbara Spinelli su Treccani scriveva già a fine 2019 che «l’assenza di dati ufficiali ha facilitato i meccanismi di sensazionalizzazione del fenomeno, ingenerando l’indebita percezione che vi sia un aumento esponenziale di questo tipo di reati, quando invece, stando al dato numerico, non è possibile definirla “emergenza”, ma sarebbe semmai corretto parlare di emersione, agli occhi dell’opinione pubblica, di un fenomeno strutturale». In molti pensano invece che l’emergenza sia culturale e quindi pericolosa anche con una sola vittima.

Tramontano-Impagnatiello avevano gli ingredienti per attrarre il telespettatore

Il femminicidio non tira più. L’uccisione di Giulia Tramontano è golosa solo per la cronaca giudiziaria. Alessandro Impagnatiello è un buon soggetto per la narrazione del processo. Ombroso, immediatamente antipatico, bugiardo cronico, traditore: ha gli ingredienti per un thriller che si svolge in attesa del crollo del cattivo. Vederlo condannato regalerà il senso di rivalsa ai telespettatori. La gravidanza di Giulia Tramontano aggiunge quel pizzico di “Dio, patria e famiglia” che solletica i pro vita. Commemorare il feto è un’occasione imperdibile.

Omicidio Giulia Tramontano, parla Impagnatiello: «Andai a pranzo da mia madre con il suo corpo in auto»
Giulia Tramontano e Alessandro Impagnatiello (ANSA).

Giulia Cecchettin e la parola patriarcato che fa venire l’orticaria

Giulia Cecchettin è scomparsa dal sentire popolare, vittima per la seconda volta della polarizzazione politica buttata addosso a suo padre. Una frotta di maschi si ingegna per delegittimare lui auspicando di delegittimare lei e quindi di sopire qualsiasi accusa al patriarcato che in certi ambienti è una parola che rizza i peli come se fosse il vaccino, le auto elettriche, il cambiamento climatico, l’antifascismo.

La demonizzazione della sorella per la critica collettiva alla violenza di genere

A Elena Cecchettin, sorella di Giulia, è andata perfino peggio. Secoli dopo è stata impalata come strega perché si è concesso il lusso di non volere stare “al suo posto”. Le hanno messo il microfono sotto il naso per farle recitare la parte della prefica e lei invece si è permessa di usare la morte della sorella per proporre una chiave di critica collettiva sulle violenze di genere. Hanno tirato fuori il satanismo per farla bruciare. Come secoli fa, appunto.

Femminicidio Giulia Cecchettin, il piano di Turetta dall’app-spia alla fuga in montagna
Il murale dedicato a Giulia Cecchettin realizzato a Milano dell’artista Fabio Ingrassia (Ansa).

Per indignarci ci serve il topos dell’italiano medio o della coppia perfetta

Di femminicidio si tornerà a parlare quando i protagonisti saranno troppo simili al topos dell’italiano medio per essere gettati nel bidone delle storie periferiche. Quando lei sarà giovane, studiosa o lavoratrice perfetta, quando lui sarà un bravo ragazzo senza grilli nella testa, quando le famiglie di entrambi saranno modelli di convenuta borghesia. A Ignazia – come quasi tutte le altre – andrà male. Uscire di sera a 59 anni con il marito a casa ad aspettarla è roba che non si fa. Quindi questa volta non c’è sesso, non c’è testosterone utile a piallare la morte di lei, ma rimane in campo un altro potente silenziatore: il rispetto che comunque si deve al proprio marito. Vedrete.

L’articolo proviene da Lettera43 qui https://www.lettera43.it/femminicidio-cagliari-ignazia-tumatis-giulia-tramontano-cecchettin/

Un governo senza una visione

Volendo cercare – con una certa fatica – una notizia politica nell’intera giornata di ieri si potrebbe dire che l’evento più rilevante siano le parole del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti con cui ci dice che “il Parlamento italiano non è nelle condizioni di approvare e non approva” il Meccanismo europeo di stabilità (Mes).

A fine giugno del 2024 dopo una campagna elettorale per le elezioni europee in cui la presidente del Consiglio candidata per finta – caso unico nel panorama politico per un capo di governo – ha promesso di cambiare l’Europa ostentando una rivoluzione invisibile che avremmo anche qui in Italia, i membri del governo discutono del Mes.

A distanza di anni, come le repliche estive ormai stanche e stinte che in televisione non guarda nessuno. Cosa manca La politica, semplicemente. Il ministro Giorgetti che propone di modificare il Mes sa benissimo che non può accadere essendo l’Italia l’unico Paese a non averlo ratificato. Ciò che conta è fare melina per coprire una disarmante mancanza di idee, di strategia complessiva, di un’idea di Paese al di là della propaganda.

Chissà che ne pensano gli elettori di questa destra che hanno votato confidando in un ribaltamento del tavolo dell’Unione europea e adesso vedono la loro leader aggirarsi per i corridoi di Bruxelles con la rabbia di chi non tocca palla. Chissà cosa ne pensano di un sabato di fine giugno in cui il dibattito nella sacra Patria è incagliato sul Meccanismo europeo di stabilità.

L’articolo Un governo senza una visione sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Altro che Dio, patria e famiglia

Altro che Dio, patria e famiglia. A Pordenone i carabinieri hanno arrestato un giovane di 29 anni con l’accusa di aver violentato una ragazza di 18 anni tra l’8 e il 9 giugno scorsi in città. Il Gazzettino racconta che il ventinovenne di origini colombiane era tornato nella notte a casa dopo aver commesso l’abuso, si era poi spogliato e messo a lavare i suoi vestiti. La madre il giorno successivo aveva notato delle strane macchie sugli abiti del figlio che non riusciva a pulire.

Il collegamento è stato rapido: luogo, ora e quel colore tipico dello spray anti aggressione coincidevano. Ai carabinieri di Pordenone la donna ha raccontato di essere “preoccupata”. “Sono una persona rispettabile e temo che mio figlio sia coinvolto nella violenza sessuale di cui ho letto sul giornale”, ha detto in caserma. Con sé aveva portato anche le prove e quegli abiti coincidevano perfettamente con quelli ripresi dalle telecamere. Oltre alla madre anche la sorella ha raccontato alle forze dell’ordine di avere assistito a telefonate in cui l’arrestato discuteva di un’eventuale fuga in Spagna, probabilmente per sfuggire all’arresto.

La madre in questione si è preoccupata della figlia di altri, della sua dignità e della giustizia che merita di fronte a un reato così famelico. Niente Dio, patria e famiglia come formula per essere egoisti sentendosi benedetti. I comandamenti di madre e figlia (che sono pure “straniere”) sono il rispetto, la solidarietà e la vicinanza agli oppressi, anche a costo di mettere in discussione la tranquillità famigliare. Così, da lontano, pare che sia un’ottima interpretazione della parola di Dio, delle leggi e della Costituzione italiana.

L’articolo Altro che Dio, patria e famiglia sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Meloni stoppa Orbán nell’Ecr. Un passo verso Ursula e il Ppe

Giorgia Meloni aveva chiesto un referendum su se stessa per cambiare l’Europa. Un progetto ambizioso che si è rivelato più complesso del previsto, portando la premier italiana a confrontarsi con una realtà politica ostile e stratificata. La politica a Bruxelles non si fa con la propaganda. Nonostante l’incremento dei membri del suo gruppo europeo Ecr (Conservatori e Riformisti Europei), Meloni si trova ai margini delle trattative per le nomine della prossima Commissione europea, ben lontana dall’influenza che sperava di ottenere.

Giorgia Meloni aveva chiesto un referendum su se stessa per cambiare l’Europa

Macron e Scholz premono per accelerare il pacchetto delle nomine utilizzando il voto a maggioranza qualificata, strategia che escluderebbe Meloni e altri leader euroscettici come Orbán. Proprio ieri è stato stoppato l’ingresso di Fidesz, il partito del premier ungherese, in Ecr. Una scelta interpretabile come un passo di avvicinamento della stessa Meloni verso il Ppe (e il bis di Ursula von der Leyen). Ma l’accelerazione impressa da Macron e Scholz complica notevolmente le cose.

La premier italiana sta cercando di bilanciare diverse strategie. Da una parte, alza la tensione per ottenere condizioni migliori nelle trattative così da poter giustificare agli occhi del suo elettorato l’eventuale virata su von der Leyen, emblema di quell’Europa che la leader FdI prometteva di cambiare. Dall’altra, prepara un piano B: una possibile alleanza con Marine Le Pen, creando un fronte comune contro glii stessi Macron e Scholz. Un “coordinamento nero” che potrebbe rafforzare temporaneamente la sua posizione, ma rischia di isolare ulteriormente l’Italia in Europa e scatenare una battaglia contro Bruxelles, che alla lunga, tra procedure di infrazione e vincoli asfissianti del Patto di Stabilità, potrebbe rivelarsi un bagno di sangue per l’Italia.

Durante la festa del Giornale, Meloni ha criticato l’approccio frettoloso di Macron e Scholz sulle nomine, definendolo “surreale” e sottolineando la necessità di riflettere sulle priorità dei cittadini. Ma la sua opposizione sembra più un tentativo di complicare un accordo piuttosto che una reale possibilità di influenzare le decisioni. Le dinamiche interne al Ppe e al Pse aggiungono altri ostacoli. Manfred Weber, leader del Ppe, propone un dialogo con la destra per sostenere la rielezione di von der Leyen. Tuttavia, Donald Tusk e altri leader temono che Meloni possa rafforzare i nemici interni al loro partito, preferendo un’alleanza con Macron e Scholz. Questo scontro di visioni ha portato a una polarizzazione tale che rende difficile qualsiasi dialogo costruttivo, con Meloni sempre più ai margini.

La posizione di Meloni è fragile anche a causa delle dinamiche interne all’Ecr. Deve evitare l’emorragia di parlamentari e mantenere la leadership all’interno della destra europea, navigando tra le complesse dinamiche politiche europee per mantenere un ruolo rilevante per l’Italia. La pressione politica aumenta mentre cerca di bilanciare il supporto interno ed esterno, con contatti costanti con von der Leyen per negoziare un riconoscimento politico utile a legittimare un eventuale sostegno al suo secondo mandato. Le parole del Presidente Sergio Mattarella risuonano come un monito: l’Europa deve rimanere fedele ai suoi valori fondanti di pace, democrazia e coesione sociale. Valori che Meloni rischia di compromettere con le sue alleanze pericolose.

La promessa di cambiare l’Europa si scontra con la dura realtà delle trattative politiche

La promessa di cambiare l’Europa si scontra con la dura realtà delle trattative politiche, mettendo in discussione la capacità della premier italiana di realizzare il suo ambizioso progetto. Con un futuro incerto e acque politiche sempre più agitate, Meloni deve riuscire a tenere insieme le sue molte facce che fino a qui hanno giocato su diversi piani nel tentativo – finora fallito – di mantenere l’Italia al centro del panorama europeo. I prossimi giorni saranno cruciali per determinare se riuscirà a navigare attraverso queste acque turbolente o se verrà definitivamente relegata ai margini della politica europea.

L’articolo Meloni stoppa Orbán nell’Ecr. Un passo verso Ursula e il Ppe sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Concorso esterno in associazione mostruosa

A fine maggio, il Tar aveva rigettato il ricorso presentato da Asgi, Arci, ActionAid, Mediterranea Saving Humans, Spazi Circolari e Le Carbet contro il trasferimento di sei motovedette alla Garde Nationale tunisina. In virtù di questa decisione, per il mese di giugno era in previsione il trasferimento delle prime tre motovedette. Le associazioni hanno quindi impugnato la sentenza del Tribunale amministrativo presso il Consiglio di Stato, chiedendo d’urgenza la sospensione cautelare del provvedimento.

Maria Teresa Brocchetto, Luce Bonzano e Cristina Laura Cecchini del pool di avvocate che segue il caso hanno spiegato che «come sostenuto anche dalle Nazioni Unite, fornire motovedette alle autorità tunisine vuol dire aumentare il rischio che le persone migranti siano sottoposte a deportazioni illegali». 

Filippo Miraglia di Arci ha spiegato che in Tunisia «alla nuova ondata di arresti e deportazioni nei confronti delle persone migranti ora si affiancano persecuzioni contro gli attori della società civile che le sostengono» ma nonostante la gravità della situazione «le politiche italiane ed europee sembrano sostenersi e giustificarsi a vicenda, impermeabili agli allarmi lanciati dalle Nazioni Unite e dalle Ong internazionali che condannano unanimemente l’operato delle autorità tunisine». 

La decisione del Tar si basava sugli accordi politici tra Italia e Tunisia (il memorandum firmato in pompa magna il 16 luglio 2023 tra Giorgia Meloni e Kaïs Saïed) e sul fatto che l’Italia recentemente abbia inserito la Tunisia tra i Paesi considerati “sicuri”. Il Consiglio di Stato ritiene invece “prevalenti le esigenze di tutela rappresentate da parte appellante”, sospendendo il trasferimento delle motovedette alla luce delle possibili violazioni che tale atto può comportare.

Finanziare chi viola i diritti umani in fondo è un Concorso esterno in associazione mostruosa. Quello che stiamo facendo dal 2017 con la Libia. O no?

Buon venerdì. 

L’articolo proviene da Left.it qui