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Disobbedire a Bruxelles costa caro: la Corte Ue multa l’Ungheria

Eccolo qui in purezza Viktor Orbán, una carriera politica basata su scontri, provocazioni e resistenze che sfidano apertamente l’Unione Europea. L’ultima sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea (ECJ) è solo un altro capitolo di questa saga: Budapest dovrà pagare 200 milioni di euro per non aver rispettato una decisione del 2020 riguardante il diritto d’asilo.

La sanzione aumenta di un milione di euro al giorno per ogni giorno di inadempienza. Una multa salatissima, ma anche un simbolo della tensione crescente tra il nazionalismo ungherese e il cuore pulsante dell’Europa unita.

La sentenza contro Orbán: l’Ungheria condannata a pagare 200 milioni dalla Corte Ue

Nel 2015, l’Ungheria ha eretto barriere fisiche e legali contro i migranti che cercavano rifugio attraversando la rotta balcanica. Le “zone di transito” al confine con la Serbia, descritte dalla Corte come prigioni, rappresentano uno dei punti più controversi. Qui, la richiesta d’asilo era più una chimera che una possibilità reale.

La politica di Orbán ha costruito un muro non solo di filo spinato, ma di norme draconiane, che respingono sommariamente chi cerca una speranza di protezione. La sentenza del 2020 della Corte di giustizia ha condannato queste pratiche, dichiarandole contrarie ai trattati europei. Eppure, Budapest ha scelto la strada dell’ostruzionismo, rifiutandosi di adeguarsi.

Orbán, fedele alla sua retorica nazionalista, ha bollato la decisione della Corte come “oltraggiosa e inaccettabile”, sostenendo che proteggere i confini dell’Europa giustifica ogni azione. Per lui, i “burocrati di Bruxelles” sono distanti e insensibili alle preoccupazioni dei cittadini europei, più preoccupati dei diritti dei migranti che della sicurezza interna.

La sentenza: l’Ungheria si è sottratta all’applicazione di una politica comune dell’Ue

L’Unione Europea ha reagito con fermezza. La nuova sanzione rappresenta non solo un tentativo di far rispettare le leggi comuni, ma anche un monito a tutti gli Stati membri che pensano di poter seguire percorsi unilaterali. “Sottrarsi deliberatamente all’applicazione di una politica comune dell’Unione europea costituisce una violazione di eccezionale gravità”, ha affermato la Corte, sottolineando come le azioni ungheresi minino il principio di solidarietà su cui si basa l’Unione.

Questa vicenda non è un’isola nel mare delle controversie tra Bruxelles e Budapest. L’Ungheria è stata più volte al centro di polemiche per l’indipendenza della magistratura, la libertà dei media e il rispetto dei diritti umani. Orbán ha costruito un sistema di governo che molti definiscono semi-autoritario, dove le voci critiche vengono sistematicamente silenziate e il potere concentrato nelle mani di pochi.

L’opposizione di Orbán al recente Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, che prevede un meccanismo di solidarietà obbligatorio tra gli Stati membri, è l’ennesimo atto di una politica di sfida. Budapest, insieme a Varsavia e Praga, ha già rifiutato di accogliere le quote di rifugiati previste dal programma europeo, attirandosi ulteriori condanne.

La politica di Budapest ha un costo anche politico: l’isolamento Ue dell’Ungheria

Ma il braccio di ferro ha un costo, e non solo economico. La posizione di Orbán rischia di isolare ulteriormente l’Ungheria all’interno dell’Unione, esacerbando le tensioni e riducendo la possibilità di dialogo costruttivo.

Mentre le sanzioni finanziarie si accumulano, la domanda che rimane sospesa è se il prezzo della disobbedienza, alla fine, sarà pagato dai cittadini ungheresi, intrappolati in un gioco di potere che li lascia sempre più distanti dall’Europa.

In questo clima di confronto, l’Ungheria di Orbán continua a rappresentare una sfida aperta al progetto europeo, un esperimento di sovranità che mette alla prova la capacità dell’Unione di mantenere coesione e solidarietà. E mentre le multe aumentano giorno dopo giorno, l’eco della disobbedienza ungherese risuona come un monito per il futuro dell’Europa stessa.

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La memoria è un valore anche su YouTube

“C’è in atto una volgare aggressione alla classe dirigente migliore della Democrazia cristiana in Sicilia. Il giornalismo mafioso che è stato fatto stasera fa più male alla Sicilia di dieci anni di delitti…”.

Il giovanotto urla tra il pubblico della puntata speciale di Samarcanda e del Maurizio Costanzo Show andata in onda il 26 settembre 1991 dal Teatro Parioli di Roma e dal Teatro Biondo di Palermo dopo il delitto di Libero Grassi. Sul palco, tra gli altri, ci sono anche il giudice Giovanni Falcone, Claudio Fava, Giovanni Impastato.

Lo spettatore è offeso perché la Democrazia cristiana sta uscendo molto male da quel dibattito su Cosa nostra in Sicilia. Non ci sarebbe niente di esclusivo se il protagonista non fosse Totò “vasa vasa” Cuffaro, presidente della Regione siciliana dal 17 luglio 2001 per il centrodestra e poi condannato definitivamente a sette anni di reclusione per favoreggiamento personale verso persone appartenenti a Cosa nostra e rivelazione di segreto istruttorio. A Cuffaro che quel video circoli ancora in rete non fa piacere. Qualche tempo fa per questo ha chiesto 250mila euro a YouTube colpevole a suo dire di non averlo rimosso.

Ieri il giudice della prima sezione civile del tribunale di Palermo Michele Guarnotta ha rigettato ogni richiesta dell’ex governatore siciliano sottolineando come la clip rimasta non abbia contenuti diffamatori e “non riporta alcuna affermazione offensiva limitandosi, invero, a riportare una circostanza oggettivamente reale quale la partecipazione del ricorrente alla celeberrima staffetta televisiva condotta da Santoro e Costanzo alla presenza del giudice Falcone”. La memoria del resto è un valore.

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Caporalato, Rosarno è… ancora alla frutta. Il rapporto Medici per i diritti umani tra irregolari e sfruttamento

Nella Piana di Gioia Tauro, un territorio fertile baciato dal sole della Calabria, di Rosarno, si consuma una realtà che stride con l’immagine bucolica di campi rigogliosi e contadini operosi. Dietro la facciata di un’agricoltura fiorente si nasconde una vergogna d’Italia: lo sfruttamento sistematico dei braccianti stranieri, uomini e donne che, provenienti da terre lontane in cerca di un futuro migliore, si ritrovano invischiati in una rete di caporalato e soprusi che li priva di ogni dignità.

Le giornate, scandite da un ritmo massacrante sotto il cielo cocente, sono dedicate alla raccolta di frutta e verdura per paghe irrisorie che oscillano tra i 3 e i 7 euro l’ora. Spesso senza contratto, senza tutele, senza diritti, lavorano sotto il sole cocente, piegati dalla fatica, esposti a pesticidi e prodotti chimici pericolosi senza adeguate misure di sicurezza.

Vittime di caporali senza scrupoli che lucrano sulla loro disperazione, pagandoli a cottimo e sfruttandoli senza pudore. Vivono in baracche fatiscenti, ammassati in condizioni igienico-sanitarie precarie, privi di acqua corrente e servizi igienici adeguati. L’isolamento sociale è pesante, accentuato dalla barriera linguistica e dalla diffidenza della popolazione locale.

Il razzismo e la discriminazione sono piaghe che avvelenano le loro vite, rendendoli ancora più vulnerabili allo sfruttamento. Le donne, ancora più esposte, subiscono spesso violenze e abusi, diventando vittime indifese di una doppia discriminazione.

Sfruttamento e caporalato: una piaga che non si estirpa

Eppure, tra tanta sofferenza, c’è anche un barlume di speranza. C’è chi lotta per la legalità e per il rispetto dei diritti umani, come le organizzazioni umanitarie che offrono assistenza ai braccianti, denunciano le ingiustizie e si battono per il loro riscatto.

C’è chi sogna un futuro migliore, chi cerca di integrarsi nella società italiana, chi vuole solo vivere dignitosamente del proprio lavoro. L’XI Rapporto dell’Osservatorio Rosarno di Medici per i Diritti Umani (MEDU), un’organizzazione umanitaria che opera nella Piana di Gioia Tauro dal 2008 fotografa una situazione di persistente precarietà per i braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro. I dati parlano di una realtà drammatica:

Oltre 2.500 braccianti, prevalentemente provenienti da Mali, Gambia e Ghana, lavorano nei campi della Piana. Solo il 15% ha un permesso di soggiorno regolare per lavoro subordinato o stagionale. Condizioni abitative fatiscenti: il 70% vive in baracche, il 20% in casolari abbandonati e il 10% in tende. Sfruttamento lavorativo diffuso: il 60% lavora senza contratto, il 35% è sottopagato e il 5% subisce minacce o violenze. Salute a rischio: il 40% soffre di malattie legate alle precarie condizioni di lavoro e di vita. Un’emergenza umanitaria che richiede un impegno concreto

A Rosarno condizioni di vita inumane e un isolamento sociale pesante

La Piana di Gioia Tauro è un abisso che non può essere più ignorato. Per MEDU le istituzioni devono fare di più per tutelare questi lavoratori invisibili, per estirpare il caporalato e garantire condizioni di vita e di lavoro decenti.

Per questo l’associazione chiede alle istituzioni di intervenire con misure concrete e decise per tutelare i diritti dei braccianti stranieri e garantire loro condizioni di vita e di lavoro dignitose: regolarizzare il lavoro e contrastare il caporalato con pene più severe e controlli più efficaci; migliorare le condizioni abitative, garantendo l’accesso ad acqua potabile, servizi igienici adeguati e alloggi sicuri; tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, fornendo loro adeguate misure di protezione e accesso alle cure mediche e infine promuovere l’integrazione sociale e contrastare la discriminazione attraverso percorsi di mediazione linguistica e culturale.

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I vestiti nuovi dei sette imperatori

Il 7 grandi del mondo, si fanno chiamare così, si sono ritrovati in Puglia. In rete circola l’inquietante video di un enorme elicottero che atterra nei pressi di un incrocio a Sevelletri, marina di Fasano. Si appoggia su uno degli eliporti dichiarati “pronti” nella smania di grandezza. È un piazzale di terra polverosa sollevata dalle pale c he si appiccica sui muri delle abitazioni lì di fianco sotto lo sguardo incredulo dei passanti.

Giorgia Meloni è arrivata con una 500 d’epoca decappottabile. Ha preparato uno sketch comico per ogni accoglienza di leader straniero. I giornali hanno dedicato un pezzo a ognuna. La scena della presidente del Consiglio che si fa un selfie con i fotografi e i cameraman in attesa del presidente Usa Joe Biden («vi taggo tutti?») è stata ritenuta primaria e quindi campeggia nelle pagine internet e cartacee. 

Viene facile pensare che i 7 grandi affrontino grandi temi, a giustificazione della magnificenza apparecchiata. Qualche ora s’è persa per sgridare Giorgia Meloni, quando le telecamere erano lontane, che ha voluto condire il summit dei grandi mentre infuria la terza guerra mondiale a pezzi con una spolverata antiabortista degna al massimo di una colazione con Orbàn. Meloni si è potuta esercitare quindi nella sua migliore virtù di governante, opporsi a qualcuno, in questo caso Macron, tanto per ridimensionare da subito il livello del dibattito. 

Nelle stesse ore l’Unicef scriveva che nelle prossime settimane altri tremila bambini moriranno di fame nel sud di Gaza. Per quello non si è trovato spazio in pagina. 

Buon venerdì. 

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Lo stalker finisce agli arresti. Ma solo dopo un articolo

Un quarantenne di Aprilia due anni fa si è mostrificato in stalker nei confronti di una donna che era la sua ex compagna e che è madre di quattro figli. La donna per provare a difendersi ha presentato trenta denunce, una in fila all’altra. Una sequela di foto, video, messaggi e testimonianze presentate alle forze dell’ordine. Trenta denunce che non hanno smosso un divieto di avvicinamento, un arresto per seriali, una messa in sicurezza per la donna e i suoi figli.

La donna per provare a difendersi ha presentato trenta denunce, una in fila all’altra

In un’intervista all’edizione romana del Corriere della sera la donna racconta delle volte in cui le aggressioni sono accadute in pubblico, perfino di fronte alle forze dell’ordine lui le ha gridato “infame ti ammazzo!”. Entrando da una finestra rotta e sfasciando ogni casa nell’abitazione di lei. “Erano le 9,30 di mattina e aveva bevuto. Accade spesso. Ho tentato di fronteggiare la situazione. Ma tutto questo ha un costo in termini psicologici”, racconta la donna alla giornalista Ilaria Sacchettoni. Le carte sono rimaste ferme per mesi.

Non si è pensato nemmeno di fare scattare il codice rosso, le misure studiate proprio per tutelare le vittime di stalking. La donna nell’intervista dice: “Non voglio pensare che in Italia la legge funzioni solo se si è potenti ma temo che ai comuni mortali resti solo la speranza di non essere uccisi dal proprio carnefice”. Del resto qui da noi di femminicidi si discute solo con la vittima per terra. L’articolo esce in edicola e poco dopo l’uomo viene arrestato, anche in considerazione dei suoi precedenti penali. Rimane un terribile dubbio: sarà solo una coincidenza

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Dalla rissa alla Camera al G7, Non c’è mai fine al peggio

Se avete ottimisticamente pensato che l’aggressione dell’altro ieri alla Camera nei confronti di un deputato a suon di pugni e calci fosse un isolato episodio provocato da un eccesso di nervosismo vi sbagliate. Ieri è andata in onda la seconda puntata.

Si è scoperto, ad esempio, che nei verbali di Montecitorio quell’indegna scena del giorno precedente era stata derubricata a semplici “disordini”, tra l’altro da una maggioranza che solitamente vede terroristi e violenti dappertutto tra giovani e attivisti e invece diventa docile quando si tratta di censurare gli amici degli amici.

Il vice del ministro Salvini, Andrea Crippa, ha spiegato ai giornalisti che cantare “Bella ciao” è un “gestaccio più che mostrare il gesto della XMas”, facendo confusione sulla storia prima ancora che sulla Costituzione. Nel frattempo in Senato la presidente di turno, la forzista Licia Ronzulli, ha dovuto sospendere per ben due volte la seduta perché i patrioti della maggioranza impazziscono di fronte alle bandiere tricolori esposte dall’opposizione.

Il presidente del Senato Ignazio Maria Benito La Russa si lamenta che mentre c’è il G7 “stiamo dando un’immagine peggiore di quella che diamo normalmente”. Non si preoccupi troppo. A livello internazionale a tenere basso il livello ci ha dato una mano la presidente del Consiglio con le sue faccine da sitcom mentre i grandi della terra la beccavano a nascondere i diritti delle donne sotto il tappeto.

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Il grido di dolore della sanità pubblica: appello dei medici di tutti gli operatori a difesa del Servizio sanitario nazionale

Una piazza gremita di camici bianchi ha riempito un grande teatro capitolino lo scorso fine settimana. Un esercito di donne e uomini appartenenti a tutte le categorie della sanità pubblica si è dato appuntamento per gridare la propria rabbia e rivendicare il diritto alla salute sancito dalla Carta Costituzionale.

Medici, veterinari, farmacisti, psicologi, biologi, chimici, infermieri, tecnici, amministrativi e operatori hanno sottoscritto una “piattaforma in difesa del Servizio Sanitario Nazionale”, un atto di accusa contro le politiche che negli ultimi 25 anni hanno depauperato il sistema pubblico a vantaggio dei privati.

Una piattaforma unitaria contro la svendita del patrimonio pubblico e le diseguaglianze

L’urlo è stato lanciato da Michele Vannini, segretario della Funzione Pubblica Cgil: “Un’iniziativa unica perché finalmente tutte le sigle sindacali si riuniscono, senza egoismi corporativi, per salvare la dimensione pubblica e universale del Ssn”. Andrea Filippi, responsabile medici Fp Cgil, ha rincarato la dose: “Solo rimanendo uniti e coinvolgendo i cittadini potremo rovesciare le scelte sbagliate che violano l’articolo 32”.

La piattaforma punta il dito contro due piaghe che rischiano di far deflagrare il sistema sanitario nazionale. La prima è il tentativo di svendere al privato il patrimonio di competenze e umanità che dovrebbe restare appannaggio dello Stato. L’altra è l’inaccettabile verità che in Italia 6 milioni di persone, pur avendo un lavoro, sono tagliate fuori dalle cure a causa della povertà e delle diseguaglianze territoriali acuite dal progetto di autonomia differenziata.

“Serve una riorganizzazione del Ssn universale e uniforme in tutto il Paese – tuona Vannini – L’autonomia differenziata è la miccia che rischia di far esplodere il sistema, una mina da disinnescare con tempestività”. Una riforma che poggi su quattro cardini: un sistema totalmente pubblico, integrato tra territorio e ospedali, multiprofessionale con team di diverse specialità, e soprattutto governato per porre fine alla frammentazione dei contratti atipici che genera inefficienze.

Il presupposto però è un adeguato finanziamento pubblico. Dicono i saggi che le nozze con i fichi secchi non si possono celebrare. Quella italiana è la sanità più povera d’Europa. La media dei paesi Ue, infatti, destina alla sanità pubblica il 7,5% del Pil, Francia e Germania molto di più, quasi il doppio dell’Italia che è al 6,5% ma che nel giro di due anni scenderà al 6,2%.

Ed allora la richiesta è netta: “finanziamento strutturale del Sns, a partire dal personale, contestando il principio strettamente economicistico e tendenzioso che il personale in sanità sia un costo invece che un investimento”. “Chiediamo al governo di ascoltare i lavoratori che chiedono solo servizi efficienti e stipendi dignitosi, non di risparmiare ancora sulla loro pelle”.

Un finanziamento adeguato è il pre-requisito per salvare la sanità pubblica

Gli obiettivi della piattaforma sono chiari: abolire davvero il tetto di spesa per il personale, stop ai gettonisti e alle cooperative, assunzioni stabili e dignitose, valorizzazione del lavoro con adeguati rinnovi contrattuali. “La sola strada – ammonisce Filippi – è chiedere ai cittadini di unirsi a noi per ricostruire una sanità di prossimità basata sulla solidarietà, non sui profitti dei privati che ci stanno privando del diritto alla salute”.

Un grido di dolore che si leva dalla maggiore azienda pubblica italiana, quel Servizio Sanitario Nazionale istituito 45 anni fa da una grande mobilitazione popolare e che ora rischia di essere smantellato dai profittatori della rottamazione dello Stato Sociale. Un appello pressante alla cittadinanza affinché si ricompatti attorno ai suoi angeli custodi per difendere il bene più prezioso: il diritto alle cure, un valore che non può avere un prezzo di mercato.

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Minori stranieri non accompagnati, l’Agenzia Onu per i rifugiati: il 40% dei profughi nel mondo ha meno di 18 anni

Sono oltre 21mila i minori stranieri non accompagnati (Msna) attualmente presenti in Italia: bambini e giovani che, proprio per la loro condizione di estrema vulnerabilità, necessitano di tutele specifiche nell’accoglienza e percorsi di integrazione rispettosi dei loro diritti fondamentali. Un numero elevato, che ha toccato picchi ancora più alti nei mesi scorsi, frutto delle crisi geopolitiche in corso e dei crescenti flussi migratori che coinvolgono un’ampia fetta della popolazione minorile globale.

Secondo l’Unhcr, l’Agenzia Onu per i rifugiati, il 40% dei profughi nel mondo ha meno di 18 anni. Si tratta di milioni di minori costretti a fuggire dai propri paesi d’origine, spesso senza l’accompagnamento di figure genitoriali o di riferimento, condizione che li espone a rischi ulteriori nel percorso migratorio e nell’arrivo in terre straniere. Un fenomeno che richiede un approccio attento e capillare nell’accoglienza e nell’integrazione di questi giovanissimi migranti.

Il 40% dei profughi nel mondo ha meno di 18 anni. In Italia sono soprattutto egiziani e ucraini

In Italia, al 30 aprile 2024, i Msna censiti erano 21.255, con una prevalenza di minori egiziani (4.121, pari al 19,4%) e ucraini (3.920, il 18,4%). Rispetto all’anno precedente, si registra un calo di queste due nazionalità, a fronte di un aumento significativo di minori provenienti da Tunisia (+24%) e Gambia (+129%). Un trend in evoluzione, legato alle diverse crisi umanitarie che attraversano il pianeta.

L’accoglienza e l’integrazione dei Msna rappresentano una sfida cruciale per il nostro Paese, che richiede un modello diffuso e adeguate tutele. Come sottolineato dall’Unhcr in un’audizione al Comitato Schengen, l’accoglienza in strutture residenziali o istituti dovrebbe essere l’ultima risorsa, da limitare al minor tempo possibile, favorendo invece soluzioni alternative come l’accoglienza in famiglia. Attualmente, solo il 20% dei Msna in Italia è accolto presso soggetti privati, mentre l’80% si trova in strutture di accoglienza, di cui il 27% in centri di prima accoglienza e il 53% nella seconda accoglienza.

Un sistema carente

Il sistema di accoglienza e integrazione (Sai), diffuso sul territorio e gestito da comuni ed enti locali, rappresenta il modello preferibile per l’inserimento dei Msna, garantendo percorsi di crescita e di inclusione sociale ed economica. Eppure, alla fine del 2022, i posti disponibili nel Sai per i minori non accompagnati erano solo 6.347, un numero insufficiente rispetto al fabbisogno attuale e prospettico.

La distribuzione di questi posti sul territorio nazionale appare inoltre squilibrata, con una maggiore concentrazione al Centro-Sud rispetto al Centro-Nord. Tra i comuni con più posti Sai per Msna spiccano Milano (410), Bologna (350), Catania (267) e Palermo (200), seguite da Genova, Firenze, Torino, Marsala, Bari, Padula e Cremona, con meno di 200 posti ciascuna. Negli altri 196 comuni con progetti Sai per Msna, i posti disponibili sono inferiori a 100 per ognuno.

La situazione attuale evidenzia la necessità di un rafforzamento delle politiche di accoglienza e integrazione dei minori stranieri non accompagnati, ampliando la capienza del sistema Sai e favorendo una distribuzione più equa sul territorio nazionale. Allo stesso tempo, è fondamentale promuovere l’accoglienza in famiglia, soluzione preferibile per garantire ai Msna un percorso di crescita sano e tutelato, nel rispetto dei loro diritti e del loro superiore interesse.

Un impegno cruciale per un Paese come l’Italia, crocevia di flussi migratori sempre più consistenti e contraddistinti da una presenza massiccia di minori soli, costretti ad affrontare viaggi e percorsi di vita estremamente pericolosi. Un’emergenza umanitaria che richiede risposte concrete e un modello di accoglienza diffuso, in grado di offrire a questi giovanissimi migranti un futuro di integrazione e opportunità, nel pieno rispetto della loro dignità umana. Al di là della propaganda.

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Il costo climatico della guerra in Ucraina: pari alle emissioni di gas serra di 175 Paesi in un anno

L’invasione russa dell’Ucraina non si limita a seminare distruzione e morte. La devastazione causata ha un impatto climatico enorme, superiore alle emissioni annuali di gas serra di 175 paesi. Questa è la tragica conclusione del più completo studio mai condotto sugli effetti climatici di un conflitto, guidato da Iniziativa sulla Contabilità dei Gas Serra della Guerra (IGGAW).

In soli due anni, il conflitto ha generato almeno 175 milioni tonnellate di anidride carbonica equivalente (tCo2e), si legge sul Guardian. Questo comprende emissioni derivanti dalla guerra diretta, incendi paesaggistici, voli reindirizzati, migrazioni forzate e la distruzione di infrastrutture energetiche. L’impatto è comparabile alle emissioni annuali di paesi come Paesi Bassi, Venezuela e Kuwait. Il metano liberato nell’oceano dalla distruzione dei gasdotti Nord Stream 2 ha aggiunto 14 milioni di tCo2e, mentre l’esafluoruro di zolfo, un gas serra potentissimo, ha aumentato il conteggio di ulteriori 40 tonnellate.

L’impatto devastante delle emissioni di guerra in Ucraina

La ricostruzione, necessaria per riparare le infrastrutture distrutte, aggiungerà un ulteriore peso ambientale. Si prevede che il processo richiederà enormi quantità di acciaio e cemento, materiali ad alta intensità di carbonio, aggravando ulteriormente l’emergenza climatica. Alcune ricostruzioni sono già state avviate, ma in molti casi le strutture sostituite sono state nuovamente distrutte, rendendo il ciclo di ricostruzione una fonte continua di emissioni. L’analisi del IGGAW stima che la Russia debba affrontare un disegno di riparazione climatica da 32 miliardi di dollari per i primi 24 mesi di guerra. Questo calcolo si basa su un costo sociale del carbonio di 185 dollari per tonnellata di emissioni di gas serra. La Comunità internazionale, guidata dalle Nazioni Unite, preme affinché la Russia risarcisca l’Ucraina, includendo le emissioni climatiche nei registri dei danni.

Il conflitto ha anche esacerbato le emissioni globali con l’aumento dei voli deviati e la migrazione forzata di milioni di persone. Le miglia extra percorse dagli aerei commerciali e lo spostamento di 7 milioni di ucraini e russi hanno generato ulteriori 24 milioni di tCo2e. Le compagnie aeree europee e americane, bandite dallo spazio aereo russo, sono costrette a percorrere rotte più lunghe, aumentando significativamente il loro consumo di carburante. “La Russia non sta solo danneggiando l’Ucraina, ma anche il nostro clima”, ha affermato Lennard de Klerk di IGGAW. Le emissioni militari globali sono già considerevoli, rappresentando il 5,5% delle emissioni totali annue, una cifra superiore a quelle del settore dell’aviazione e della navigazione combinati. Tuttavia, la mancanza di trasparenza e dati accurati ostacola una piena comprensione dell’impatto.

Il debito climatico della Russia: 32 miliardi di dollari

Uno degli aspetti più allarmanti del rapporto è l’aumento degli incendi paesaggistici, che hanno devastato campi e foreste lungo il confine. Questi incendi, collegati direttamente alle attività militari, hanno rappresentato il 13% del costo totale del carbonio. La ridistribuzione di forestali, vigili del fuoco e attrezzature ha ulteriormente aggravato la situazione, con piccoli incendi che sono sfuggiti al controllo in tutto il paese. La Russia ha deliberatamente preso di mira le infrastrutture energetiche ucraine, generando enormi perdite di potenti gas serra. Il metano rilasciato nell’oceano dopo la distruzione dei gasdotti Nord Stream 2 ha avuto un impatto devastante, mentre si stima che altre 40 tonnellate di SF6 (equivalenti a circa 1 milione di tonnellate di CO2) siano state rilasciate nell’atmosfera a causa degli attacchi russi sulle strutture di rete ad alta tensione dell’Ucraina. L’SF6 è utilizzato per isolare le apparecchiature elettriche e ha un potenziale di riscaldamento quasi 23.000 volte superiore a quello dell’anidride carbonica.

Il movimento forzato di persone, sia per sfuggire agli orrori della guerra che alla coscrizione, ha generato ulteriori emissioni. Oltre 5 milioni di ucraini hanno cercato rifugio in Europa, mentre milioni di sfollati interni e russi in fuga dalla Russia hanno ulteriormente contribuito al bilancio di 3,3 milioni di tCo2e. “La nuova stima monetaria dei danni climatici evidenzia l’importante ruolo delle emissioni di gas a effetto serra che tengono conto dei conflitti”, ha affermato Linsey Cottrell, responsabile della politica ambientale presso l’Osservatorio sui conflitti e l’ambiente. “Abbiamo un fondamentale accordo internazionale su come vengono misurati e affrontati i conflitti e le emissioni militari”.

Il peso della ricostruzione dell’Ucraina sul clima

Il rapporto dell’IGGAW rappresenta un documento cruciale, fornendo una chiara istantanea delle conseguenze climatiche della guerra, sollevando il velo che oscura i costi ambientali del conflitto. “È un punto di riferimento essenziale per le riparazioni che stiamo costruendo contro la Russia”, ha dichiarato Ruslan Strilets, ministro della protezione ambientale dell’Ucraina.In sintesi, mentre i governi continuano a sottovalutare il costo climatico della guerra, il rapporto di IGGAW rappresenta un passo importante verso la consapevolezza e la responsabilizzazione globale per i danni ambientali causati dai conflitti. La sfida ora è tradurre questa consapevolezza in azioni concrete per mitigare l’impatto devastante sul nostro pianeta.

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Squadrismo parlamentare

Dunque ricapitolando ieri alla Camera dei deputati è accaduto che il presidente della Camera, il leghista Lorenzo Fontana, abbia espulso un suo compagno di partito, il deputato Domenico Furgiuele, che ha evocato la Decima Mas. “A X Factor facevano la X per dire no, posso fare quello che voglio?”, ha detto Furgiuele parlando con i giornalisti, a proposito di spessore politico. “Alla provocazione si è risposto con un gesto che non poteva non essere provocatorio, in un contesto nel quale la voce di chi cantava era più alta”, ha spiegato. La “provocazione” di cui parla il leghista erano le opposizioni che cantavano “Bella ciao”. Per dire. 

Poi è accaduto che il deputato di Fratelli d’Italia Marco Padovani sia intervenuto in Aula a ricordare la figura di Stefano Bertacco, “figura storica e significativa della destra veronese”, concludendo con la fascista formula “Stefano Bertacco presente!”. Seduta sospesa.

Poi è accaduto che un parlamentare dell’opposizione, Leonardo Donno del Movimento 5 stelle, sia stato assalito con pugni e calci da deputati della maggioranza. Il dem Andrea Orlando scrive che Donno è stato “aggredito e preso a pugni, e mentre è a terra colpito da calci dai deputati della Lega e di Fratelli d’Italia”. “Tutto è nato da un gesto provocatorio e oltraggioso di Donno”, spiega Federico Mollicone (Fratelli d’Italia). La provocazione? Dare al ministro Calderoli una bandiera dell’Italia che il ministro ha sdegnosamente rifiutato. “Squadrismo parlamentare”, dicono da Alleanza verdi sinistra. Sono 100 anni dall’omicidio fascista di Giacomo Matteotti. 

Buon giovedì. 

 

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