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Le spese militari aumentano, quelle per la Cooperazione internazionale no

Quanto gli Stati del mondo credano nella cooperazione in un mondo affollato dalle guerre lo dicono i numeri: mentre l’instabilità internazionale cresce e si sprecano promesse di aiuti umanitari la cooperazione internazionale ristagna indifferente. È quanto emerge dai dati preliminari rilasciati dall’Ocse.

Oltre all’Italia che ha registrato un peggioramento piuttosto marcato (l’aiuto pubblico alla sviluppo globale si è ridotto del 15,5%) i paesi Ocse Dac mostrano nei numeri un evidente rallentamento. 

I numeri della Cooperazione internazionale

Come analizza Openpolis generalmente l’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps) è rimasto inalterato rispetto al 2022. Nonostante un trascurabile aumento in termini assoluti (+1,8%), in rapporto al reddito nazionale lordo (Rnl) non ha subito alcuna variazione, rimanendo fermo allo 0,37%.

Una percentuale ancora lontana dall’obiettivo dello 0,70% stabilito dall’Agenda Onu per il 2030. I costi per rifugiati nei paesi donatori, la principale voce del cosiddetto aiuto gonfiato, sono invece diminuiti del 6,2%, rimanendo tuttavia una componente molto significativa dell’Aps totale (13,8%).

Il rapporto tra Aps e Rnl attualmente allo 0,37% dovrà  raddoppiare per raggiungere l’obiettivo, stabilito dall’agenda per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni unite, dello 0,70% entro il 2030. A oggi solo 5 Paesi hanno superato la soglia (Norvegia, Lussemburgo, Svezia, Germania e Danimarca) su 31.

Nella classifica l’Italia mantiene quest’anno il 21esimo posto, davanti agli Usa che registrano un bassissimo 0,24% di aiuto pubblico allo sviluppo rispetto al Rnl. 

I dai dati preliminari Ocse relativi al 2023

In 17 paesi, Italia inclusa, l’Aps è diminuito. Questo è stato evidente – spiega Openpolis -, in particolare, in alcuni paesi dell’Europa centro-orientale. In Estonia, Polonia e Repubblica Ceca il calo è stato pari a oltre un terzo (superando, in Estonia, il 50%).

In questi paesi è stato forte il calo delle risorse destinate alla voce di spesa “rifugiati nel paese donatore”, strettamente legato, a est del continente, all’assistenza di persone fuggite dalla guerra in Ucraina.

Parallelamente l’aiuto bilaterale nei confronti dell’Ucraina, incluso l’aiuto umanitario, non è affatto diminuito. Tra il 2022 e 2023 è aumentato del 9% in termini reali, sfiorando i 20 miliardi di dollari (quasi il 60% dei quali donati dagli Stati Uniti). Nel 2023 l’aiuto bilaterale destinato all’Ucraina rappresentava il 9% di tutto l’Aps dei paesi Ocse Dac (mentre nel 2022 era stato dell’8,3%).

In Canada e Lituania la quota ha superato il 20%. A questo importo vanno poi aggiunti altri 20,5 miliardi di dollari delle istituzioni europee, erogati principalmente in forma di prestiti concessionali destinati al sostegno della stabilità finanziaria del paese. Nell’ambito delle risorse europee invece l’aiuto umanitario si è limitato a 443 milioni di dollari.

La dinamica degli aiuti bilaterali nei Paesi Ocse Dac

Complessivamente nei paesi Ocse Dac a diminuire è stato l’aiuto bilaterale (da paese donatore a paese ricevente), passato da 14,45 a 13,51 miliardi di dollari a prezzi costanti (-6,5%). Mentre è aumentato leggermente quello multilaterale, ovvero destinato a organizzazioni specializzate in cooperazione,  che ha registrato un +4,8%, passando da meno di 50 a oltre 52 miliardi.

Nel bilancio dell’aiuto bilaterale ci sono i famosi “costi per i rifugiati nel paese donatore, che molte organizzazioni considerano un aiuto “gonfiato” che di fatto non contribuisce al bilancio di nessun paese in via di sviluppo. Tra i paesi con le quote più elevate di aiuto gonfiato figurano diversi stati dell’Europa orientale, in particolare Repubblica Ceca (prima, con il 52,7%), Estonia e Polonia, che pure come abbiamo visto hanno registrato un calo dell’aiuto per i rifugiati rispetto al 2022. Ma anche Irlanda (52,3%) e Svizzera (28,3%). L’Italia è al settimo posto, con il 26,8%.

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Nella campagna elettorale per le Europee l’Europa non si è vista – Lettera43

Politiche agricole, Green Deal, energia, balneari? Tutto dimenticato. Nella battaglia per Bruxelles la politica provinciale si è limitata a dibattere sui tappi nel naso, sullo scontro tra le leader dei due maggiori partiti, e sulle provocazioni di un generale candidato da un capitano. Poi non lamentatevi dell’astensionismo.

Nella campagna elettorale per le Europee l’Europa non si è vista

Veloce e naturalmente incompleto quadro dello stato di fatto della campagna elettorale per le prossime elezioni Europee, a una settimana da un travaso di voti che potrebbe squinternare l’Ue e renderci tutti trumpiani proprio mentre Trump affonda di fronte alla giustizia (ma non è detto che non si alzi nei sondaggi).

La protesta dei trattori e le politiche agricole sono finite nel dimenticatoio

Qualche mese fa, anche se sembra passato un secolo, tutti i partiti italiani erano convinti che l’agricoltura fosse il grande tema della campagna elettorale. Erano i giorni in cui la protesta dei trattori infiammava l’Italia e le piazze dei Paesi Ue trascinandosi dietro gli inevitabili rivoluzionari sempre all’erta che non vedono l’ora di impugnare il forcone. Di botto i giornali italiani e le trasmissioni di approfondimento hanno studiato le ragioni della protesta mettendo in bella vista il decalogo di “ciò che funziona” e “ciò che non funziona” sugli agricoltori in Europa. L’urgenza di quei giorni era ammansire i rivoltosi, studiare delle correzioni in corso ma avresti scommesso che finalmente le politiche agricole sarebbero diventate un croccante argomento pop in campagna elettorale. Finalmente si parla di Europa, insomma. Niente di tutto questo. L’attenzione dei media si è spenta con i roghi e qui fuori non è rimasto nemmeno il fumo.

Nella campagna elettorale per le Europee l'Europa non si è vista
La protesta dei trattori sulle strade italiane (Getty Images).

Il Green Deal sacrificato da von der Leyen sull’altare del sostegno a destra 

Stesso discorso per il benedetto Green Deal, altresì detto transizione ecologica negli italici confini. Ursula von der Leyen fino qualche mese fa, anche se sembra passato un secolo, lo sfoggiava come risultato politico fondamentale di questa legislatura europea. Non ci si poteva fregiare di una postura progressista senza un alito di Green Deal addosso. Poi è accaduto che la presidente della Commissione Ue ha avuto bisogno delle destre, quelle destre che strillano e pestano i piedi per il diritto al motore termico che vorrebbero inserire nella Costituzione e ci si sarebbe aspettati che nelle settimane di campagna elettorale avremmo potuto goderci i nostri leader di partito spiegarci come transitare ecologicamente, con quali mezzi, con quali carburanti, a quali costi. Saremmo stati disposti anche a una dura e franca disfida sull’energia nucleare pur di scrollarci di dosso questo sculettamento provinciale con cui affrontiamo in Italia qualsiasi sfida globale, dalle guerre al clima che cambia e addirittura muore. Niente di tutto questo. La transizione ecologica dalle nostre parti è la zuffa tra mitomani che temono di essere ingozzati con la forza a manciate di grilli secchi e sostenitori del nucleare di nuova generazione che non si capisce a che generazione si riferiscano.

Nella campagna elettorale per le Europee l'Europa non si è vista
Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen (Getty Images).

Balneari? Resta solo la tattica del rinvio

Da anni ci torturiamo con la messa a gara degli stabilimenti balneari. Ogni anno, più o meno in questo periodo, dipende dalla quantità di caldo o pioggia, veniamo bombardati dal frignio di imprenditori che lamentano un’Europa assassina spalleggiati da partiti che si prestano a esserne le prefiche. Ci saremmo aspettati che la campagna elettorale per la prossima Europa fosse l’occasione per dirci quale sia la strategia, al di là del rimandare, e per alfabetizzarsi sulle direttive europee che ci appaiono sempre inutili e lontane finché non ci cadono addosso. Niente di tutto questo. Delle spiagge ci resta solo il terrore di vederle protagoniste dei bagordi di qualche ministro.

La campagna si è ridotta a tappi nelle narici e alle provocazioni di un generale

La campagna elettorale per le Europee finora è stata un attorcigliamento su confronto tra le due leader dei due più grandi partiti d’Italia che dovrebbe essere quasi quotidiano in una normale e democratica repubblica televisiva come la nostra. Di questa campagna elettorale ci rimane finora un generale candidato da un capitano che rincorre la provocazione più cretina per fare capolino. Provocazioni europee? Ma magari. Si discute di colori delle persone, delle loro inclinazioni affettive, delle loro abitudini sessuali. Talmente provinciali da avere ridotto l’Unione europea a una questione di letto. La campagna elettorale delle Europee è rimasta sintonizzata per quasi tre giorni sul tappo delle bottiglie di plastica che si incastra nelle narici. Poi si è spostata, anche se per poco, sulle dichiarazioni di un candidato sulla guerra. Fermi tutti, non gioite. Non è stata discussione larga e complessa sul ruolo scarso dell’Europa nei conflitti internazionali in corso. No, no. Si è detto e scritto solo per sistemare le beghe tra partiti. Migliaia di vittime civili usate come roncola per redimere questioni di vicinato. Il 10 giugno a urne chiuse i pensosi commentatori affiancheranno i pensosi leader di partito per dirsi preoccupati in coro alla luce dei dati dell’astensionismo. «Dobbiamo avvicinare la politica alla gente perché comprenda quanto l’Ue sia centrale nelle nostre vite», diranno. Qualcosa del genere. Fra cinque anni.

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Comizio di Giorgia a Roma: “Qui si fa la storia”. Rivendica i successi del governo e sfida Schlein

“Presidente De Luca, sono quella stronza della Meloni“. Così dagli altoparlanti di Piazza del Popolo, dove Fratelli d’Italia ha organizzato l’evento di chiusura della campagna elettorale, riecheggia il saluto polemico tra la premier Giorgia Meloni e il governatore campano Vincenzo De Luca, avvenuto a Caivano. La platea dei sostenitori di FdI reagisce immediatamente. Dal palco, Meloni si scaglia contro De Luca: “Una donna insultata deve reagire o sottomettersi? Vale solo perché io sono una donna di destra e lui un uomo di sinistra”. Rivendica con orgoglio la sua capacità di difendersi, parlando di parità e orgoglio femminile. L’evento inizia con l’intervento dei sindaci e si infiamma con la presenza di Ignazio La Russa, presidente del Senato, che saluta Meloni con un cinque, dichiarando: “Oggi è la giornata di Giorgia”. Presenti anche la sorella della premier, Arianna Meloni, Giovanni Donzelli, e vari ministri come Carlo Nordio, Francesco Lollobrigida, e Gennaro Sangiuliano, oltre a numerosi parlamentari.

Nel suo discorso Meloni parla di un referendum tra “l’Europa ideologica” della sinistra e “la nostra Europa concreta e fiera”. Sottolinea la necessità di un’Europa che non sia una “sovrastruttura” burocratica. Attacca la sinistra, accusandola di voler trasformare l’Europa in un’entità che riduce le nazioni a “piccoli enti senza dignità”. Esorta gli italiani a votare, affermando: “Qui si fa la storia e la storia possiamo essere noi. Siamo ad un punto di svolta. È un referendum”. La presidente del Consiglio difende il contatto diretto con il popolo e critica la rabbia degli avversari. Promette che il loro motore sarà “sempre l’amore e non l’odio, costruire e non distruggere”. Parla poi della coesione della maggioranza, abbracciando simbolicamente Salvini e Tajani, e assicurando che il loro obiettivo è cambiare l’Italia “mattone dopo mattone”. Rivendica la necessità del premierato, considerandolo la “madre di tutte le riforme”. Attacca la sinistra per essere contraria alle riforme e voler continuare i “giochi di palazzo”. Accusa il Pd di essere democratico solo quando comanda. Critica il Movimento 5 Stelle, accusandoli di autoritarismo per voler dare ai cittadini il potere di eleggere il premier. Promette che l’Italia non andrà più “con il piattino in mano” in Europa, dichiarando chiusa quella stagione. Sfida la segretaria dem, Elly Schlein, a prendere posizione sulle affermazioni del candidato socialista Schmit, che ha definito i conservatori europei come una forza non democratica. Riguardo all’Europa, Meloni dichiara: “Abbiamo vinto lo scudetto, ora dobbiamo vincere la Champions League”, sostenendo che una maggioranza di destra in Europa non è lontana e che la destra vuole un’Europa basata sulla giustizia sociale e sull’innovazione.

Meloni: “Qui si fa la storia”. Schlein risponde da Milano. Tensione a Milano con Salvini e Vannacci

Contemporaneamente, a Milano, Elly Schlein chiude la campagna elettorale del PD all’Arco della Pace, accusando Meloni di vedere “un altro Paese” e di cancellare la libertà delle persone. Parla della necessità di una sanità pubblica più forte e dell’inclusione sociale, attaccando il governo per le sue scelte economiche e sociali. Critica l’alleanza di Meloni e b con partiti europei che hanno votato contro il Next Generation EU. Nel frattempo, a Milano, la chiusura della campagna elettorale della Lega con Matteo Salvini e il generale Roberto b è segnata da momenti di tensione tra giovani antagonisti e forze dell’ordine. Salvini ribadisce l’unità del centrodestra e la sua visione di un’Europa più sovrana, mentre Vannacci promette di sabotare iniziative contrarie alle tradizioni italiane. Salvini chiude il suo discorso ringraziando b e promettendo che la Lega sarà la “più bella sorpresa delle Elezioni Europee”. Con questa chiusura infuocata delle campagne elettorali, l’Italia si avvicina a un momento cruciale di scelta, tra visioni contrapposte di futuro europeo e nazionale.

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Decreto flussi: stranieri in ingresso sei volte più delle quote. E solo il 23,5% ottiene un permesso di soggiorno regolare

Nel 2023, le domande di ingresso per lavoro sono state sei volte superiori rispetto alle quote fissate dal governo, con solo il 23,52% delle quote trasformate poi in permessi di soggiorno e impieghi stabili e regolari. La percentuale di permessi rilasciati è significativamente inferiore rispetto al 2022, quando il tasso di successo era del 35,32%, ma con un numero di quote inferiore. Questi dati emergono dal dossier “I veri numeri del decreto flussi: un sistema che continua a creare irregolarità” della campagna Ero Straniero, che monitora il sistema di ingresso per lavoratori dall’estero.

La campagna Ero Straniero rileva che il sistema, nonostante le procedure semplificate, rimane rigido e complesso, risultando insufficiente rispetto alle richieste del mondo produttivo e mantenendo criticità profonde che generano irregolarità e precarietà. L’analisi si basa sui dati dei decreti flussi del 2022 e 2023, ottenuti tramite accesso civico ai ministeri dell’Interno, degli Affari Esteri e del Lavoro e Politiche Sociali. Il report è disponibile sul sito della campagna ed è stato presentato al Senato da vari rappresentanti di associazioni e accademici.

Nel 2023, le domande pervenute nei “click day” sono state 462.422 contro 82.705 posti disponibili. Nel 2022, le domande erano 209.839 rispetto a 69.700 posti. Queste domande extra-quota rappresentano lavoratori che sarebbero entrati regolarmente e in sicurezza, senza altre modalità per lavorare in Italia. Inoltre, molte quote non vengono utilizzate: nel 2022, solo 55.084 nulla osta su 69.700 quote disponibili sono stati rilasciati, pari al 79,03%.

Domande sproporzionate e quote insufficienti, procedure lente e macchinose e migliaia di persone a rischio irregolarità: i risultati del dossier della campagna “Ero straniero” sul decreto flussi

Altro passaggio critico è il rilascio dei visti per l’ingresso. Al 31 gennaio 2024, su 74.105 ingressi previsti per il 2023, sono stati rilasciati 57.967 visti e rifiutati 10.718. Tuttavia, delle persone che hanno ottenuto il visto, il 67,15% era ancora in “attesa convocazione”, indicando un evidente blocco del meccanismo. Anche per le quote 2022, ci sono oltre 2.300 visti pendenti, dimostrando un significativo allungamento dei tempi rispetto ai limiti di legge. Il dato più preoccupante riguarda la finalizzazione della procedura: su 74.105 posti disponibili nel 2023, solo 17.435 domande sono state completate con la sottoscrizione del contratto e la richiesta di permesso di soggiorno per lavoro, pari al 23,5%. Per il 2022, il tasso è leggermente più alto, al 35,2%. Solo una piccola parte dei lavoratori riesce a stabilizzare la propria posizione lavorativa e giuridica, ottenendo lavoro e documenti, mentre molti altri scivolano nell’irregolarità e precarietà, rendendoli vulnerabili.

Eppure un possibile strumento per evitare che molte persone diventino irregolari esiste già: la legge prevede infatti un permesso di soggiorno per attesa occupazione in caso di indisponibilità del datore di lavoro. Tuttavia, nel 2022 sono stati rilasciati solo 146 di questi permessi, e 84 fino a gennaio 2024 per il 2023, numeri del tutto insufficienti. Ero Straniero riconosce alcuni elementi positivi introdotti negli ultimi anni, come il coinvolgimento delle associazioni datoriali, che ha semplificato la procedura e aumentato l’efficacia. Inoltre, il decreto flussi 2022 ha visto 6.702 domande da partecipanti a programmi di formazione nel paese d’origine, rispetto ai 1.000 posti iniziali, indicando che la formazione nei paesi di origine può essere una strada proficua per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Il dossier include testimonianze di lavoratori, datori di lavoro e associazioni di categoria, raccolte presso il patronato Cna e nel progetto di ricerca “Aspire” finanziato dall’Unione Europea. Queste storie evidenziano le difficoltà del sistema attuale e l’urgenza di riforme per garantire un ingresso legale e sicuro dei lavoratori stranieri, contribuendo alla crescita del paese.

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Massiccio attacco russo nella notte. La Polonia schiera i caccia

Durante un massiccio attacco missilistico notturno lanciato dalle forze russe contro l’Ucraina, aerei militari polacchi e di Paesi alleati sono decollati in missione di pattugliamento. A riferirlo è stato il Comando operativo delle Forze Armate polacche, come riportato da Ukrinform. Nel comunicato si avverte che l’attività dei caccia potrebbe causare rumore, soprattutto nella parte sudorientale del Paese. Tuttavia, il Comando ha assicurato che sono stati attivati tutti i protocolli necessari per garantire la sicurezza dello spazio aereo polacco.

La Difesa aerea ucraina in Azione: 81 obiettivi abbattuti

La notte scorsa, la difesa aerea ucraina ha abbattuto 35 missili da crociera e 46 droni kamikaze russi, ha riferito l’Aeronautica militare di Kiev su Telegram. In totale, la Russia ha lanciato 53 missili di vario tipo e 47 velivoli senza pilota Shahed-131/136. Il generale Mykola Oleshchuk, comandante dell’Aeronautica ucraina, ha dichiarato che l’attacco è stato diretto contro le infrastrutture critiche in varie regioni dell’Ucraina, utilizzando missili aerei, marittimi e terrestri, nonché droni di tipo Shahed. Oleshchuk ha precisato che sono stati lanciati 35 missili da crociera Kh-101/Kh-555 da bombardieri strategici Tu-95MS dalla regione russa di Saratov e dal Mar Caspio; quattro missili balistici Iskander-M e un missile da crociera Iskander-K dalla Crimea; 10 missili da crociera Kalibr dal Mar Nero; tre missili aerei guidati Kh-59/Kh-69 dalla regione occupata di Zaporizhzhia e 47 droni Shahed-131/136 dalla zona di Prymorsk-Akhtarsk in Russia. In totale, sono stati abbattuti 81 obiettivi aerei, inclusi 30 missili da crociera Kh-101/Kh-555, quattro missili da crociera Kalibr, un missile da crociera Iskander-K e 46 droni Shahed-131/136.

Appello di zelensky per maggiori sistemi di difesa

Gli attacchi hanno colpito anche gli impianti energetici nelle regioni ucraine di Zaporizhzhia, Dnipropetrovsk, Donetsk, Kirovohrad e Ivano-Frankivsk, secondo quanto riferito dal ministro dell’Energia ucraino, Herman Galushchenko, come riportato da Ukrainska Pravda. I danni agli impianti sono ancora in fase di valutazione. Un’infrastruttura critica non identificata nella regione di Vinnytsia è stata attaccata, provocando un incendio a causa della caduta di frammenti di un drone abbattuto, ha reso noto Serhiy Borzov, capo dell’amministrazione militare regionale. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha rinnovato l’appello per sistemi di difesa aerea agli alleati. “Civili, infrastrutture, impianti energetici: questo è ciò contro cui la Russia è in guerra,” ha scritto su Telegram. Zelensky ha sottolineato la necessità di ulteriori sistemi di difesa come i Patriot e moderni caccia F-16 per proteggere il Paese.

Nel frattempo, la Russia ha rivendicato di aver colpito l’aeroporto militare vicino alla città di Stry, nella regione di Leopoli, dove le forze armate ucraine stavano preparando la ricezione dei caccia F-16 della NATO. Secondo il coordinatore militare russo Sergei Lebedev, i magazzini dell’aeroporto sono stati attaccati e sei missili da crociera hanno colpito tre infrastrutture critiche, causando una potente esplosione e ferendo quattro persone. In un contesto più ampio, il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha ribadito, durante una riunione della NATO a Praga, il sostegno dell’Italia all’Ucraina, specificando che le armi italiane non saranno utilizzate al di fuori dei confini ucraini e che non verranno inviati militari italiani nel Paese. Intanto secondo Denise Brown, coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite per l’Ucraina, dall’inizio dell’invasione russa, più di 600 bambini sono stati uccisi e 1.420 sono rimasti feriti, dati che superano quelli riportati dall’Ufficio della Procura generale ucraina.

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Breve storia di un leghista

Breve (e triste) storia di un leghista. A Mantova martedì c’è stata l’inaugurazione di una palestra pubblica. Nel corso dell’evento si è svolto il tradizionale taglio del nastro: insieme al sindaco Mattia Palazzi c’erano diversi bambini, uno dei quali dalla pelle nera. Il segretario cittadino della Lega Cristian Pasolini ha recuperato una foto della giornata e l’ha postata sul suo profilo Facebook scrivendo: “Casualità e comunicazione. Bene l’inaugurazione della palestra ed ennesimo taglio del nastro con foto di rito e tradizionale prima fila con bimbo negroide (bimbo di colore, se non vogliamo usare correttamente i termini scientifici di lingua italiana)”.

Inevitabili le polemiche e le accuse di razzismo. In una nota il capogruppo del Pd in Regione Lombardia, Pierfrancesco Majorino, ha aggiunto: “Tenga giù le mani dai bambini. Difficile immaginare parole più sprezzanti, ingiuriose, razziste, indirizzate contro un bambino. Affermazioni di istigazione all’odio”, ha concluso, “che arrivano da chi ricopre un ruolo di primo piano in un partito, che non si possono che definire orribili”. Pasolini si è scusato? Ma va. Si è dimesso dal suo ruolo di coordinatore della Lega. “Mi sono dimesso questa mattina – spiega Pasolini – e spero di aver chiarito la mia posizione e il mio pensiero”. Ha, quindi, annunciato di aver rimosso il post contestato: “Questa mia scelta – ha sottolineato – è stata dettata dalla volontà di proteggere chi, mio malgrado, si è forse sentito offeso”. Il bambino “negroide” e quelli che gliel’hanno fatto notare? Pasolini ce l’ha con chi “ha repentinamente preso le distanze dalle mie parole”. Pure nel suo partito.

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Ripasso di storia per il 2 giugno. E per uscire dal provincialismo

Il 2 e il 3 giugno del 1946 si tenne il referendum istituzionale con il quale gli italiani vennero chiamati alle urne per decidere quale forma di Stato – monarchia o repubblica – dare al Paese. Il referendum fu indetto al termine della seconda guerra mondiale, qualche anno dopo la caduta del fascismo, il regime dittatoriale che aveva imperversato durante il regno dei Savoia per più di vent’anni.

Conviene partire da un ripasso di storia per prepararsi, domani, alla celebrazione del 2 giugno che prevedibilmente, anche quest’anno, si trasformerà nell’ennesima sagra della Patria, una scontata virata sul militarismo come elemento fondante della nostra Repubblica dimenticando la libertà, l’oppressione fascista e la democrazia. Il revisionismo storico che stiamo vivendo ha reso una notizia il normale riferimento di Giorgia Meloni agli “squadristi fascisti” responsabili dell’omicidio di Giacomo Matteotti nel giorno della commemorazione dei centenario.

Sono i tempi in cui come seconda carica dello Stato v’è qualcuno che mostrava fiero, davanti alle telecamere, il busto di Mussolini. Sono i tempi in cui un generale dell’esercito candidato alle elezioni europee per un partito di governo deve evocare la X (Decima) Mas per raccogliere voti. Sono i tempi in cui la Festa della Repubblica verrà usata ancora una volta come randello contro gli avversari politici. Tutti nemici sotto il tricolore.

Incidentalmente questo 2 giugno cade anche a una settimana dalle elezioni europee che decideranno da che parte starà l’Italia in Europa e da che parte starà l’Europa nel mondo. Una campagna elettorale persa tra personalismi di candidati per uno scranno che non andranno ad occupare, una campagna che ancora una volta ha tradito il provincialismo di un Paese che discute di tappi di plastica, di beghe tra leaderini di partitini, di messaggi politici che non superano le nostre frontiere. Mentre il mondo trema e avanza il buio, anche questo 2 giugno lo passeremo all’ombra delle nostalgie da cortile. Vedrete.

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La querelle Saviano e i soffiatori di bugie

Gli odiatori seriali che leccano questo governo ieri per tutto il giorno hanno diffuso la notizia che Roberto Saviano non fosse stato invitato alla Buchmesse di Francoforte semplicemente per colpa  delle case editrici che lo pubblicano e non per miopia repressiva del governo. La notizia l’ha appoggiata su un piatto d’argento un quotidiano di quei sedicenti liberali sedicenti competenti che deve essere andato a dormire convinto di avere scritto uno scoop. 

A nessuno è venuto il dubbio che le fiere, tanto più quella di Francoforte, siano l’occasione per le case editrici di monetizzare le proprie opere e i propri autori in un mercato asfittico. L’idea che Saviano fosse stato messo a cuccia dagli editori era una notizia talmente cretina da potere attecchire solo tra i tifosi che discettano di scrittori senza mai avere aperto un libro tranne forse quello del generale Vannacci. 

Poi è accaduto che ieri il commissario straordinario per la Fiera del libro di Francoforte Mauro Mazza, accortosi della giustificazione claudicante sull’esclusione di Saviano, abbia compiuto una bella giravolta invitando lo scrittore, tornando sui suoi passi. Per tutto il giorno aveva provato anche lui a nascondersi dietro il dito degli editori, smentito pubblicamente. Roberto Saviano alla fine ha rifiutato l’ipocrita e tardivo invito forzato di Mazza ricordando che era stato lo stesso commissario a parlare di esclusione in conferenza stampa. 

Il dibattito tra governo e autore per ora è chiuso. Chissà come si sentono quelli che per tutto il giorno hanno soffiato su una bugia sgretolata dai fatti. Ma quelli stanno bene, quelli non leggono, quelli tifano con la bava alla bocca. 

Buon venerdì.  

Roberto Saviano (foto di Giancarlo Belfiore, International Journalism Festival from Perugia, Italia – Flickr, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17246703)

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Uno scontro… stupefacente sui loghi della cannabis

La nuova priorità della Lega, dopo la sua guerra ai tappi di plastica per non girare la bottiglia, è la cannabis. Sì, è vero, la guerra alla cannabis del partito di Salvini non è niente di nuovo, da ieri però il nemico non è solo la fluorescenza naturale ma anche le sue rappresentazioni in immagini. Tanto da spingere la pentastellata Emma Pavanelli a parlare di “fobia iconografica”.

In un subemendamento al Decreto sicurezza del deputato della Lega Igor Iezzi, capogruppo in commissione Affari costituzionali, si propone di vietare “l’utilizzo di immagini o disegni, anche in forma stilizzata, che riproducano l’intera pianta di canapa o sue parti su insegne, cartelli, manifesti e qualsiasi altro mezzo di pubblicità per la promozione di attività commerciali. In caso di inosservanza è prevista la pena della reclusione da 6 mesi a 2 anni e della multa fino a 20mila euro”. Il deputato Avs Angelo Bonelli attacca: “Due anni di carcere per chi indossa magliette o fa immagini con il logo della cannabis. Si può dire che è uno schifo?”.

La collega di partito Francesca Ghirra parla di una “deriva liberticida di questo governo, di questa maggioranza” che “non ha mai fine”. I 5 Stelle sottolineano come per la Lega “la lotta alla criminalità passa da follie normative come queste che non tengono conto dell’enorme danno economico a tutte le imprese che producono cosmetici, integratori alimentari, cibo, tessile, bioplastiche e altro contenenti cannabis che legittimamente utilizzano la relativa immagine della pianta sul loro packaging o per le campagne pubblicitarie”. Iezzi non ci sta e invita a non fare “propaganda strumentalizzando gli emendamenti”. E perfino Coldiretti, solitamente morbida con il governo, verga una nota per ricordare che la canapa legale assicura “un giro d’affari da 1,4 miliardi di euro e garantisce fino a 10mila posti di lavoro”. Ma la tentazione della repressione evidentemente è irrefrenabile.

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Save the Children: 1,3 milioni di bambini e ragazzi in povertà assoluta

In Italia più di 1,3 milioni di bambine, bambini e adolescenti vive in condizioni di povertà assoluta e uno su quattro è a rischio di povertà e di esclusione sociale. A essere penalizzate sono le aspirazioni. Il 67,4%, degli adolescenti è convinto che il lavoro del futuro non gli consentirà di uscire dalla povertà, più di un ragazzo su quattro in condizioni di deprivazione materiale afferma che non finirà la scuola e andrà a lavorare (a fronte dell’8.9% dei coetanei). 

Sono i dati della ricerca Domani (Im)possibili, curata da Save the children e presentata all’Acquario di Roma in occasione dell’apertura di Impossibile 2024, la biennale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. La ong nel suo rapporto scrive che in Italia quasi un 15-16enne su dieci (9,4%) – circa 108 mila adolescenti – vive in condizioni di grave deprivazione materiale.

Per il 17,9% dei rispondenti, i genitori hanno difficoltà nel sostenere le spese per l’acquisto dei beni alimentari, dei vestiti o per il pagamento delle bollette. C’è chi vive in case senza riscaldamento (7,6%) o con il frigo vuoto (6,4%), chi rinuncia ad uscire (15,1%), chi non fa sport perché troppo costoso (16,2%), chi non va in vacanza per motivi economici (30,8%) e, ancora, chi non riesce a comprare scarpe nuove, pur avendone bisogno (11,6%).

Save the children: un minore su dieci in povertà

Inevitabili le conseguenze sulle opportunità educative. Il 23,9% dei 15-16enni ha iniziato l’anno scolastico senza aver potuto acquistare tutti i libri o il materiale necessario. Il 24% dichiara che i genitori hanno difficoltà economiche per farli partecipare alle gite scolastiche e il 17,4% non si iscrive a corsi di lingua perché troppo costosi.

C’è anche chi in casa non ha uno spazio tranquillo per studiare (15%). Più di un 15-16enne su tre (37,7%) vede i genitori spesso o sempre preoccupati per le troppe spese e il 43,7% cerca di aiutarli, risparmiando (84,2%) e svolgendo qualche attività lavorativa – anche prima dell’età legale consentita – per coprire le proprie spese (18,6%) o per contribuire alle spese di casa (12,3%). 

Save the Children, la povertà uccide anche la speranza

La povertà ovviamente incide anche sulla speranza. Solo poco più della metà dei minori in svantaggio socioeconomico afferma che riuscirà a fare quello che desidera nella vita (54,7%) o quello per cui si sente portato (59,5%), a fronte del 75% e 77,8% di chi ha condizioni socioeconomiche più favorevoli. Inoltre, solo il 35,9% dei giovani intervistati in condizione di deprivazione materiale afferma che andrà all’università – contro il 57,1% dei minori in migliori condizioni socioeconomiche – e un 43,6% vorrebbe andare all’università ma non è certo di potersela permettere.

La consapevolezza circa il percorso ad ostacoli che dovranno affrontare per realizzare le proprie aspirazioni è accompagnata per più del 40% di ragazzi e ragazze da sentimenti negativi quali ansia, sfiducia e paura.

Save the Children: allarme anche nella fascia 0-3 anni

Numeri allarmanti anche per i bambini da 0 a 3 anni. Emergono difficoltà nell’acquisto di prodotti di uso quotidiano, come pannolini (58,5%), abiti per bambini (52,3%), alimenti per neonati come il latte in polvere (40,8%) o giocattoli (37,2%).

Il 40,3% ha difficoltà a provvedere autonomamente a visite specialistiche pediatriche private e il 38,3% ad acquistare medicinali o ausili medici per neonati. Sui bilanci pesano poi il pagamento delle rette per gli asili nido o degli spazi baby (38,6%) e il compenso di eventuali servizi di babysitting (32,4%).

Quasi una famiglia su sette (15,2%) non accede al pediatra di libera scelta. A causa del costo e della carenza di asili nido il 64,6% dei genitori, per la maggior parte donne, rinuncia ad opportunità formative e lavorative perché non sa a chi affidare i propri figli.

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