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Amnesty: “L’Ue deve rivedere gli accordi con la Tunisia”

“L’Unione europea dovrebbe rivedere gli accordi con la Tunisia”. Lo scrive in un comunicato Amnesty International partendo dai gravi episodi di repressione degli ultimi giorni: “Nelle ultime due settimane, – si legge – il governo tunisino ha lanciato un giro di vite repressivo senza precedenti contro migranti, rifugiati e difensori dei diritti umani che lavorano per proteggere i loro diritti, così come contro i giornalisti”.

Per Amnesty l’Ue deve rompere le relazioni con la Tunisia per non essere “complice delle violazioni dei diritti umani contro migranti e rifugiati, né della repressione nei confronti di media, avvocati, migranti e attivisti”

“Le autorità tunisine hanno intensificato la loro dannosa repressione contro le organizzazioni della società civile che lavorano sui diritti dei migranti e dei rifugiati, utilizzando affermazioni fuorvianti sul loro lavoro e molestando e perseguendo i lavoratori delle Ong, avvocati e giornalisti. Una campagna diffamatoria online e nei media, sostenuta dallo stesso presidente tunisino, ha messo a rischio i rifugiati e i migranti nel paese. Inoltre, mina il lavoro dei gruppi della società civile e invia un messaggio agghiacciante a tutte le voci critiche”, ha affermato Heba Morayef, direttrice regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International.

Per questo secondo l’organizzazione “l’Unione Europea dovrebbe rivedere urgentemente i suoi accordi di cooperazione con la Tunisia per garantire che non sia complice delle violazioni dei diritti umani contro migranti e rifugiati, né della repressione nei confronti di media, avvocati, migranti e attivisti”. Qualche giorno fa anche il tribunale di Lecce ha messo in dubbio il rispetto dei diritti in Tunisia. 

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Il Tribunale di Lecce smonta un altro pezzo del decreto Cutro

Un altro pezzo del cosiddetto decreto Cutro si sgretola al tribunale di Lecce con una sentenza che per l’ennesima volta ricorda al ministro e al governo che gli obblighi costituzionali e internazionali dello Stato italiano non possono essere scavalcati dalla propaganda. La sentenza risulta particolarmente importante anche perché riguarda un cittadino tunisino, lì dove Giorgia Meloni ha stretto la mano del presidente autocrate Kaïs Saïed per bloccare i flussi migratori e dove nelle ultime settimane il governo ha aperto una vera e propria caccia all’uomo dal vago sapore di pulizia etnica, tanto da spingere Amnesty International a chiedere la remissione degli accordi Ue con il Paese.

Il 19 maggio del 2023 la Commissione territoriale di Bari aveva rigettato “per manifesta infondatezza” la richiesta di protezione speciale di un uomo sbarcato in Italia il 2 novembre del 2022. Il tunisino, come scrive il tribunale di Lecce nella sentenza che ha accolto il suo ricorso, “ha iniziato un discreto percorso di integrazione depositando diversi attestati formativi professionalizzanti” ed è “assunto con contratto a tempo indeterminato a far data dal 12/12/2023 con la qualifica di addetto alla preparazione di cibi nel settore della ristorazione senza somministrazione”.

Secondo i giudici è giusto ritenere quindi “che egli stia compiendo un apprezzabile sforzo di inserimento nella realtà locale e che, verosimilmente, il suo percorso di integrazione potrà trovare ulteriore sviluppo, considerata la generale e crescente difficoltà di reperire un’attività lavorativa, a causa della notoria situazione di crisi socio – economica odierna che coinvolge l’intero Paese”. Per questo secondo i giudici rimandarlo in Tunisia si vanificherebbero “gli sforzi volti all’integrazione e alla costruzione di una certa prospettiva di vita sul territorio italiano”. 

Il Tribunale di Lecce in un’articolata decisione riconosce in favore di un cittadino tunisino la protezione richiamando l’articolo 2 della Costituzione italiana e gli obblighi internazionali

Si tratta dei cosiddetti “migranti economici” che da anni sono nell’occhio del ciclone della propaganda di certa destra, additati come usurpatori. Il giudice riconosce “in comparazione alla situazione personale che egli viveva prima della partenza si rileva quindi quella “effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono il presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art.2 Cost.)”, oltre al “buon comportamento tenuto sul territorio nazionale in base alle risultanze in atti (non risultano precedenti penali né di polizia a suo carico), si ritengono sussistenti allo stato gravi motivi umanitari che impediscono il ritorno del richiedente nel Paese di origine”. Oltre all’articolo 2 della Costituzione la sentenza si rifa alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo secondo cui “devono essere comunque valutati indici quali la natura e l’effettività dei vincoli familiari dell’interessato, il suo effettivo inserimento sociale in Italia, la durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d’origine”. 

La Tunisia alleata del governo italiano quindi non è un “porto sicuro” a causa delle crescenti repressioni messe in atto da Saïed. Costruirsi una prospettiva professionale è un diritto, al di là dei convincimenti dei governi. E, come ricorda la sentenza, nonostante nel cosiddetto decreto Cutro l’articolo 19 non specifichi più “l’autonoma e diretta rilevanza che assume la tutela della vita privata e familiare in attuazione dell’art. 8 CEDU e le modalità di valutazione della ricorrenza di questo parametro […]” gli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano rimangono al di là della propaganda del governo di turno.

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Giornalisti nel mirino, tra querele temerarie e minacce

Al 15 aprile in Italia nel 2024 sono stati minacciati 133 giornalisti in 43 episodi. Lo dicono i dati raccolti dall’osservatorio di Ossigeno per l’informazione che dal 2006 monitora la situazione della stampa in Italia. Si tratta per la maggioranza di avvertimenti spesso minacciosi che sono il 78% dei casi segnalati nel primo trimestre di quest’anno. Una parte rilevante (ben il 17%) riguarda l’abuso di denunce e azioni legali, i un Paese in cui non si è ancora voluto risolvere l’annoso tema delle querele temerarie. Ci sono poi le aggressioni fisiche (2%), i danneggiamenti (2%) e l’ostacolo all’accesso all’informazione. 

Nel 2024 sono stati minacciati in Italia 133 giornalisti. Liguria, Lazio e Veneto guidano la classifica. Il 92% delle minacce rimangono impunite

I dati più spaventosi però riguardano la provenienza delle minacce. Il 30% sono minacce che arrivano da cittadini ma la stessa quantità di minacce, sempre il 30%, proviene da istituzioni pubbliche che abusano del proprio potere per silenziare la stampa. Il 15% delle minacce sono di natura criminale mentre quelle che provengono da ambienti imprenditoriali sono il 5%. A guidare la classifica delle regioni in cui vengono registrate più minacce c’è la Liguria, seguita da Lazio, Veneto e Lombardia. La Sicilia, che nell’immaginario collettivo viene descritta come regione “pericolosa” per il giornalismo è solo quinta, settima la Campania e solo tredicesima la Calabria, a testimonianza di una pressione verso il mondo dell’informazione che non è solo quella dei gruppi criminali autoctoni. 

Le minacce ai giornalisti in Italia negli ultimi dieci anni si attestano su una media di 500 all’anno, con variazione minime, esclusi il 2018 e il 2022 che hanno segnato picchi rispettivamente di 959 e 721 episodi. Anche perché minacciare purtroppo conviene. In Italia l’impunità per i reati contro i giornalisti è scesa di 4,7 punti percentuali in tre anni, passando dal 96,7% del 2019 al 92%  del 2022 ma rimane comunque altissima. Il tasso di impunità fornito da Ossigeno è calcolato sul numero degli operatori dell’informazione che hanno subito intimidazioni, e per i quali l’Osservatorio ha verificato e certificato che hanno agito nel rispetto della legge e della deontologia giornalistica. Nel 2022 Ossigeno ha censito in questo modo 322 cronisti minacciati. Tra questi, coloro che hanno visto processare e condannare il loro aggressore o autore di minacce (fisiche, verbali, legali), o che hanno ottenuto scuse o il ritiro di una querela per diffamazione a mezzo stampa è pari all’8%. Questo vuol dire che 27 giornalisti, su 322 vittime registrate nel 2022, hanno ottenuto una qualche forma di giustizia. Gli altri 295 non hanno ottenuto nulla. 

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Piantedosi ha passato l’aspirapolvere

Vi sono nell’immaginario domestico queste scenette che funzionano molto bene in certi film leggeri in cui la moglie si lamenta del marito che non fa mai niente a casa. Solitamente si vede lei rientrare sfinita da una giornata di lavoro e dalla cura dei figli mentre lui sta spaparanzato sul divano difronte alla televisione, meglio con una birra in mano, meglio ancora con una maglietta troppo corta che gli scopre l’adipe. Quando lei, solitamente sovraccarica di borse, chiude la porta di casa si ferma sull’uscio accigliandosi mentre osserva il coniuge con guardia di rimprovero. Di rimando il marito comincia a elencare le missioni compiute. Ho passato l’aspirapolvere, ho messo i piatti nel lavello, ho sistemato quell’interruttore che da tempo immemore non accendeva più. La comicità sta nella pomposità con cui il marito inerme racconta l’espletamento di minuscoli doveri quotidiani.

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi da mesi si è rarefatto nelle dichiarazioni pubbliche e nelle presenze sui media. Le malelingue dicono che sia un commissariamento dolce voluto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni dopo alcune uscite infelici del ministro. Ogni mattina Piantedosi, come quel marito sul divano, sui suoi social ci elenca con fare teatrale le sue piccole faccende domestiche. Ieri ha scritto: “È stato rimpatriato in Tunisia un estremista islamico, che ho espulso per motivi di sicurezza dello Stato e prevenzione del terrorismo. L’uomo, entrato illegalmente in Italia, aveva infatti manifestato il proposito di commettere un attentato suicida nel nostro Paese”. Notare la prima persona singolare (“ho espulso”) e l’aura solenne nonostante la bazzecola. L’effetto è lo stesso del marito sul divano. 

Buon venerdì. 

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Passi indietro sull’informazione: l’Italia è tornata indietro di 20 anni

“Viaggiamo molto, perché la situazione è difficile in tutta Europa. Ma la missione in Italia era programmata per settembre e il fatto che abbiamo deciso di anticiparla ne sottolinea l’urgenza, perché anche da voi sembra crescere il controllo governativo sui media”. Ha parlato così Renate Schroeder, presidente di Efj, la Federazione europea dei giornalisti, promotrice con Obct (l’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa) della missione del consorzio Mfrr, Media freedom rapid response. Schroeder è intervenuta a “Libertà di informazione, un diritto in pericolo”, speaker corner promosso da Usigrai di fronte alla sede Rai di viale Mazzini. “Tre le priorità della missione – ha spiegato – che prevede incontri con rappresentanti delle istituzioni, parlamentari, sindacalisti e addetti ai lavori. La prima, la Rai. La tv pubblica per noi ha una funzione centrale: senza, tutto il sistema dei media diventa più fragile e più a rischio. La seconda, l’agenzia di stampa AGI. La possibile vendita a un parlamentare della maggioranza evoca un gigantesco conflitto di interessi: io ero qui più di venti anni fa, ai tempi di Berlusconi, se dopo più di venti anni siamo costretti a tornare vuol dire che quel conflitto non è stato mai risolto. La terza, la riforma delle leggi penali sulla diffamazione, che espone i giornalisti a un numero sempre maggiore di cause vessatorie”.  “La Commissione europea – ha concluso la presidente di Efj – ha fatto segnare dei progressi importanti, l’adozione del Media freedom act attribuisce responsabilità precise ai singoli Paesi. Domani riassumeremo in una conferenza stampa gli esiti della nostra missione e nelle prossime settimane ne pubblicheremo un report dettagliato”. 

Al presidio sotto la sede Rai di viale Mazzini il consorzio Mfrr in missione a Roma per le preoccupazioni dell’Ue  sul “controllo governativo sui media”.

Al presidio in viale Mazzini oltre a numerosi giornalisti (tra i quali Serena Bortone), hanno partecipato anche sindacalisti, rappresentanti di diverse associazioni e del mondo dello spettacolo e della cultura come Monica Guerritore e Mimmo Calopresti. Di un’idea di “controllo autoritario dell’informazione” ha parlato i segretario generale della Cgil Maurizio Landini secondo cui “la lotta per il diritto a una libera informazione vuol dire anche lotta per il diritto al lavoro, alla salute e difesa per i diritti fondamentali della Costituzione”, riferendosi a “un disegno” in atto del governo che intacca i diritti in diversi campi. “Anziché estendere la democrazia stanno tentando di ridurla”, ha spiegato Landini convinto stia venendo “avanti una visione politica di chi pensa che stare al governo non sia a gestire e mediare tra i diversi interessi, ma comandare e affermare un unico punto di vista”. Il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri ha spiegato che “non c’è solo la voglia di imbavagliare giornalisti fastidiosi, qui oggi c’è un disegno più ampio, che verifichiamo tutti i giorni, che emerge da un’assoluta insoddisfazione e insofferenza a qualsiasi tipo di critica. Lo troviamo con la Rai, con gli editori e sui-giornali. Ecco – ha detto Bombardieri – perché non c’è bisogno soltanto della solidarietà, ma di un impegno continuo a sostenere i diritti riconosciuti dalla Costituzione”. Erano assenti invece i rappresentanti della Cisl. 

Landini (Cgil): “il governo ha una pericolosa idea di controllo autoritario dell’informazione”. Bombardieri (Uil): “serve un impegno continuo a sostenere i diritti riconosciuti dalla Costituzione”

“Questa non è stata una mattinata dei giornalisti, della casta, né soltanto della Rai. Questa è stata una mattinata della società civile, delle associazioni e dei movimenti che hanno in comune una sola cosa: credono nei diritti e nelle libertà costituzionali”, ha detto il presidente dell’Fnsi, Vittorio Di Trapani, intervenendo alla manifestazione. Nel corso della manifestazione Usigrai ha comunicato anche di non avere trovato un nome condiviso per il prossimo cda Rai e che quindi l’invito “è quello di votare scegliendo, tra le tre candidature presentate, quella che maggiormente risponde all’idea di rappresentanza che le giornaliste e i giornalisti ritengono più vicina ai valori del servizio pubblico”. 

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Il premierato di Giorgia “riecheggia Mussolini”

Ve la ricordate la “ritrovata credibilità internazionale” dell’Italia rivendicata dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dai membri della maggioranza Il Times, probabilmente il più autorevole quotidiano britannico, si è dedicato alla riforma costituzionale sul premierato con cui il governo vorrebbe modificare la Costituzione. Il quotidiano parte dall’intervento in aula della senatrice a vita Liliana Segre che ha contestato il metodo (“una prova di forza”) e il merito (“una sperimentazione temeraria”) parlando di una riforma che “produce un’abnorme lesione della rappresentatività del Parlamento, perché si pretende di creare a qualunque costo una maggioranza al servizio del presidente eletto, attraverso artifici maggioritari tali da stravolgere al di là di ogni ragionevolezza le libere scelte del corpo elettorale”. 

Per il Times “Giorgia Meloni ha in programma di rivedere la Costituzione per dare maggiori poteri ai futuri leader italiani, sostenendo che l’attuale sistema lascia i primi ministri in preda a complotti di partito”. Nel pezzo si ricorda anche come la regola del premio di maggioranza “riecheggi una legge introdotta da Benito Mussolini, il dittatore fascista per darsi più potere”, riferendosi alla legge Acerbo introdotta “prima di chiudere del tutto il Parlamento”. 

L’opinione della redazione del Times dalle nostre parti verrebbe bollata come un estremismo, sarebbe accusata di voler accendere la violenza e probabilmente sarebbe la miccia per inviare lettere di avvocati e forse si concluderebbe con un querela, foss’anche temeraria. Chissà che ne dicono invece della prestigiosa opinione del Times. 

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Raimo: “Criticare un’autorità è un diritto costituzionale, negarlo è illiberale”

Il prossimo 21 maggio Christian Raimo, docente, scrittore e candidato alle prossime elezioni europee per Alleanza Verdi Sinistra, dovrà presentarsi negli uffici dell’Ufficio Scolastico Regionale per rispondere di una presunta violazione del codice etico. Sotto accusa è finito un post in cui Raimo – dopo un suo intervento televisivo in cui disse “picchiare i neonazisti penso sia giusto: vanno contrastati in qualunque modo” – lamentava la mancata difesa del ministro Valditara. E poi l’aspirante parlamentare Ue aveva aggiunto: “Insegno ai miei studenti che la democrazia è arrivata da un’opposizione seria al nazismo”. Secondo Raimo “un ministro dovrebbe difendere tout-court un docente minacciato da gruppi neonazisti invece di avviare un approfondimento interno, e invece finisce proprio per accodarsi agli striscioni intimidatori”.

Raimo, come accoglie l’istruzione di un provvedimento disciplinare nei suoi confronti?
“Lo accolgo non come questione personale ma collettiva, politica nel senso alto. Si tratta di un attacco al lavoro democratico. Non è mirato a Raimo ma è mirato alla libertà e professionalità di docente. Viene contestata la libera espressione del mio pensiero in un contesto extrascolastico e qui siamo alla negazione del nucleo fondante del pensiero liberale. Kant dice “io se c’è una legge che mi obbliga faccio il soldato e poi scrivo sulle riviste che sono contro la leva”. Quindi io posso benissimo rispondere ai miei doveri professionali ma posso criticare l’operato di un ministero. Non esiste un codice etico che sia contro questi principi basilari della Costituzione che sono perfino nello Statuto Albertino, tranne negli anni del fascismo. Che ci sia una censura della libertà di espressione è illiberale. Non stiamo parlando nemmeno di fascismo, qui parliamo essenzialmente di un contesto liberale democratico. Parliamo di quello che il liberalismo migliore ha fatto nel ‘700. Per me è un provvedimento assurdo, autocontraddittorio, ridicolo e assolutamente sintomatico di un orizzonte autoritario di questo governo”.

Secondo lei c’è contezza di un disegno di repressione?
“C’è una contezza su una questione specifica: l’attacco al lavoro democratico e al sindacato. Per me è stata molto interessante agli stati generali della cultura della destra vedere citato il sindacato giallo, corporativo e padronale degli anni ‘70. Questo post fascismo al governo non è una riedizione nostalgica della chincaglieria di braccia tese e saluti romani ma è molto più vicino al progetto politico assolutamente minoritario, scadente e molto violento che portò i neofascisti negli anni ’70 a capire che si doveva attaccare sindacati e il lavoro democratico. È quello che si vede in Rai, non tanto nella censura a Scurati ma nel nuovo sindacato giallo Unirai, quello che si vede negli attacchi alla sede della Cgil, quello che si vede continuamente negli attacchi alle organizzazioni del lavoro. Anche l’attacco al professor Canfora e alla professoressa Di Cesare, è un attacco non solo alla libertà di espressione ma al lavoro democratico. Non si tratta di intellettuali e antifascisti ma lavoratori antifascisti che si riconoscono nella dignità professionale e nelle organizzazioni che difendono i diritti dei lavoratori”.

Lei è un docente, ma è anche in campagna elettorale…
“Anche un docente non in campagna elettorale. Io ho espresso opinioni. I più importanti intellettuali del nostro Paese da Salvemini, Gramsci, Calamandrei, Lussu, Bobbio, De Mauro, Mirella Antonione Casale, Emma Castelnuovo hanno fatto attivismo e espresso battaglie politiche importanti contro i poteri della scuola soprattutto quando erano autoritari. Cinque anni fa la professoressa Rosa Maria Dell’Aria è stata sottoposta a provvedimento disciplinare, poi venne risarcita dei soldi che aveva avuto tolti. Quella è una storia che fece scalpore. Meno lo fece che a difendere la dignità del ministero fu la docente e non il ministro Bussetti. C’è chi crede come nel 1967, come don Milani che la scuola sia di tutti o chi come Galli Della Loggia, intellettuale di riferimento del ministro, parla di normali e anormali e nel 2024 non sa nulla di inclusione e di scuola democratica. Il problema di questa classe dirigente non è che è fascista, ma che è incompetente”.

Perché ha deciso di compiere questo passo con la sua candidatura
“Sono felicissimo di fare il lavoro che faccio, di fare il docente e di occuparmi di studio, scuola e educazione. Ho pubblicato un libro sulle disuguaglianze della scuola italiana, per Altreconomia un libro sulla scuola nella Resistenza, a settembre uscirà un libro per Laterza. Questa è la battaglia della mia vita: scuola democratica e lavoro democratico. Mi sono reso conto che di fronte agli attacchi sconsiderati a tutto questo un lavoro solo intellettuale in questo momento non basta e quindi ho deciso che questi 40, 50 giorni ci avrei messo il mio corpo per la mia candidatura e per la altre persone nella mia lista, soprattutto dopo che Avs ha candidato Ilaria Salis. Anche lei avrebbe continuato volentieri a fare la docente e l’attivista ma l’unico modo per poter continuare a fare il proprio lavoro in maniera libera e efficace è provare a lottare anche per gli altri. Non ho nessuna ambizione personale. Se vengo eletto le mie battaglie saranno ancora più efficaci altrimenti le continuo a fare come ho sempre fatto. La politica non è la mia vita, ho scritto un libro che racconta come molti partigiani dopo la sconfitta del fascismo hanno deciso di mettere il proprio impegno in classe: Mario Lodi, Aldo Pettini, Emma Castelnuovo”.

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Ora, dite la verità, non vi sentite immensamente più sicuri sapendo che un esercito di ragazzini affolla le carceri pronto ad affinare inclinazioni delinquenziali?

Dal 1998 (primo dato storico registrato da Antigone) ad oggi non si erano mai registrati numeri così alti. E sarebbero potuti essere anche più alti senza la disposizione, fortemente negativa, che dà potere ai direttori di inviare i giovani adulti (ragazzi fino a 25 anni che hanno commesso un reato da minorenni) nelle carceri per adulti, interrompendo così relazioni educative importanti.
In linea con le aspettative più negative scaturite dall’approvazione del decreto Caivano e da un cambio di paradigma nella giustizia minorile, con un approccio maggiormente punitivo, il sovraffollamento sta iniziando ad arrivare anche negli IPM. Il modello della giustizia minorile in Italia, fin dal 1988, data in cui entrò in vigore un procedimento penale specifico per i minorenni, aveva sempre messo al centro il recupero dei ragazzi, in un’età cruciale per il loro sviluppo, nella quale educare è preferibile al punire, garantendo tassi di detenzione sempre molto bassi. “Quello che registriamo – spiega l’associazione Antigone – e che avevamo denunciato, sia durante le audizioni parlamentari svolte nel merito del decreto Caivano, sia nel presentare il nostro 7° rapporto sulla giustizia minorile (“Prospettive minori“) lo scorso mese di febbraio, è invece come si sia intrapresa una strada che cancella questi 35 anni di lavoro con la prospettiva drammatica e attuale di perdere ragazzi e ragazze per strada”.

Ora, dite la verità, non vi sentite immensamente più sicuri sapendo che un esercito di ragazzini affolla le carceri pronto ad affinare inclinazioni delinquenziali?

Buon giovedì. 

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Otto mesi per un articolo. E la politica cosa fa

Un giornalista, Pasquale Napolitano, è stato condannato in primo grado a 8 mesi di carcere con pena sospesa per diffamazione. Napolitano, collaboratore tra gli altri de Il Giornale e di Panorama, nel 2020 ha pubblicato un articolo per la redazione di ‘Anteprima24’ sul Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nola. I diretti interessati sono ricorsi alle vie legali ritenendosi diffamati.

Il giornalista Pasquale Napolitano è stato condannato in primo grado a 8 mesi di carcere con pena sospesa per diffamazione

Il 7 maggio un giudice onorario ha condannato il giornalista a 8 mesi di reclusione oltre al risarcimento di mille euro a ciascuno dei quattro querelanti e 2.500 euro di spese legali. Per il giudice Napolitano avrebbe valicato il confine del diritto di cronaca condividendo l’articolo incriminato sui suoi canali social, un gesto che nel processo è diventato un’aggravante.

Napolitano, come prescritto dalle regole dell’Ordine dei giornalisti, aveva accolto tutte le contestazioni dei diretti interessati pubblicando le repliche che gli erano pervenute. Niente da fare: 8 mesi di carcere per un articolo di 12 righe. L’Ordine dei Giornalisti della Campania e la Commissione Legalità dell’Ordine Regionale hanno espresso “piena e forte solidarietà” a Pasquale Napolitano definendo la condanna “un inaccettabile attacco alla libertà di informazione“.

Il presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte ha parlato di condanna “inaccettabile” mentre Walter Verini del Pd ha fatto riferimento a “un retaggio del Codice Rocco che esiste ancora”. A destra accusano l’opposizione e i magistrati. Eppure sono al governo, sono maggioranza e sono loro che volendo potrebbero mettere fine a questo abominio. Quindi?

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La realtà spegne la propaganda

La propaganda ha il fiato corto. Magnificare la patria può servire per scaldare i cuori poco prima di una tornata elettorale, affilare l’odio per gli avversari politici torna utile per i commenti sui social network, manganellare i fragili riempie le pance degli odiatori seriali, inscenare conferenze stampa senza stampa sfama al massimo qualche giornalista servile, torcere i numeri per magnificare una credibilità internazionale esalta solo i tifosi del proprio partito.

La politica è altro. La politica si impiglia nei calli delle persone che lavorano tutto il giorno per andare a letto la sera comunque poveri. L’Istat li chiama “occupati in condizioni di vulnerabilità economica” ma sono uomini e donne che faticano senza scrollarsi mai di dosso il senso del fallimento. La politica sta in mezzo al tavolo poco apparecchiato per la cena di famiglie che si impoveriscono nonostante con impegno continuino a fare quello che hanno sempre fatto ma sono più povere.

La politica se ne fotte dell’aporofobia di questo tempo, la paura dei poveri e della povertà che spinge i commentatori a fingere di non vedere. La politica – al contrario della propaganda – guarda in faccia i problemi, gli dà un nome, non ne ha paura. Dice l’Istat che la povertà in Italia si mangia il cuore di milioni di persone e famiglie vittime di una guerra ideologica che ha cancellato la povertà solo per poter dire di avere sconfitto gli avversari politici.

Scelte propagandistiche – appunto – e per niente politiche che sono state prese da una classe dirigente politica che ha lavorato poco, pochissimo, in vita sua, scambiando il mondo del lavoro con gli aperitivi della ristretta cerchia di imprenditori che possono bisbigliare all’orecchio del governo.

Se in una Repubblica fondata sul lavoro come mezzo per la libertà i lavoratori sono schiavi significa che la Costituzione è tradita fin dal suo primo articolo. Se la povertà in Italia è un affare degli occupati, oltre ai disoccupati, significa che la democrazia è una truffa elettorale. Propaganda, appunto.

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