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Commissari Ue sotto la lente dell’Europarlamento, ma le audizioni lampo nascondono un accordo già chiuso

È iniziato ieri a Bruxelles il percorso delle audizioni parlamentari per la nuova Commissione europea e il copione per ora non sembra riservare colpi di scena. Malta, Slovacchia, Grecia e Lussemburgo: i primi candidati auditi ieri — Glenn Micallef, Maroš Šefčovič, Apostolos Tzitzikostas e Christophe Hansen — sembrano già pronti a varcare la soglia dell’approvazione, grazie al sostegno dei grandi gruppi Ppe, S&D e Ecr. Una promozione quasi garantita, che sottolinea come il Parlamento appaia riluttante a bocciare le scelte di Ursula von der Leyen. Una conferma di come il dibattito sull’Europa possa restare prevedibilmente piatto, mentre dietro le quinte i compromessi hanno già sigillato i destini.

Audizioni senza sorprese: un copione già scritto

Le prime audizioni sono state segnate più da qualche “momento fuori copione” che da una reale tensione. C’è Hansen che, forse per un lapsus freudiano, dice “contadino” invece di “padre”. Micallef risponde in maltese su una questione di multilinguismo, un piccolo dettaglio che rende evidente l’importanza delle diversità culturali nell’Unione. E Tzitzikostas si trova a dover gestire un’interruzione da parte di un deputato greco che distribuisce volantini sull’incidente ferroviario di Tempi, una tragedia che ha segnato profondamente la Grecia lo scorso anno.

Oggi la scena cambia: sei nuovi candidati varcheranno la soglia del Parlamento per difendere il proprio ruolo. Tra questi, uno dei più attesi è l’austriaco Magnus Brunner, pronto ad affrontare l’incandescente questione della migrazione, un argomento che ha già messo in tensione l’alleanza fragile tra popolari e socialisti. In agenda ci sono anche le audizioni di Michael McGrath, Ekaterina Zaharieva, Dubravka Šuica, Dan Jørgensen e Jessica Roswall. Ogni commissario si sottopone alla verifica consapevole che il sostegno dei partiti maggioritari è fondamentale per navigare in un mare agitato di dichiarazioni e posizioni inconciliabili.

Tensioni sotto traccia: tra Fitto e i diritti delle eurodeputate

Se i primi nomi hanno superato l’esame senza scosse, l’attenzione ora si sposta sui socialisti, in cerca di una posizione che li renda meno osservatori e più protagonisti della scena. I socialisti francesi, capitanati da Raphaël Glucksmann, minacciano di bocciare l’intera Commissione se von der Leyen non revoca il titolo di vicepresidente esecutivo all’italiano Raffaele Fitto. Una manovra che, secondo Glucksmann, dovrebbe chiarire che non c’è spazio per i populismi di destra nell’UE. Ma la retorica incendiaria sembra trovare meno eco tra gli altri pesi massimi del gruppo. “È importante che ci sbrighiamo a far partire questa nuova Commissione”, sottolinea la socialista tedesca Katarina Barley, quasi a voler abbassare i toni di un potenziale scontro che rischia di sfaldare il fronte progressista.

Un altro dettaglio che accende il dibattito è che Fitto nel 2019 si era opposto alla Commissione von der Leyen. Come ricostruito da Euronews all’epoca dei fatti “l’intera pattuglia di FdI a Strasburgo, incluso Fitto, votò poi contro la fiducia alla Commissione von der Leyen I nel suo complesso a novembre (dunque Gentiloni compreso), dopo aver già votato “no” nel luglio precedente all’insediamento della popolare tedesca come presidente dell’esecutivo comunitario”. Oggi, ironia della sorte, Fitto cerca di rientrare dalla porta principale come vicepresidente, segno che in politica, a volte, i cerchi si chiudono in modi imprevedibili. A complicare il tutto, ci sono le richieste delle eurodeputate che chiedono il diritto di partecipare alle sedute anche durante il congedo di maternità. Cristina Guarda, dei Verdi italiani, vorrebbe interrogare proprio Fitto, ma la sua richiesta è stata respinta dai leader di gruppo. Un tema che Roberta Metsola, presidente del Parlamento, ha promesso di affrontare, ma che incontra gli ostacoli di una burocrazia che avanza con una lentezza esasperante.

Per questo gli sguardi sono puntati su martedì prossimo, quando gli executive vice president dovranno affrontare l’aula. La previsione tra gli analisti è che passeranno senza sorprese ma rimane aperta la possibilità di un vero colpo di scena, almeno da parte dei socialisti che, tra l’atteggiamento battagliero della delegazione francese e la cautela tedesca, potrebbero essere tentati di trasformare una ratifica di routine in un campo di battaglia per affermare la propria identità.

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Da Washington a Bruxelles: le elezioni Usa e l’inquietudine europea

Le elezioni presidenziali statunitensi sono alle porte, e il clima è pensoso per l’Europa che osserva da lontano. I prossimi giorni definiranno non solo il futuro degli Stati Uniti ma anche la direzione verso cui si muoveranno le relazioni transatlantiche. L’Europa assiste, attenta e perplessa, mentre da una parte Kamala Harris e dall’altra Donald Trump si sfidano in un duello che sembra il culmine di due visioni del mondo inconciliabili. Eppure, ciò che emerge sotto il trambusto mediatico e la battaglia elettorale è un’inquietudine più profonda, quella di un’Europa sempre più consapevole di dover fare i conti con sé stessa, indipendentemente dall’esito.

Il rischio di una crisi costituzionale americana e l’Europa in allerta

Nelle ultime frenetiche ore di campagna elettorale Trump ha già suggerito che potrebbe non accettare una sconfitta e i segnali si fanno preoccupanti: il suo entourage si prepara a contestare i risultati, invocando il supporto dei legislatori repubblicani e dei rappresentanti nei singoli Stati. Si prefigura un copione già visto nel 2020, ma con una carica d’astio potenziata. La possibilità di una crisi costituzionale è concreta e per l’Europa sarebbe l’ennesima dimostrazione di un’America politicamente instabile, con un leader che, come sottolineato da Thierry Breton, potrebbe trascinare l’Occidente verso uno “choc mortale”.

Ma non è soltanto Trump a suscitare apprensione. Anche Kamala Harris non rappresenta una via d’uscita netta per l’Europa, poiché la sua posizione, pur distante dai toni di Trump, mantiene fermo il principio dell’“America First”, un imperativo che, sia per i democratici che per i repubblicani, resta indiscutibile. L’esperienza recente ci ha insegnato che Biden non ha esitato a prendere decisioni controverse come il ritiro dall’Afghanistan e l’introduzione dell’Inflation Reduction Act, lasciando l’Europa a confrontarsi con i suoi limiti strategici e le sue fragilità industriali.

La sfida dell’autonomia europea tra incognite e necessità

Mentre i sondaggi oscillano in stati chiave come Iowa e Pennsylvania, dando una sottile maggioranza a Harris in Iowa e Trump in lieve vantaggio in Pennsylvania, l’Europa inizia a riflettere seriamente sulla necessità di affermarsi come forza autonoma. L’avvertimento di Donald Tusk è chiaro: “L’era dell’outsourcing geopolitico è finita.” Tusk ha sottolineato come il destino dell’Europa dipenda soprattutto dalle sue scelte, e non solo dai risultati di un’elezione americana. 

Il messaggio sembra trovare eco nelle parole di Emmanuel Macron, che da tempo insiste sulla necessità di un’Europa più indipendente, in grado di rispondere alle crisi internazionali senza dipendere dalla protezione statunitense. Ma la strada è tutt’altro che facile. Orbán, da Budapest, ospita il prossimo vertice europeo proprio nelle ore decisive per gli Stati Uniti, e non nasconde il proprio sostegno per Trump, mentre Germania e Francia faticano a trovare un punto d’accordo su quale direzione prendere.

La questione ucraina sarà uno dei primi test per questa presunta autonomia europea: una vittoria di Trump potrebbe mettere a rischio i fondi americani per l’Ucraina, obbligando l’Europa a confrontarsi con la propria capacità di sostenere Kiev da sola. L’ombra di una guerra commerciale con gli Stati Uniti è concreta, e le barriere potrebbero alzarsi ancora di più nel caso di un secondo mandato di Trump. Il timore di molti diplomatici è che Trump utilizzi la dipendenza dell’Europa dalla sicurezza americana come leva per estorcere concessioni commerciali, obbligando l’Ue a un allineamento sempre più scomodo con le sue politiche verso la Cina.

Qualunque sia il risultato delle elezioni, all’Europa si presenta una scelta inevitabile. Kamala Harris e Donald Trump incarnano due facce diverse ma con una medesima base protezionista che l’Europa non può più permettersi di ignorare.

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La memoria corta ne ferisce più della pistola

Il problema è che la memoria va allenata, tenuta lunga e invece gli italiani sono troppo occupati nella guerra tra bande, sono irretiti nella stanchezza del troppo lavoro troppo poco pagato oppure banalmente se ne disinteressano.

Per ricordare lo scorso capodanno basterebbe poca memoria. Il deputato di Fratelli d’Italia Emanuele Pozzolo si presenta molto allegro al cenone di Rosazza, paese biellese guidato dalla sindaca Francesca Delmastro, sorella del sottosegretario alla Giustizia Andrea, presente ai festeggiamenti. 

Pozzolo ha un piccolo revolver, sta nel palmo di una mano, e mentre lo gingilla parte un colpo che si conficca nella gamba di Luca Campana, genero del capo scorte di Delmastro. Intorno ci sono famiglie e bambini. I fatti successivi sono perfino peggio: testimonianze rabberciate, il parlamentare pistolero che si contraddice. Risultato politico: Pozzolo “sospeso” dal partito in una delle rare conferenze stampa della sua capa Giorgia Meloni.

Peccato che la “sospensione” di un parlamentare sia un fondotinta retorico che non esiste nei regolamenti. Un parlamentare o lo cacci dal gruppo o te lo tieni. Tertium non datur. 

Undici mesi dopo Pozzolo finisce per caso in commissione Difesa per sostituire il vice ministro Edmondo Cirielli. Sta lì in rappresentanza del partito, Fratelli d’Italia, che lo avrebbe allontanato. Dal partito dicono che «si tratta di appoggio tecnico, dovrà tornare alla commissione Esteri e Affari comunitari», confermando che Pozzolo prende e esegue gli ordini. Il pistolero sospeso in commissione Difesa. Sembra un film ma è solo l’effetto della memoria stanca.

Buon martedì. 

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Schlein spezza l’incantesimo ed è scontro con De Luca

Fine della telenovela di Vincenzo De Luca all’assalto per la terza volta della presidenza della Regione Campania. Il Partito democratico non lo sosterrà. “Il Pd – ha detto la segretaria Elly Schlein ospite di Fabio Fazio – ha una posizione chiarissima: siamo contrari al terzo mandato. Per noi vale la legge nazionale che prevede il limite a due mandati. Possono votare tutte le leggi regionali che vogliono ma il Pd non sosterrà presidenti uscenti per un terzo mandato”. 

Lui, De Luca, non ci sta. Del resto non starci è la caratteristica principale della sua carriera politica, apparire contro tutti – preferibilmente i “suoi” – è la cifra stilistica della sua durezza. Diciassette anni sindaco di Salerno, presidente della Regione dal 2015, deputato dal 2001 al 2008, sottosegretario ai Trasporti nel 2013: per De Luca la Campania è un feudo che non dovrebbe essere contendibile per nessuno del suo partito. Roba sua, insomma. 

La segretaria Elly Schlein trattata con paternalismo è solo l’ultima vittima dell’egomania deluchiana. Il 13 maggio del 2010 durante un dibattito con un compagno di partito si disse pronto a far “vivere in maniera autonoma l’esperienza politica di Campania Libera” e a lasciare il Partito Democratico. Al tempo risero in molti per l’irruente simpatia di De Luca. Quattordici anni dopo il ritornello della Campania Libera da lasciare vivere “in maniera autonoma” è sempre in voga ma non fa più ridere nessuno. 

“Il gruppo dirigente del partito è talmente logoro che, se anche dicesse qualcosa di chiaro, nessuno lo ascolterebbe”, disse del Pd De Luca 14 anni fa. Oggi la retorica è la stessa ma è stato svelato l’obiettivo: fingere di voler cambiare per poter restare. 

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Poca trasparenza sui fondi del Pnrr: Openpolis chiede chiarezza, ma il governo resta sfuggente

Ci si risiamo. Il  Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), strumento cruciale per sostenere la ripresa dell’Italia, rischia di trovarsi in una situazione opaca e fuori controllo. Lo sostiene per l’ennesima volta l’ultimo rapporto di Openpolis. A giugno di quest’anno, su una spesa totale prevista di 191,5 miliardi di euro, risultavano impiegati solo 49,8 miliardi, pari al 26% del totale. Un dato che già da sé mette in luce la gravità della situazione. Eppure il Pnrr richiederebbe una rigorosa e puntuale trasparenza: senza una chiara comunicazione delle spese, infatti, risulta impossibile capire quali progetti abbiano raggiunto gli obiettivi previsti e quali siano in ritardo.

A questo proposito, Openpolis ha chiesto tramite il Freedom of Information Act (Foia) il dettaglio delle spese del Pnrr, una richiesta che il governo ha finora rifiutato di soddisfare. Il ministero ha risposto solo parzialmente, sostenendo che i dati definitivi sarebbero stati disponibili solo “in esito al completamento del processo di verifica”. Una dichiarazione vaga, che di fatto impedisce la verifica puntuale dei singoli progetti in corso. Peccato che la risposta sia contro la normativa italiana che richiede che i dati siano resi pubblici ogni 90 giorni.

Opacità e ritardi: il governo nasconde i dati del Pnrr

Un altro punto di attenzione sollevato da Openpolis riguarda il sistema Regis, la piattaforma ufficiale per monitorare l’avanzamento del Pnrr. Qui la scadenza per la pubblicazione dei dati sulle spese è stata ampiamente superata: anziché essere aggiornati ogni 90 giorni, a oggi – dopo 187 giorni dall’entrata in vigore della norma che ne regolamenta il monitoraggio – i dati non sono ancora disponibili. Questa mancanza di informazioni è ancor più grave se si considera che, senza la possibilità di un monitoraggio puntuale, non è possibile sapere quali regioni o settori siano più in ritardo rispetto agli obiettivi previsti.

L’ultimo aggiornamento aggregato risale all’inizio del 2023, e già in quella sede erano emersi ritardi preoccupanti. Su un totale di 202 progetti, solo il 33% risultava in linea con la tabella di marcia. Il restante 67% era invece caratterizzato da rallentamenti significativi, soprattutto in settori come la digitalizzazione della pubblica amministrazione e le infrastrutture per la mobilità sostenibile. Progetti chiave, come la realizzazione di nuove reti per i trasporti pubblici e la digitalizzazione degli enti locali, registravano avanzamenti ben al di sotto delle attese.

Le conseguenze dei ritardi

La distribuzione dei fondi tra nord e sud Italia rappresenta un ulteriore aspetto problematico. I dati aggregati non consentono infatti di capire se le risorse siano effettivamente state allocate nelle aree più in difficoltà, come previsto inizialmente. Questo rende difficile verificare se il Pnrr stia realmente contribuendo a ridurre il divario economico tra le regioni italiane, un obiettivo fondamentale stabilito fin dalle prime fasi del piano. Senza dati dettagliati, risulta impossibile valutare se le regioni del sud stiano beneficiando in misura adeguata degli investimenti previsti, o se al contrario siano state penalizzate dai ritardi.

Secondo Openpolis, il ritardo nella pubblicazione dei dati può essere letto come un segnale di disorganizzazione all’interno dell’amministrazione pubblica ma può anche sollevare dubbi sulla reale capacità di governo nel gestire una somma così ingente di fondi europei. La mancata trasparenza compromette non solo la fiducia dei cittadini ma anche quella delle istituzioni europee, che richiedono un resoconto chiaro e preciso per verificare l’efficacia delle risorse stanziate.

La verifica dei progetti – conclude Openpolis – è l’unico modo per evitare che i ritardi si trasformino in fallimenti ma senza una corretta pubblicazione dei dati non è possibile stabilire quali interventi abbiano successo e quali siano invece destinati a rimanere incompiuti.

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Valencia come simbolo: il pianeta non vuole lacrime ma soluzioni

“A Valencia assalto al re Felipe, la regina in lacrime, distrutta l’auto di Sanchez”. Alcuni giornali italiani la chiamano la rivolta del fango perché spostare l’inquadratura permette di calmierare l’allarme.

Invece quella di Valencia è una rivolta di persone – che siano bagnate e asciutte non importa – che presentano il conto al potere, regale e istituzionale, della sua inazione. Le immagini spagnole rendono plastico e immediato lo strabismo del dibattito pubblico. 

Quell’enorme parcheggio sotterraneo accanto al mastodontico ipermercato oggi è una tomba descritta dai soccorritori come un orrore. È anche il monumento dell’avventatezza umana che miope confida nell’immutabilità del pianeta di fronte ai mutamenti del clima. 

Quando la politica smetterà di colpevolizzare gli attivisti poiché sarà costretta a fare i conti con problemi ben più gravi si ritroverà di fronte la rabbia. Non sarà la rabbia di qualche automobilista nervoso e non sarà la rabbia dei difensori dell’igiene dei monumenti. Sarà rabbia a valanga, al limite della violenza, rabbia disperata come quella che si è accesa in Spagna. 

Le popolazioni colpite dalle alluvioni e le popolazioni consce dei cataclismi futuri non hanno bisogno di conforto. Non se ne fanno niente. Chiedono un allineamento alla preoccupazione e all’azione.

C’è un pezzo di mondo che vive un dramma che qualcuno nega. Lo iato storico sta tutto lì, tra chi gioca al tubo di scappamento più grosso e chi rimane senza casa. 

Buon lunedì. 

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Piracy Shield: quando la Serie A gioca a fare il Grande Fratello (e vince a tavolino)”

La farsa del Piracy Shield è l’ennesima dimostrazione di come il matrimonio tra calcio e politica in Italia continui a generare mostri. Questa volta il parto ha prodotto una piattaforma che, con la scusa di combattere la pirateria, si arroga il diritto di oscurare siti web senza alcun vaglio giudiziario. Un piccolo dettaglio costituzionale che evidentemente è sfuggito ai nostri legislatori, troppo occupati a compiacere i desiderata della Serie A.

La genesi di questo pasticcio all’italiana ha del surreale: una piattaforma commissionata dalla Lega Calcio ancora prima che esistesse la legge per utilizzarla, sviluppata dallo studio legale dell’ex avvocato di Berlusconi, “regalata” all’AgCom che però deve pagarne la manutenzione con soldi pubblici. Il tutto benedetto in Parlamento da Claudio Lotito, contemporaneamente senatore di Forza Italia e patron della Lazio. Un capolavoro di conflitto d’interessi che neanche ai tempi d’oro di Berlusconi.

Il risultato? Google Drive bloccato mentre si giocava Juventus-Lazio, con buona pace di chi doveva accedere ai propri documenti. Ma tranquilli, il governo ha già trovato la soluzione: una nuova legge che allarga le maglie dei blocchi invece di restringerle. D’altronde, quando hai due senatori come Lotito e Galliani a fare da pontieri tra il pallone e Palazzo Chigi, tutto diventa possibile, persino calpestare i diritti digitali dei cittadini in nome della lotta al “pezzotto”.

È la solita storia italiana: problemi complessi affrontati con soluzioni semplicistiche e dannose, partorite in stanze dove gli interessi privati si mescolano indisturbati con quelli pubblici.

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Imprecisa o inattendibile, Meloni inciampa sei volte su dieci

Imprecisa o inattendibile una volta su due, anzi, ancora di più. Pagella Politica ha ripercorso i due anni di governo e sentenzia che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha rilasciato dichiarazioni “poco o per nulla attendibili” in più della metà dei casi analizzati dal sito di fact-checking. Su un campione di oltre 100 affermazioni pubbliche, il 61% è stato etichettato come fuorviante o non pienamente rispondente alla realtà. Il dato non scritto che impressiona è che le dichiarazioni della premier sono state comunque con leggerezza amplificate dai media e la sua proverbiale ritrosia al confronto con i giornalisti ha impedito una reale verifica delle sue parole. 

Promesse sul lavoro: dati o illusione?

Un esempio frequente di incongruenze riguarda le dichiarazioni sul lavoro. Meloni ha dichiarato più volte che l’Italia sta vivendo un boom occupazionale grazie alle sue politiche, definendo l’attuale livello di occupazione un “record storico”. Tuttavia, l’Istat indica che, pur in presenza di un aumento occupazionale, questo non è un record assoluto, né è attribuibile in modo esclusivo al suo governo. L’analisi di Pagella Politica smentisce dunque un quadro di crescita eccezionale, evidenziando che l’incremento è limitato e riflette tendenze economiche già in corso.

L’immigrazione è il tema su cui Meloni ha commesso più errori, con un 58% di informazioni non attendibili. Ad esempio, ha ripetutamente affermato che l’Italia sta affrontando un afflusso “senza precedenti” di migranti, suggerendo che le misure attuali non bastino per contenere l’emergenza. Tuttavia, Pagella Politica dimostra che, pur esistendo picchi locali, i numeri non mostrano un fenomeno anomalo rispetto ai flussi degli anni precedenti. Numerosi errori anche sulle interpretazioni delle leggi internazionali, smentite dai giudici. 

Meloni tra energia e realtà distorte

La gestione della crisi energetica rappresenta un altro ambito controverso. Meloni ha più volte dichiarato che grazie alla sua azione politica i costi per i cittadini sarebbero diminuiti in modo significativo. Nonostante i tentativi del governo di contenere le bollette, il risparmio per le famiglie italiane è stato inferiore rispetto alle previsioni. I dati sui costi energetici, incrociati con le politiche attuate, mostrano infatti solo un leggero calo dei prezzi, non sufficiente a giustificare le dichiarazioni più ottimistiche rilasciate dalla premier. Molto più del governo in questo ambito ha fatto l’uscita dalla crisi energetica vissuta all’inizio dell’invasione russa in Ucraina. 

Pagella Politica ha diviso le 402 dichiarazioni verificate della presidente del Consiglio sulla base di tre giudizi: le dichiarazioni “attendibili”, quelle “imprecise” e quelle “poco o per nulla attendibili”. Le dichiarazioni “attendibili” sono quelle corrette o con lievi omissioni; le dichiarazioni “imprecise” sono quelle in cui Meloni ha commesso alcuni errori o ha omesso alcuni dettagli importanti; le dichiarazioni “poco o per nulla attendibili” sono quelle quasi o del tutto scorrette.

Fact-checking alla mano, le dichiarazioni “attendibili” sono state 157 (il 39 per cento sul totale), le dichiarazioni “imprecise” 102 (il 25,4 per cento), le dichiarazioni “poco o per nulla attendibili” 143 (il 35,6 per cento). Insomma, oltre metà delle dichiarazioni di Meloni tra quelle verificate nei suoi primi due anni di governo è risultata imprecisa o poco o per nulla attendibile.

Il dato del 61% di dichiarazioni inattendibili o imprecise fornisce un bilancio significativo dei primi due anni di governo Meloni. La rilevazione di Pagella Politica indica che l’imprecisione non è un fenomeno isolato o circoscritto ma una tendenza ricorrente, con impatti tangibili sulla percezione del pubblico. Forse anche una vera e propria strategia di governo. Per questo servirebbero più confronti con i giornalisti. 

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Il divario tra chi lavora e chi eredita, la solita ingiustizia fiscale italiana – Lettera43

Nel nostro Paese l’imposta sulle successioni è ridicola rispetto al resto d’Europa. E a essere tartassati sono sempre quelli della cosiddetta classe media, tra i 40 e i 70 mila euro di reddito. Una stortura a cui la recente legge di bilancio del governo Meloni non ha portato rimedio. Così il futuro è legato più alla fortuna di nascita che alla fatica dell’impresa.

Il divario tra chi lavora e chi eredita, la solita ingiustizia fiscale italiana

C’è un’aria antica in Italia, quel profumo d’epoche passate in cui nascere al posto giusto significava tutto, e costruire qualcosa dal nulla era un’aspirazione eroica e ardua. Oggi, tra tasse e agevolazioni, sembra che il nostro Paese voglia dirci che non conviene più fare figli, ma conviene senz’altro essere figli di qualcuno di facoltoso. Lo studio di Marco Leonardi e Leonzio Rizzo su lavoce.info non lascia spazio a romanticismi: chi lavora e produce regge la colonna fiscale come un Atlante moderno, mentre chi eredita gode della luce indiretta di chi ha accumulato. È una stortura a cui la recente legge di bilancio non ha portato rimedio, limitandosi a scalfire appena le abitudini di sempre.

Si potrebbe ottenere un gettito di oltre 3,5 miliardi di euro

Si parla di numeri, certo, e in Italia i numeri raccontano una storia d’altri tempi: se solo l’imposta sulle successioni fosse riallineata a quella di altri Paesi europei, spostando il peso da chi lavora a chi eredita, si potrebbe ottenere un gettito di oltre 3,5 miliardi di euro. Una somma non trascurabile, capace di alleggerire il carico fiscale sui redditi medi e su quelli medio-alti, senza gravare sui patrimoni consolidati. Ma l’Italia, nella sua prudenza conservativa, preferisce rimanere ancorata alla tradizione: franchigie generose, aliquote esigue e un destino quasi roseo per chi eredita, lasciando il peso fiscale a chi non ha la fortuna di ricevere.

Il divario tra chi lavora e chi eredita, la solita ingiustizia fiscale italiana
In Italia a essere tartassati sono i redditi della cosiddetta classe media (Imagoeconomica).

In Francia le successioni sono tassate 15 volte di più

Leonardi e Rizzo ci svelano le cifre dietro questa discrepanza: in Francia le successioni sono tassate 15 volte più che in Italia; nel Regno Unito e in Spagna la differenza è di oltre sette volte. Qui il nostro sistema si arrocca su un’idea di continuità patrimoniale quasi feudale, come a voler proteggere un passaggio di consegne intoccabile. Chi lavora paga, eccome, ma chi eredita è chiamato a una simbolica compartecipazione. Tanto basta, con una franchigia di 1 milione di euro per i parenti in linea retta e aliquote irrisorie, per mandare un segnale inequivocabile: accumulare e trasmettere è un privilegio da proteggere, da non intaccare. E se questo significa sacrificare chi vive solo del proprio stipendio, allora pazienza.

Il divario tra chi lavora e chi eredita, la solita ingiustizia fiscale italiana
L’equilibrio fiscale impossibile in Italia tra chi lavora e chi eredita (Imagoeconomica).

Serve un’aliquota progressiva o abbassare le franchigie

Il quadro delineato dagli autori racconta una pressione fiscale che si abbatte pesantemente sulla cosiddetta classe media, in particolare tra i 40 e i 70 mila euro di reddito, mentre i grandi patrimoni rimangono spettatori privilegiati, composti e immobili. La proposta di Leonardi e Rizzo non è una rivoluzione, ma un’idea di equità sostenibile: mantenere le franchigie attuali e applicare una tassazione progressiva sopra una soglia di ragionevole benessere permetterebbe di arrivare a quei 3,5 miliardi. Più radicalmente, abbassare le franchigie a 350 mila euro per i parenti diretti e 60 mila per i collaterali porterebbe addirittura a un gettito di 10 miliardi. Eppure, per un’Italia timida con le eredità e dura con il lavoro, anche queste proposte sembrano lontane come una chimera.

Il divario tra chi lavora e chi eredita, la solita ingiustizia fiscale italiana
Spostando il peso fiscale da chi lavora a chi eredita si potrebbe ottenere un gettito di oltre 3,5 miliardi di euro (Imagoeconomica).

Il sogno di un Paese che si fa custode del merito e non del privilegio

Non è solo questione di economia, è una questione culturale. In un Paese dove chi eredita riceve quasi senza pagare e chi lavora paga quasi senza ricevere, il futuro sembra legato più alla fortuna di nascita che alla fatica dell’impresa. L’idea di tassare le successioni non è una punizione, ma un atto di bilanciamento; non è un’impopolare doppia imposizione, ma una misura che potrebbe consentire di costruire, finalmente, una parità fiscale per chi vive di stipendio e non di rendita. Forse in un’Italia moderna questo dovrebbe essere un diritto, e non una chimera da rincorrere. Sarebbe il sogno di un Paese che si fa custode del merito e non del privilegio. Ma oggi, ancora una volta, la bilancia è truccata: chi lavora si affanna, e chi eredita passeggia sulle orme di una fortuna pregressa, quasi a confermare che in Italia non conta cosa fai, ma dove nasci.

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Fondi Ue per la campagna elettorale, trema il Ppe

Pubblicamente si minimizza, ma tra i corridoi del Parlamento europeo la tensione è palpabile. L’European Public Prosecutor’s Office (Eppo) ha aperto un’indagine che potrebbe far tremare il più grande gruppo parlamentare europeo: il Partito Popolare Europeo (Ppe).

Al centro dell’inchiesta c’è la campagna elettorale del 2019 di Manfred Weber, figura di spicco della politica brussellese e leader del Ppe. Come in un romanzo di Graham Greene, dove nulla è come appare, gli investigatori stanno seguendo le tracce di un intricato sistema di pagamenti che coinvolge tre alti funzionari della campagna di Weber.

La polizia belga, che lavora a stretto contatto con l’Eppo, sta indagando su un possibile doppio gioco finanziario: i tre indagati potrebbero aver ricevuto contemporaneamente compensi sia dal partito Ppe – l’organizzazione ombrello che riunisce i partiti conservatori nazionali – sia dal gruppo parlamentare Ppe. Un dettaglio non da poco, considerando che i fondi del gruppo parlamentare provengono dalle tasche dei contribuenti europei e non possono essere utilizzati per le campagne politiche.

Il doppio gioco dei fondi europei?

Il documento della polizia belga, visionato da alcuni giornalisti di Politico, parla di accuse pesanti come macigni: “falsificazione di documento pubblico”, “falsificazione di documenti pubblici da parte di un funzionario nell’esercizio delle sue funzioni”, “abuso di fiducia”, “frode” e “corruzione pubblica”. Parole che rimbombano come tuoni nei corridoi apparentemente tranquilli del Parlamento europeo.

Weber, che già incassa un doppio stipendio – 8.000 euro netti al mese come europarlamentare più 14.120 euro come presidente del Ppe – non figura tra gli indagati. Ma l’ombra di questa indagine si allunga sulla sua leadership in un momento particolarmente delicato, mentre si prepara a riformare il partito nei prossimi mesi.

La pratica di trasferire personale dalle istituzioni alle campagne elettorali è diventata quasi una consuetudine a Bruxelles. Lo stesso staff di Ursula von der Leyen ha seguito questo copione per la sua campagna 2024. Ma questa volta qualcosa potrebbe essere andato storto, e gli investigatori vogliono vederci chiaro.

Ppe, un’ombra sulla leadership di Weber

Il Ppe si difende con la fermezza di chi si sente sotto assedio: “Non siamo stati contattati dall’Eppo, né dalle autorità belghe, né da altre forze dell’ordine”, dichiarano in un comunicato. Sostengono di imporre “standard rigorosi nell’implementazione del proprio budget” e di sottoporsi volontariamente a controlli per garantire la conformità.

Ma c’è qualcosa di più profondo in questa vicenda, qualcosa che va oltre i tecnicismi delle indagini finanziarie. È il racconto di un’Europa che si trova ancora una volta a fare i conti con la trasparenza dei suoi meccanismi di potere, con quella sottile linea che separa la politica dall’amministrazione, il lecito dall’illecito.

L’indagine arriva in un momento cruciale per il Ppe, mentre il partito si prepara alle prossime elezioni europee e Weber affronta contestazioni interne sulla sua gestione. In un gioco di specchi l’indagine alimenta le contraddizioni di un’istituzione che si vuole trasparente ma che spesso si trova invischiata in zone d’ombra.

Nessuno è stato formalmente accusato, ricordano gli investigatori. Ma nell’aria di Bruxelles si respira già il profumo acre dello scandalo, mentre gli uffici dell’Eppo continuano il loro lavoro meticoloso, cercando di districare i fili di questa complessa matassa finanziaria che potrebbe rivelare molto più di quanto appaia in superficie.

Se l’indagine dovesse formalizzarsi in un’accusa, a farne le spese, si può stare certi, sarà ancora la credibilità dell’istituzione europea. Con grande giubilo dei sovranisti di ogni latitudine.

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