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Marano, il cavallo (Rai) della Lega

Il bilancio è approvato, le candidature sono già quasi tutte consegnate e tutto è pronto a Viale Mazzini in vista della formazione del nuovo Consiglio d’amministrazione Rai. Domani è l’ultimo giorno per presentare le candidature e tra i candidati in quota Lega gira con insistenza il nome di Antonio Marano, spinto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio e responsabile editoria del partito, Alessandro Morelli.

Da Silvio ai Giochi

Ex sottosegretario di Silvio Berlusconi, Marano in Rai ha coperto diversi incarichi. Tra i corridoi di Viale Mazzini si vocifera che punti addirittura alla presidenza, ma i suoi conflitti di interessi rischiano di rivelarsi un ostacolo insormontabile. Il primo più pesante inciampo è il suo ruolo di direttore commerciale della Fondazione Milano-Cortina 2026 con delega ai media partner. Detto in soldoni Marano è colui che vende e acquista spazi pubblicitari in tv e sui giornali.

Proprio in quella veste ha presentato in persona a Viale Mazzini, il bouquet degli spazi pubblicitari da comprare sui Canali Rai e Social, con un preventivo che porterà nella casse dell’Azienda pubblica tra gli 8 e i 12 milioni di euro. Inoltre, in veste di amministratore Rai, Marano dovrebbe giustificare anche al Collegio dei Sindaci e alla Corte dei Conti l’incentivo incassato tre anni fa (in tutto due anni di stipendi) per lasciare la rete pubblica e poi rientrarci con tutti gli onori.

Sulla sua candidatura al Cda della Rai (senza perdere il ruolo nella fondazione olimpica) peserebbe poi il suo ingombrante curriculum. Di Marano in Rai ci si ricorda per la condanna del 16 dicembre del 2010, insieme all’allora direttore generale Saccà, della Corte dei Conti per avere sospeso la trasmissione di Michele Santoro Sciuscià che all’epoca andava in onda su Rai2. Nel novembre del 2012 viene condannato in primo grado per la falsa testimonianza sulle ragioni dell’espulsione del giornalista Massimo Fini dalla Rai con relativa soppressione, ancora prima della partenza, del suo programma Cyrano.

Il processo si chiuse per prescrizione in secondo grado. Fini raccontò che lo stesso Marano gli parlò in quell’occasione di “gravi interferenze berlusconiane” e rese pubbliche le registrazioni di quella conversazione. Marano risulta essere quindi il perfetto coacervo di conflitti di interessi della nuova Rai al servizio degli interessi della politica molto di più di quelli del servizio pubblico. Rimane da capire perché sul sito della Fondazione Milano-Cortina, sostenuta da lauti finanziamenti pubblici, non sia possibile recuperare le informazioni sui compensi dei suoi componenti come prescrive la legge. Chissà se l’Anac se n’è mai accorta.

Per il cumulo di incarichi, Marano sarebbe in perfetta continuità nel prossimo Cda della Rai, con il consigliere in quota Lega, Igor De Biasio, presidente di Terna e ad di Arexpo che era costretto a uscire dalla stanza quando venivano trattati temi in conflitto. Una scena che potrebbe ripetersi con la nomina di Marano. Forte, no? Una Rai svuotata e silenziata nelle sue competenze migliori con un Consiglio di amministrazione tentacolare negli interessi parapolitici.

Gli altri pretendenti in Rai

Intanto, restano in tribuna gli altri candidati. In primis Francesco Storace conduttore de Il Rosso e Nero su radio Uno; Alessandro Casarin, direttore Tgr in scadenza a novembre, Federica Zanella ex parlamentare di Forza Italia e Lega, non rieletta alle Politiche 2022 ed ora nel Consiglio di amministrazione di Trenitalia. Domani scade il termine per depositare alle Camere le candidature in attesa dei due membri del Cda designati dal Mef.

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La bugie della ministra Calderone sui morti sul lavoro

Il 13 aprile in un’intervista a La Stampa la ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone ha detto che sul numero di morti sul lavoro “prima della pandemia eravamo al di sotto della media europea”. Non è vero. 

Secondo la ministra Calderone l’Italia sarebbe sotto la media dei morti sul lavoro tra i Paesi Ue. È falso: siamo tra i peggiori

Commentando i sette lavoratori morti alla centrale idroelettrica di Bargi, cavalcando la ciclica indignazione di morti che meritano di occupare per qualche ora il dibattito politico, la ministra ha detto: “I numeri vanno letti con attenzione”. Secondo la ministra, infatti, l’Italia ha più morti sul lavoro rispetto alla media europea solo perché ha inserito la Covid-19 “tra le cause di infortunio sul lavoro”. Secondo la ministra addirittura l’Italia sarebbe stata sotto la media europea prima della pandemia. 

Come spiega Pagella politica le statistiche sulle morti sul lavoro nei 27 Paesi membri dell’Unione europea sono raccolte periodicamente da Eurostat, l’ufficio statistico dell’Ue. I dati più aggiornati sono stati pubblicati a ottobre e fanno riferimento al 2021. Per confrontarli però bisogna tenere conto almeno di due fattori, ovvero che Paesi più grandi, più popolosi e con più occupati hanno un numero di morti sul lavoro più alto in valori assoluti e che la diversa pericolosità”dei settori lavorativi non è intesta allo stesso modo. Entrambi questi fattori – spiega Pagella politica stanno alla base di uno specifico indicatore calcolato da Eurostat: il cosiddetto “tasso standardizzato di incidenza”. Questo tasso indica il numero di morti sul lavoro ogni 100 mila lavoratori, aggiustato per le dimensioni dei singoli settori economici. 

Tenendo conto di questo metodo nel 2021 l’Italia ha registrato un tasso standardizzato di incidenza pari a 3,17 morti ogni 100 mila lavoratori, l’ottavo dato più alto tra i Paesi Ue, contro una media europea pari a 2,23 (Grafico 1). Tra gli altri grandi Paesi Ue, la Francia ha un dato più alto di quello italiano (4,45), mentre Germania (1,08) e Spagna (2,49) hanno numeri più bassi. Al primo posto c’è la Lituania (5,45), all’ultimo i Paesi Bassi (0,43).

È vero che con la pandemia, dal 2020 in poi, gli stati Ue hanno adottato criteri diversi per catalogare le morti di persone che hanno contratto la malattia sui luoghi di lavoro. L’Italia, a differenza di altri Paesi, ha riconosciuto l’infezione contratta sul luogo di lavoro come infortunio sul lavoro. Negli anni Covid tra l’altro i numeri sono stati sensibilmente condizionati dall’arresto di alcune attività professionali e dall’accelerazione di altre (come i lavoratori in ambito sanitario). Per questo i dati del 2020 e del 2021 sono considerati anomali quando si tratta di analizzare gli incidenti professionali mortali. La tesi della ministra Calderone è però sconfessata dai numeri.

Nel 2019 l’Italia ha registrato un tasso di 2,61 morti sul lavoro, contro una media europea di 2,17

Nel 2019, spiega Pagella politica , l’Italia ha registrato un tasso standardizzato di incidenza di 2,61 morti sul lavoro, contro una media europea di 2,17. In generale, dal 2008 in poi (ossia da quando sono disponibili i dati Eurostat), il tasso italiano è sempre stato superiore a quello europeo. Dunque non è vero che l’Italia è sopra alla media Ue solo per colpa della Covid-19. La ministra Calderone cita numeri che non esistono. Nel frattempo l’indignazione per i morti nell’incidente del 9 aprile sono scivolati nelle retrovie delle notizie. La sicurezza sul lavoro in Italia è un sottotesto da sventolare in occasione delle consuete tragedie proponendo ogni volta un maggiore impegno che poi non si realizza. L’importante è apparire credibili nel lutto e nei numeri. Anche se i numeri sono falsi. 

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Ogni 28 ore in Italia un amministratore pubblico viene minacciato

Ogni 28 ore un sindaco, un amministratore pubblico o un dipendente della pubblica amministrazione viene minacciato. Sono 315 gli atti intimidatori censiti da Avviso Pubblico nel 2023 con un importante incremento al Nord dove si verificano il 39% degli episodi totali. 

Telefonate, incendi e microspie

A Lonate Pozzolo la sindaca Elena Carraro – era ancora in campagna elettorale – ha ricevuto una telefonata sul luogo di lavoro. Dall’altra parte della cornetta si sentiva la colonna sonora del film Profondo rosso. Un consigliere della sua lista nel 2019 aveva ricevuto misteriosi spari sotto casa. Aveva denunciato la Ndrangheta potentissima in quel territorio, dove la cosca dei Farao-Marincola spadroneggia da tempo. A Chivasso, in provincia di Torino, il sindaco Claudio Castello per due anni è stato protetto da un servizio di vigilanza dinamica dei carabinieri: due lettere anonime minacciavano lui e i componenti della sua famiglia. A Pisa è finita sotto scorta l’assessora al Sociale Veronica Poli per le minacce ricevute a Follonica (Grosseto) sono finiti sotto attacco l’assessora Mirjam Giorgieri e altri componenti della Giunta.

Il sindaco di Ceccano (Frosinone) Roberto Caligiore ha ritrovato una microspia nel vano porta oggetti della sua auto. A Caivano, comune sciolto per mafia, un consigliere comunale era stato avvicinato “da due persone a bordo di uno scooter e colpito con un violento pugno al volto, poco prima del Consiglio comunale al quale avrebbe partecipato con la faccia gonfia e livida”. Bombe invece nei pressi delle abitazioni dei sindaci di Roccapiemonte e Castel San Giorgio, nel salernitano. A Terlizzi (Bari) il dirigente del settore urbanistica e sportello attività produttive del Comune ha ricevuto un proiettile in un pacco postale. A Corigliano Rossano, in provincia di Cosenza, bruciano le auto della presidente del Consiglio comunale e di un imprenditore mentre finisce in arresto un uomo che ha minacciato un funzionario del Comune. 

Nel rapporto di Avviso Pubblico censiti 315 atti intimidatori con un importante incremento al Nord dove si verificano il 39% degli episodi totali

L’associazione Avviso Pubblico presentando il nuovo rapporto “Amministratori sotto tiro” ha evidenziato come il 55% dei casi di aggressione e minacce si registra nei comuni al di sotto dei 20mila abitanti; mentre il 21% avvengono in Comuni che in un passato più o meno recente sono stati sciolti per infiltrazioni mafiosa. È il caso di ben 42 Comuni. Ancora una volta si registra un’alta percentuale di minacce e aggressioni alle amministratrici: il 17% del totale. Ma a cambiare è la modalità di intimidazione: le lettere minatorie cedono il passo ad azioni più violente come gli incendi.

“Per queste ragioni Avviso Pubblico conferma la propria disponibilità a portare esperienza, conoscenza e proposte all’interno dell’Osservatorio costituito presso il Ministero dell’Interno, manifestando al Parlamento e al Governo la necessità di confermare per l’anno 2025 e seguenti gli stanziamenti del fondo a beneficio degli amministratori e di chi è oggetto di atti di intimidazione. La vicinanza di tutti i cittadini e il sostegno a chi è in prima linea sul territorio si manifesta con gesti concreti e con la cooperazione delle forze dell’ordine e della magistratura a tutela di chi rappresenta le istituzioni repubblicane», ha spiegato il presidente di Avviso Pubblico Roberto Montà.

“I dati – spiega – confermano quantitativamente un fenomeno inaccettabile, che in alcuni luoghi d’Italia ha una pervasività tale da diventare quasi “ordinaria” modalità di relazione con le istituzioni. Atti concreti come violenza fisica, incendi e attentati dinamitardi – non solo lettere minatorie, offese, fake news e ingiurie sui social – si concentrano soprattutto al Centro-Sud”. 

Un fenomeno costante negli anni. Nel 2023, si registra una lieve flessione del 3,5% rispetto al 2022 (315 casi invece di 326), lontani dai numeri del 2018 (574). Per la prima volta dal 2016 la maglia nera delle intimidazioni va alla Calabria (con 51 casi censiti, +21% sul 2022), soprattutto nel Cosentino dove – a Corigliano e in altri comuni – si sono registrati 15 episodi. Poi vengono Campania (39 vicende, -20%), Sicilia (35, -30%) e Puglia (32, -33%). Il 21% dei 315 atti intimidatori (fra cui vanno segnalati 14 in terra campana, 10 sia in Calabria che in Sicilia e 5 in territorio pugliese) avvengono in comuni sciolti per mafia. Marche e Friuli Venezia Giulia (3 episodi ciascuna), Basilicata e Molise (4) sono le regione con meno segnalazioni. 

Il sindaco di Corigliano-Rossano: “molti cittadini ti spiegano che, per fare il sindaco, bisogna essere una sorta di super eroe”

Flavio Stasi, sindaco di Corigliano-Rossano spiega che ”le minacce arrivano quando si mette mano ad ambiti delicati come gli abusi sul demanio, gli spazi cimiteriali, i posteggi commerciali e altro ancora”. Il risultato finale, spiega Stasi, è che “molti cittadini ti spiegano che, per fare il sindaco, bisogna essere una sorta di super eroe, cosa che io contesto perché in realtà certi ruoli dovrebbero essere appannaggio di tutte le persone per bene”. 

L’Italia primeggia tra i Paesi dell’Ue. Solo quest’anno è stata scalzata dalla Francia, dopo avere detenuto il primato dal 2020 al 2022. Ma al contrario di Avviso Pubblico, l’indagine ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project) non censisce alcune tipologie di minacce.

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I garantisti a orologeria

I garantisti a orologeria che denunciano la magistratura a orologeria sono uno dei tanti mali di questo Paese, scosso solo per qualche minuto da notizie che attraversano la politica giusto il tempo di ritagliare qualche comunicato stampa in attesa della polemica successiva. I garantisti a orologeria li riconosci perché solitamente se ne fottono del carcere ma denunciano i malanni fisici e le scarse condizioni di vivibilità dell’unica cella in cui sta il loro amico – spesso il loro compagno di partito – incappando nell’errore degli stupidi: leggere il mondo con l’ottica della sola esperienza personale.

I garantisti a orologeria li riconosci perché i giudici e i magistrati vengono valutati in base all’affinità con le loro idee. Se convergono negli interessi politici sono quindi degli ottimi uomini di legge, se applicano leggi che smontano la loro propaganda allora sono dei sabotatori. I garantisti a orologeria li riconosci perché sono benevoli con i colletti bianchi e contemporaneamente sono prefetti di ferro con i disperati. Tra le righe il messaggio è “abbiamo già troppi problemi con gli straccioni, lasciamo in pace le brave persone”. 

I garantisti a orologeria li riconosci perché fino a ieri mattina chiedevano lo scioglimento del comune di Bari e se possibile della Puglia intera. Ci dicevano che l’indagata che prima era nella destra ormai apparteneva alla sinistra, quindi colpa della sinistra. Poi ieri hanno indagato un politico che da sinistra si è spostato a destra e ripetono che sia colpa della sinistra. Ma la Regione Sicilia non vogliono scioglierla, niente di niente. 

Buon giovedì. 

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Pochi Rave e meno Party. Altro flop delle destre

Ve la ricordate la legge contro i rave party? Fu il primo discusso provvedimento del governo Meloni appena insediato, con la presidente del Consiglio e il suo vice Matteo Salvini – all’epoca alleato più mansueto – che bramavano l’essere indicati fin da subito come uomini forti al comando. Proprio in quei giorni si discuteva di un rave party dalle parti di Modena, presentato come la più grave minaccia per la democrazia italiana.

Ve la ricordate la legge contro i rave party? Fu il primo discusso provvedimento del governo Meloni appena insediato

Meloni e Salvini si intestarono un decreto uscito dal Consiglio dei ministri che conteneva nuove norme per evitare l’organizzazione di eventi simili. Che la guerra ai rave party fosse la prima ossessiva urgenza del governo lo dimostra anche lo strumento usato, il decreto legge che secondo l’articolo 77 della Costituzione andrebbe adottato solo in casi di necessità e urgenza. Il decreto straordinariamente necessario e urgente oggi dimostra tutto il suo nanismo politico di fronte alle impellenze contemporanee con la terza guerra mondiale a pezzi alle porte dell’Europa.

È il primo di una lunga serie di provvedimenti che inseguono il sensazionalismo del momento senza avvicinarsi lontanamente alla dignità e alla durabilità delle riforme che sarebbero richieste a un governo credibile. Ma c’è di più. Quella norma – lo scrive il ministro della Giustizia Carlo Nordio – ha prodotto finora solo 8 persone imputate e nessuna condanna. Il sedicente pugno duro non era altro che una manata contro il vento, utile alla politica percepita che alimenta il giornalismo d’allarme. Per questo andrebbe ricordata molto bene la legge contro i rave party: per osservare il pugno vuoto due anni dopo. È il lascito politico di questo governo.

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L’orbanizzazione dell’Italia continua: ora tocca all’aborto

A settembre del 2022 la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ripeteva che non avrebbe mai toccato il diritto di abortire e la legge 194. Ovviamente non era vero. Tanto’è che la sua passione per gli antiabortisti è finita in piena pagina sul britannico The Guardian in cui si sottolinea come “il parlamento ha approvato una misura del governo di estrema destra (sì, all’estero chiamano questo governo con il suo nome nda) di Giorgia Meloni che ha permesso agli attivisti anti-aborto di entrare nelle cliniche di consultazione sull’aborto”. Non sfugge al prestigioso tabloid che il tutto sia finanziato “dal fondo di ripresa post-pandemia dell’UE, di cui l’Italia è la più grande beneficiaria”. 

Evidentemente all’estero desta il giusto scalpore che in Italia lo svuotamento della legge 194 del 1978 non abbia avuto nemmeno bisogno di riforme. “La mossa – scrive il Guardian – segue le misure già adottate da diverse regioni guidate dalla destra nel finanziamento di gruppi di pressione per infiltrarsi nelle cliniche di consultazione, che forniscono alle donne un certificato che conferma il loro desiderio di porre fine a una gravidanza. Alcune regioni, come le Marche, guidate dai Fratelli d’Italia di Meloni, hanno anche limitato l’accesso alla pillola abortiva”. 

Giorgia Meloni finisce sul The Guardian per la sua guerra al diritto all’aborto. Critiche anche dal governo spagnolo

Normale anche che faccia rumore la dichiarazione del ministro agli Esteri nonché presidente di Forza Italia, Antonio Tajani, secondo cui “non dobbiamo criminalizzare coloro che sono contrari all’aborto” perché crede “che ognuno si comporti secondo le proprie convinzioni e coscienza”. La legge 194 è di difficile applicazione poiché “secondo i dati del ministero della salute del 2021, circa il 63”, scrive il Guardian. È lo stesso dato che da anni urlano le attiviste e gli attivisti per l’aborto, inascoltati. 

Critiche al governo italiano arrivano anche dalla Spagna. “Consentire le molestie organizzate contro le donne che vogliono interrompere la gravidanza significa minare un diritto riconosciuto dalla legge. È la strategia dell’ultradestra: intimidire per annullare i diritti, per fermare l’uguaglianza tra donne e uomini”. Lo ha affermato la ministra della Parità spagnola Ana Redondo su X, condividendo un articolo del diario.es sull’emendamento della maggioranza italiana che apre alla presenza dei movimenti pro-vita nei consultori. “Nel contesto europeo si è appena fatto un passo importante nel riconoscimento dell’autodeterminazione delle donne, con la richiesta del parlamento di inserire la libertà di scelta di interruzione della gravidanza nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione. È naturale che ci sia una preoccupazione rispetto a quanto sta avvenendo in Italia”, aggiunge Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera. 

Bocciati in Aula tutti gli emendamenti dell’opposizione che proponevano di rilanciare il ruolo dei consultori

Oggi la Camera ha bocciato gli ordini del giorno presentati dalle forze di opposizione che proponevano di rilanciare il ruolo dei consultori. Per la senatrice del Pd Valeria Valente “il comportamento della maggioranza rappresenta una dimostrazione che purtroppo non basta una donna a mettere in campo le politiche delle donne. La 194, vale la pena ricordarlo – aggiunge Valente – non solo è una legge di grande civiltà, ma soprattutto è una legge che ha tutelato in questi anni la salute e la sicurezza delle donne, ha abbattuto il numero di aborti clandestini, ha consentito alle donne semplicemente scelte di libertà”. Il M5s rilancia con un progetto di legge “per inserire l’aborto in Costituzione”, spiega la prima firmataria Gilda Sportiello. “Non toccherò la 194”, diceva Meloni. Promessa non mantenuta. 

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In Ue e in Italia scoppia per l’ennesima volta la passione per Draghi

Il giorno dopo, come previsto, risuonano forti le trombe dei fan di Mario Draghi. L’ex presidente della Bce ha scelto la maschera preferita per partecipare da non partecipante alle prossime elezioni europee: quella del convitato di pietra. Nelle ultime ore lascia trapelare di non voler pensare a un ritorno attivo in politica e di non sentirsi coinvolto in questioni elettorali. Anche questo draghiamo l’abbiamo già visto. Il fattore Draghi per funzionare deve essere il risultato di un’invocazione, al limite del salvataggio. E l’invocazione piano piano si sta costruendo.

Il grande regista dell’operazione è Emmanuel Macron che da tempo lavora al piano Draghi. Il rapporto tra l’attuale presidente della Commissione Ue von der Leyen e il presidente francese è in netto deterioramento. Draghi assicurerebbe un gran spolvero a Macron e ai liberali di Renew. C’è però un particolare non trascurabile: i liberal di Renew prevedibilmente non incasseranno gradi risultati dalle urne alle prossime elezioni e Draghi quindi deve apparire come candidato molto più largo. Ecco perché Macron briga e dice privatamente senza esporsi in pubblico. Il piano di Macron prevede il coinvolgimento della Francia, della Spagna, della Germania e dell’Italia con la Polonia come nuova invitata al tavolo degli autodichiarati competenti, la nouvelle vague degli ultimi anni che potrebbe funzionare ancora. 

Macron lavora dietro le quinti per portare Draghi a capo della Commissione. I liberal italiani (ovviamente) esultano

In Italia scoppia di felicità Carlo Calenda di Azione. “L’Italia ha una sua auctoritas, come ha dimostrato Mario Draghi. Noi ci ispiriamo al lavoro di Mario Draghi. Ci piacerebbe anzi riteniamo indispensabile un ruolo di Mario Draghi come presidente del Consiglio o della Commissione europea, noi faremo il possibile perché questo accada”, dice durante un incontro con i giornalisti. I renziani fanno uscire un comunicato (con il solito trucco di affidarlo a “fonti”) per fare sapere che il loro capo Renzi “punta su Draghi in Ue”. Anche questo è un déjà vu: il senatore fiorentino è campione del mondo nell’intestarsi processi che stanno già accadendo anche senza di lui. Così come l’utilizzo di Draghi come clava contro M5s e Lega che agita l’eurodeputato di Italia Viva Nicola Danti secondo “un eventuale ritorno di Draghi in Europa “ridurrebbe ed anche di molto le loro castronerie”. 

Dal Pd Arturo Scotto si augura che l’ex presidente del Consiglio abbia “una funzione in Ue” e che “abbia una funzione nell’Ue e che le scelte fatte non siano soltanto sulla base del risultato elettorale ma anche rispetto al valore degli Stati”. Parole come carezze arrivano anche dal commissario dem Gentiloni e dal sindaco di Roma Gualtieri. Tace la segretaria Schlein, consapevole che l’elettorato che l’ha portata al Nazareno non gradirebbe. Giuseppe Conte plaude il “cambio di rotta” auspicato da Draghi puntualizzando di “essere stato il primo a dirlo da presidente del Consiglio”. Il messaggio è chiaro: per il M5s non è Draghi quello che serve. Dal partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni parla invece il capogruppo alla Camera Tommaso Foti ricordando che “chi entra Papa esce cardinale”. Il ministro meloniano Urso invece la spara grossa: “le parole di Draghi sono quelle di Meloni”, dice. 

A rovinare i piani ci sono le indiscrezioni del libro di Salvini: ama il potere molto più di quello che sembra

Nell’ennesimo giorno di beatificazione dell’ex presidente della Bce irrompe invece Salvini con alcune anticipazioni del suo nuovo libro. Il leader della Lega e ministro dei Trasporti scrive che Draghi formò il suo governo senza consultare i capi di partito ma soprattutto che Draghi chiese una mano per tentare di salire al Colle prima della rielezione di Mattarella. E questo per il draghismo è il colpo più duro perché se il “tecnico sopra ai partiti” si mostra bramoso di scalare i partiti si sgretola l’allure. 

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Dilaga un’altra guerra a Gaza. Al New York Times va in stampa il negazionismo

Il sito d’inchiesta The intercept ha scovato una comunicazione all’interno della redazione del New York Times rivolta ai giornalisti che si occupano della guerra tra Israele e Hamas in cui si invita a non usare i termini “genocidio” e “pulizia etnica” e ad “evitare” di usare la frase “territorio occupato” quando si descrive la terra palestinese. Il memorandum istruisce anche i giornalisti a non usare la parola Palestina “tranne in casi molto rari” e ad evitare il termine “campi profughi” per descrivere le aree di Gaza storicamente colonizzate da palestinesi sfollati espulsi da altre parti della Palestina durante le precedenti guerre israelo-arabe.

I giornalisti del New York Times che si occupano della guerra a Gaza sono stati invitati a non usare i termini “genocidio” e “pulizia etnica”

Le aree sono riconosciute dalle Nazioni Unite come campi profughi e ospitano centinaia di migliaia di rifugiati registrati. Fingere un dibattito democratico anestetizzando il linguaggio non è una novità in tempi di guerra. Siamo cresciuti per anni con i missili intelligenti, come se si potesse intelligentemente lanciare missili e abbiamo avuto modo di assaporare l’esportazione di democrazia come vestito buono della guerra.

Tornando al NY Times forse vale la pena ricordare che i termini “genocidio” e “pulizia etnica” sono piena responsabilità di coloro che da anni (mica da ora) li pronunciano argomentando la propria scelta. Si può essere d’accordo o meno. Se ne dibatte, appunto, non si cancella. Ma l’enorme malafede sta nel vietare il termine “territorio occupato” che riflette esattamente lo status giuridico di Gaza e della Cisgiordania nel diritto internazionale. Il NY Times decide di stare dalla parte degli estremisti e dei negazionisti. L’importante è che questo sia chiaro.

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Eccola la nuova Libia, la Tunisia

In un comunicato congiunto 36 organizzazioni della società civile, tra cui il Forum Tunisien pour les Droits Economiques et Sociaux (FTDES), Avocats Sans Frontières (ASF) e Migreurop, a un anno dal discorso razzista del presidente Kaïs Saïd, denunciano la sistematizzazione della violenza commessa dalle autorità tunisine contro le persone africane.

Si legge che le politiche dei governi che si sono succeduti in Tunisia hanno continuato a piegarsi ai dettami dell’Unione Europea per esternalizzare le frontiere, delegando tutta la gestione della sicurezza e la sorveglianza dei confini ai Paesi del Mediterraneo meridionale. Questa esternalizzazione è accompagnata da una condizionalità in base alla quale aiuti finanziari, sussidi e prestiti vengono erogati ai Paesi del Sud se accettano di svolgere il ruolo di guardie di frontiera. Queste misure sono state ratificate nell’ambito di accordi con alcuni Paesi del vicinato meridionale dell’Unione europea, violando ancora una volta la base fondamentale di qualsiasi partenariato, che può essere fondato solo su un rapporto equilibrato e di rispetto reciproco tra i Paesi del Nord e del Sud.

Oltre a intercettare le persone migranti nelle acque territoriali nazionali, la Guardia nazionale marittima tunisina cerca di perseguirli all’interno del Paese, in particolare spostandoli arbitrariamente, senza tenere conto della loro situazione umanitaria o degli accordi internazionali firmati e ratificati dalla Tunisia. Ciò è avvenuto in diverse regioni del Paese, dove le forze di sicurezza hanno scelto di spingere i migranti verso alcune aree periurbane, in particolare El Aamra, El Jédériya e Kasserine, dove la situazione è sempre più preoccupante e allarmante.

Eccola la nuova Libia, la Tunisia. 

Buon mercoledì. 

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Gimbe, l’aumento della spesa sanitaria è “un’illusione ottica”

L’aumento della spesa sanitaria Un’illusione ottica. La Fondazione Gimbe analizza il Documento di Economia e Finanza (DEF) 2024 in forma semplificata e smentisce le parole di Giorgia Meloni.

“Rispetto alle previsioni di spesa sanitaria sino al 2027 – afferma il presidente Nino Cartabellotta – il DEF 2024 certifica l’assenza di un cambio di rotta e ignora il pessimo “stato di salute” del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), i cui princìpi fondamentali di universalità, uguaglianza ed equità sono stati traditi, con conseguenze che condizionano la vita delle persone, in particolare delle fasce socio-economiche più deboli e delle persone residenti nel Mezzogiorno. Dai lunghissimi tempi di attesa all’affollamento inaccettabile dei pronto soccorso; dalle diseguaglianze regionali e locali nell’offerta di prestazioni sanitarie alla migrazione sanitaria dal Sud al Nord; dall’aumento della spesa privata all’impoverimento delle famiglie sino alla rinuncia alle cure”. 

Secondo Gimbe il DEF 2024 certifica per l’anno 2023 un rapporto spesa sanitaria/PIL del 6,3% e, in termini assoluti, una spesa sanitaria di € 131.103 milioni, oltre € 3.600 milioni in meno rispetto a quanto previsto dalla NaDEF 2023 (€ 134.734 milioni). Per Cartabellotta la riduzione di spesa consegue in larga misura al mancato perfezionamento del rinnovo dei contratti del personale dirigente e convenzionato per il triennio 2019-2021, i cui oneri non sono stati imputati nel 2023 e spostati al 2024. In misura minore hanno inciso le spese per contrastare la pandemia, che sono state inferiori al previsto. 

Per il presidente Gimbe Cartabellotta “il Def 2024 certifica l’assenza di un cambio di rotta e ignora il pessimo stato di salute del Servizio Sanitario Nazionale”

Rispetto al 2022 la spesa sanitaria nel 2023 si è ridotta dal 6,7% al 6,3% del PIL e di € 555 milioni in termini assoluti. “Questo primo dato – commenta Cartabellotta – certifica che il 2023 è stato segnato da un netto definanziamento in termini di rapporto spesa sanitaria/PIL (-0,4%), facendo addirittura segnare un valore negativo della spesa sanitaria, il cui potere d’acquisto è stato anche ridotto da un’inflazione che nel 2023 ha raggiunto il 5,7% su base annua”. Ma quindi l’incremento di oltre 7,6 miliardi di euro per il 2024 sventolato dal governo? Per Cartabellotta è una dato “illusorio”. “In parte è dovuto – spiega – al un mero spostamento al 2024 della spesa prevista nel 2023 per i rinnovi contrattuali 2019-2021, in parte agli oneri correlati al personale sanitario dipendente per il triennio 2022-2024 e, addirittura, all’anticipo del rinnovo per il triennio 2025-2027. Una previsione poco comprensibile, visto che la Legge di Bilancio 2024 non ha affatto stanziato le risorse per questi due capitoli di spesa”.

Senza considerare, peraltro, l’erosione del potere di acquisto, visto che secondo l’ISTAT ad oggi l’inflazione si attesta su base annua a +1,3%. Nel triennio 2025-2027, a fronte di una crescita media annua del PIL nominale del 3,1%, il DEF 2024 stima al 2% la crescita media annua della spesa sanitaria. Il rapporto spesa sanitaria/PIL si riduce dal 6,4% del 2024 al 6,3% nel 2025-2026, al 6,2% nel 2027.

Sul rapporto spesa sanitaria/Pil l’Italia è ultima tra i Paesi del G7

“Il DEF 2024 – chiosa il Presidente – conferma che, in linea con quanto accaduto negli ultimi 15 anni, la sanità pubblica non rappresenta affatto una priorità neppure per l’attuale Governo. In tal senso, la comunicazione pubblica dell’Esecutivo continua a puntare esclusivamente sulla spesa sanitaria in termini assoluti che dal 2012 è (quasi) sempre aumentata rispetto all’anno precedente, e non sul rapporto spesa sanitaria/PIL che documenta al contrario un lento e inesorabile declino, collocando l’Italia prima tra i paesi poveri dell’Europa e ultima del G7 di cui proprio nel 2024 il nostro Paese ha la presidenza”. Con buona pace dei proclami di Giorgia Meloni. 

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