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Condoni e sanatorie, il Governo Meloni ha varato 18 provvedimenti per aiutare i furbetti

Una Repubblica fondata su condoni e sanatorie. La Cgil mette in fila i 18 provvedimenti emanati dal governo Meloni che, in nome della ‘pace fiscale’, favoriscono chi non paga quanto dovuto allo stato o alle amministrazioni locali con palese ingiustizia nei confronti di chi paga regolarmente e di vantaggi non ne riceve. 

L’economista Cristian Perniciano ha cercato sanatorie e condoni durante il governo Meloni: sono 18

Cristian Perniciano, economista che per la Cgil nazionale si occupa di politiche fiscali, sottolinea al gran parte dei provvedimenti nella prima legge di Bilancio del 2022 che contiene 12 tra condoni e sanatorie. Un messaggio politico chiaro da parte del governo Meloni appena insediato: la lotta all’evasione fiscale è una delle ultime priorità dell’esecutivo e della maggioranza. Le promesse in campagna elettorale in questo caso sono state mantenute. In quella legge di Bilancio viene approvata la “rottamazione quater” delle cartelle esattoriali emesse tra il 1° gennaio 2000 ed il 30 giugno 2022, in modo che il debitore beneficiasse dell’abbattimento di sanzioni e interessi, interessi di mora, sanzioni civili e somme aggiuntive e anche l’aggio in favore dell’agente della riscossione.

Poi c‘è la rottamazione delle multe stradali, l’annullamento automatico dei debiti fino a 1000 euro con l’Agenzia delle entrate dal 2000 al 2010. Poi una sanatoria per i guadagni in criptovalute, oltre a un ribasso della tassazione. Poi ci sono le agevolazioni per gli avvisi bonari, con sanzioni ridotte al 3% invece del 10%, una sanatoria delle irregolarità formali, cancellate con un pagamento di 200 euro per ciascun periodo d’imposta e la riduzione delle sanzioni sugli atti di accertamento. Non è tutto.

Dalla manovra sono arrivati anche lo sconto per la conciliazione agevolata delle controversie tributarie, con una sostanziale riduzione delle sanzioni e una dilazione dei pagamenti sino a 5 anni, poi la definizione agevolata delle liti pendenti, per chiudere le controversie con il fisco con sconti e dilazioni sino a 54 rate e infine “il salva calcio”, vale a dire la possibilità per società e associazioni sportive di rateizzare in 5 anni il pagamento dei versamenti sospesi per l’emergenza Covid.

Meloni aveva parlato delle tasse come “pizzo di Stato”. Poi si era scusata ma i fatti dicono che la pensa proprio così

È di questo governo anche la rinuncia agevolata dei giudizi in cassazione, con la riduzione delle sanzioni a un diciottesimo del minimo previsto dalla legge oltre allo scudo penale per alcuni reati tributari, introdotto nella legge che stabiliva misure urgenti a sostegno delle famiglie e delle imprese per l’acquisto di energia elettrica e gas naturale, nonché in materia di salute e adempimenti fiscali. Lo scudo penale dei reati tributari hanno dovuto infilarlo in una legge che stabiliva misure urgenti a sostegno delle famiglie e delle imprese per l’acquisto di energia elettrica e gas naturale, nonché in materia di salute e adempimenti fiscali. Troppo complicato metterlo nella legge di Bilancio. Ancora: la riduzione delle multe per chi non emette scontrini e fatture. La delega fiscale ha seguito la stessa linea don due provvedimenti: la rateazione “ordinaria” degli importi dovuti sino a 10 anni e la cancellazione automatica  dopo 5 anni delle somme inesigibili. 

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva parlato delle tasse come un “pizzo di Stato” durante un suo comizio a Catania il 27 maggio dell’anno scorso. Sommersa dalle critiche aveva poi parlato di “evasione come terrorismo”. Aveva capito perfettamente che le cose bastava farle senza bisogno di dirle e quei 18 provvedimenti puntellati durante il suo governo sono molto di più dei due indizi che fanno una prova. 

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Medio Oriente, Israele promette vendetta e Teheran risponde

Israele risponderà all’Iran. L’attacco potrebbe essere “imminente. Nonostante le pressioni dell’Onu e dell’occidente il governo di Benyamin Netanyahu ha deciso. Yoav Gallant, il ministro della Difesa israeliana, l’ha comunicato a Lloyd Austin, il capo del Pentagono americano: “Non abbiamo altra scelta che contrattaccare”, gli avrebbe detto secondo la rivista Axios. Stesso concetto ribadito da Herzi Halevi, il capo di stato maggiore, parlando ai piloti nella base di Nevatim, deserto del Negev, che è stata colpita da un missile lanciato dai Pasdaran: “L’Iran voleva bersagliare le nostre capacità strategiche, la rappresaglia è inevitabile”.

Il ministro della Difesa israeliana Yoav Gallant: “non abbiamo altra scelta che contrattaccare”

Teheran  ha messo in stato di massima allerta le sue difese aeree e ha ammonito che l’eventuale azione armata di Israele stavolta “avrà una risposta molto dura”. Il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian – lo scrive Mehr – avrebbe detto che l’inefficacia del Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel fermare le azioni israeliane non ha lasciato altra scelta all’Iran se non quella di ricorrere a un’operazione difensiva e punire Israele. Parlando con il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres durante una conversazione telefonica lunedì sera, Amirabdollahian ha aggiunto che l’Iran eavrbbe potuto attaccare Israele in modo molto più ampio ma ha preso di mira solo alcune postazioni militari israeliane, da dove hanno attaccato il consolato iraniano a Damasco.

L’Iran: pronti a usare “un’arma che non abbiamo mai usato”

l direttore generale dell’Aiea, l’agenzia internazionale per l’energia atomica, Rafael Grossi ha detto, parlando ai giornalisti a margine di un’audizione all’Onu, che l’Iran ha chiuso i suoi impianti nucleari domenica per “motivi di sicurezza”, li ha riaperti lunedì ma l’Aiea ha tenuto lontani i suoi ispettori dell’Aiea anche oggi “riprenderemo domani”. Lo scrive Haaretz. Interrogato sulla possibilità di un attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani, Grossi ha detto: “Siamo sempre preoccupati per questa possibilità”. E ha esortato a “estrema moderazione”. Il Comitato per la Sicurezza Nazionale del Parlamento iraniano, Abolfazl Amouei, ha dichiarato che se Israele dovesse rispondere all’attacco di droni e missili dell’Iran, Teheran è “pronto a usare un’arma che non abbiamo mai usato“. Lo ha scritto l’Iran International. Nella stessa dichiarazione, Amouei ha affermato che Israele dovrebbe considerare i suoi prossimi passi e “agire con saggezza”.

Quattro funzionari statunitensi hanno detto all’emittente statunitense Nbc News che un’eventuale risposta israeliana all’attacco iraniano sarà di portata limitata e riguarderà probabilmente attacchi contro le forze militari iraniane e i proxy sostenuti da Teheran al di fuori dell’Iran. Le opzioni potrebbero includere un attacco in Siria, hanno precisato tre funzionari americani che non si aspettano che la risposta colpisca gli alti funzionari iraniani, ma piuttosto le spedizioni o gli impianti di stoccaggio con armi o componenti missilistici avanzati inviati dall’Iran a Hezbollah.

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Il ministro che chiamava le macchine

Venerdì scorso sono scese in piazza 12mila persone appartenenti a tutte le sigle sindacali per contestare l’accordo di Stellantis (già Fiat) con cui altre 3mila e 600 lavoratori dovranno “volontariamente” uscire dagli stabilimenti italiani di un’azienda che di italiano ha davvero poco. A Torino con gli operai c’erano anche gli studenti. Altri 1.500 lavoratori dovranno lasciare la fabbrica con l’accordo sulle uscite incentivate. Come se non bastasse, due giorni fa, l’ad Carlos Tavares è tornato a minacciare altri “feriti e vittime” se il governo lascerà entrare un concorrente cinese. 

Ci si aspetterebbe che il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso imponesse il ruolo del governo, aprisse il tavolo delle trattative, mettesse in campo tutti gli strumenti a disposizione per salvare i posti di lavoro. 

Che ha fatto il ministro? Si è infilato in una polemica sul nome di un tipo di auto, quasi fosse stato in un forum di appassionati, irritato dal fatto che Alfa Romeo avesse deciso di chiamare Milano un suo modello prodotto in Polonia. Qualcuno avrebbe bonariamente potuto pensare che fosse il primo passo di una complessa strategia. Niente di tutto questo. Quelli all’Alfa Romeo hanno risposto che “Il nome Milano, tra i favoriti dal pubblico, era stato scelto per rendere tributo alla città dove tutto ebbe origine nel 1910” e sottolineando come ci siano “temi di stretta attualità più rilevanti del nome di una nuova autovettura” hanno decisa di chiamarla Junior. Ci si poteva aspettare quindi una mossa successiva da parte del ministro ma niente. Urso ha espresso “grande soddisfazione”. Immaginiamo come siano soddisfatti anche gli operai. 

Buon martedì. 

Nella foto: manifestazione a Torino, 12 aprile 2024 (foto Marioluca Bariona)

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La Giustizia nell’era di Giorgia. Forte soltanto con i deboli

Ospite del Festival internazionale dell’Antimafia “L’Impegno di tutti” organizzato dall’associazione Wikimafia a Milano Nino Di Matteo ha messo in fila le riforme Cartabia e Nordio osservando una curiosa coincidenza con i desiderata di Licio Gelli e poi Silvio Berlusconi. Il magistrato, già componente del Consiglio superiore, ha passato in rassegna rapidamente le norme recentemente approvate dai governi di Mario Draghi e Giorgia Meloni e quelle attualmente in discussione in Parlamento.

Una giustizia feroce con la povera gente e le persone comuni che si professa garantista per lasciare impunite le persone vicine al potere

“Riforme costituzionali, separazione delle carriere, attenuazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, limitazione dell’utilizzo d’intercettazioni telefoniche e ambientali, abrogazione dell’abuso d’ufficio, modifica del reato di traffico d’influenze. E poi: divieto per i magistrati di parlare con la stampa. E non mi riferisco – ha detto Di Matteo – ovviamente agli atti coperti da segreto – ma a quelli ormai pubblici. Come se Falcone e Borsellino, di cui tutti si riempiono la bocca, non avessero parlato della configurazione di Cosa nostra che veniva fuori dalle dichiarazioni di Tommaso Buscetta, prima della sentenza sul Maxiprocesso”.

“E aggiungo – ha proseguito Di Matteo – il divieto di pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, divieto di pubblicazione delle intercettazioni se riguardano terzi, e adesso i test psicoattitudinali dei magistrati, che facevano già parte del Piano di rinascita democratica di Gelli“. Una giustizia feroce con la povera gente e le persone comuni che si professa garantista per lasciare impunite le persone vicine al potere. Nemmeno Licio Gelli e Silvio Berlusconi avrebbero potuto sperare tanto.

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I veri pacifinti sono quelli della Lega

Hai voglia a dire “pacifinti”, il termine dispregiativo coniato dalla furia bellicista che si abbevera con i conflitti armati in giro per il mondo. Nella distorsione di notizie che accompagna il dibattito politico e pubblico fin dall’invasione russa in Ucraina c’è una partito che riesce nella mirabile impresa di risultare belligerante quanto basta per piacere a Giorgia Meloni e che con l’altra mano incassa (anche) il sostegno di chi crede nella pace: è la Lega di Matteo Salvini. Un’analisi dell’Istituto demoscopico Noto Sondaggi condotta per Repubblica dice che dopo il Movimento 5 stelle è il Carroccio a incassare i voti di coloro che vorrebbero la pace. O meglio: che si definiscono pacifisti. 

Infatti per circa 1/3 degli elettori è il partito di Conte a essere ritenuto più vicino a questa ideologia, per uno su cinque è invece la lista Alleanza Verdi Sinistra a esprimere posizioni più in linea, solo l’11% riconosce nel Pd una forte dose di “pacifismo” ma il 10% vede nella Lega il partito che intercetta anche questo mondo e che dunque diventa la forza di governo più vicina. E anche nelle intenzioni di voto la Lega si conferma tra i partiti con maggiore attrazione dopo Il M5s (con il 40%) e il Pd (14%). 

I veri pacifinti sono quelli della Lega

Con il partito di Salvini così in alto nelle posizioni si conferma che il concetto di pacifismo è ormai piuttosto deteriorato. Che il sovranista Salvini possa essere considerato parte della filosofia nata dal premio Nobel Ernesto Teodoro Moneta nel 1907, poi sviluppata da Gandhi e quindi ispiratrice della politica di Martin Luther King è una delle fotografia di questo tempo, dove sotto l’ombrello del pacifismo vengono messi gli intellettuali della non violenza e del disarmo insieme agli arruffoni della propaganda elettorale. Il partito di Salvini a livello nazionale ha approvato i principali decreti-legge presentati dal governo Draghi e poi del governo Meloni, insieme alle risoluzioni e agli ordini del giorno legati al conflitto. Anche al Parlamento europeo, i rappresentanti della Lega hanno approvato le principali risoluzioni relative al conflitto, compresi i pacchetti di sanzioni contro la Russia. Se ha parlato di pace Salvini l’ha fatto solo per guastare o sabotare l’atleta Meloni, come a gennaio di quest’anno quando in Senato il capogruppo Massimiliano Romeo chiedeva un maggiore impegno per la soluzione diplomatica del conflitto parlando di stanchezza dell’opinione pubblica. Quel testo è stato infine modificato togliendo quel passaggio e i passaggi più scettici sullo scenario del conflitto. 

Il cosiddetto pacifismo di Matteo Salvini (che a differenza di altri pacifisti non sembra riconoscere mai apertamente le responsabilità ad esempio di Vladimir Putin) sembra più un volersi nascondere tra le pieghe dei conflitti in corso per lucrare sulle posizioni degli avversarsi e degli alleati che ha intenzione di logorare. Perfino l’odiato Papa Francesco, spesso citato dal ministro dei Trasporti come simbolo di decadenza della Lega, gli torna utile per non essere costretto a usare parole sue. 

Le contraddizioni sul pacifismo dei partiti è un tema molto dibattuto. Nel Pd qualcuno sottolinea la sostanziale differenza di approccio tra l’ala più vicina alla segretaria Schlein e quella che appoggia l’ex ministro della Difesa Lorenzo Guerini, poco diverso dall’attuale ministro Crosetto. Nella nuova formazione di Michele Santoro (che nasce con il pacifismo al primo punto del programma) alcuni criticano l’ambigua posizione verso la Nato. Nel M5s si sottolinea l’equidistanza tra Biden e Trump, sottolineando come il secondo con la violenza abbia tentato di rovesciare il risultato delle elezioni. Il tema è complesso, il pacifismo di Salvini proprio per niente. 

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Gli ultimi complicati giorni della libertà di stampa in Italia

“Un’altra ferita all’articolo 21 della Costituzione e alla libertà di stampa”. Non usano perifrasi il presidente dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Bartoli e la segretaria generale della Federazione nazionale della Stampa italiana, Alessandra Costante in merito alla vicenda del collaboratore de Il Mattino di Padova Edoardo Fioretto che venerdì si trovava a Palazzo Zabarella, a Padova insieme agli attivisti di Ultima generazione che avevano annunciato un’azione dimostrativa. Il cronista è stato trattenuto in Questura per quattro ore senza sapere quale fosse la motivazione, gli è stato impedito di comunicare con i legali del giornale e non ha potuto usare il suo telefono. Alle 20 è stato rilasciato senza nessun verbale di contestazione. 

“Come giustificazione non si può accettare quella del mero errore. – scrivono oggi Cnog e Fnsi – La vicenda di Edoardo Fioretto ricorda troppo da vicino un altro caso: a Messina, all’inizio di novembre, un altro giornalista che stava documentando le azioni di Ultima Generazione era stato fermato e portato in questura, sottoposto a perquisizione e trattenuto alcune ore”. Bartoli e Costante hanno chiesto un incontro urgente al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi per chiedere “garanzie che il diritto di cronaca venga sempre garantito, anche dalle forze dell’Ordine”. 

Gli ultimi complicati giorni della libertà di stampa in Italia

Negli stessi giorni sempre in Veneto, a Venezia, alla televisione di Stato è stato impedito di riprendere il dissenso. Come racconta l’associazione per la libertà di stampa Articolo 21 la troupe Rai aveva pensato di poter documentare una protesta organizzata da un comitato per il diritto alla casa in Comune, “un posto dove il sindaco ha dato ordine di issare la bandiera israeliana nonostante la protesta dopo le stragi di Gaza. Il comitato aveva osato alzare la voce contro la politica del Comune – spiega Articolo 21 – che non sta aiutando le famiglie a restare in città, gioiosamente trasformata in un divertimentificio a uso dei turisti. Quando la troupe si è avvicinata per filmare un gruppo di funzionari di polizia si è avvicinato impedendo il lavoro dei giornalisti”. 

È di pochi giorni fa anche la protesta dei giornalisti Rai. Con un comunicato letto alla fine delle edizioni serali di Tg1, Tg2 e Tg3, le redazioni delle testate Rai hanno espresso il proprio punto di vista contro una “maggioranza di governo ha deciso di trasformare la Rai nel proprio megafono”, come recita il comunicato UsiGrai, che contesta le nuove norme sulla par condicio volute dal governo.  “Questa non è la nostra idea di servizio pubblico, – ha scritto Usigrai – dove al centro c’è il lavoro delle giornaliste e dei giornalisti che fanno domande (anche scomode) verificano quanto viene detto, fanno notare incongruenze. Per questo gentili telespettatori vi informiamo che siamo pronti a mobilitarci per garantire a voi un’informazione indipendente, equilibrata e plurale”. 

Due giorni fa le condizioni della stampa in Italia sono finite anche in apertura del sito Reporters sans frontières che ha dedicato l’apertura del sito al “Divieto di esercitare la professione di giornalista” in Italia a causa dell’ultima proposta di elevare sanzioni pesanti nei casi di contestata diffamazione con un emendamento del meloniano Berrino che prevede addirittura il carcere. La Federazione europea dei giornalisti (Efj) ha parlato di “una deriva orwelliana particolarmente pericolosa, che ricorda i tempi bui dell’Italia fascista”. Oggi Fratelli d’Italia ha dichiarato di voler ritirare gli emendamenti. Ma il segnale è chiaro. Questi sono solo gli ultimi giorni, questa è l’aria greve che si respira. 

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Le contemporanee recensisce I mangiafemmine

Che succederebbe se domattina vi svegliaste e scopriste che la Presidenza del Consiglio, onde arginare il problema sociale da esso rappresentato, avesse deciso di legalizzare nientepopodimeno che il femminicidio? 
Lo ha immaginato Giulio Cavalli nel suo ultimo romanzo uscito l’anno scorso e intitolato “I Mangiafemmine”.

La storia, una distopia ambientata in un Paese senza nome ma dagli inconfodibili cliché socio-culturali, è attuale a livelli inquietanti.

Si svolge in piena campagna elettorale dove un Ministro ambisce a vincere, nel frattempo i femminicidi si susseguono, le femministe urlano furenti e le domande della gente (in primis dei giornalisti) si fanno sempre più pressanti: che intenderà fare il nuovo governo? Perché non affronta di petto la questione dei femminicidi? Perché sembra eludere il problema tramite benaltrismo e svicolamenti vari?

Il Ministro se ne infischia delle donne, vive o uccise che siano, vuole solo vincere le elezioni. Ripiega quindi sulla retorica populista, su recriminazioni maschiliste e risposte sarcastiche e sessiste.
Poi, inaspettatamente per l’elettorato, viene eletta una donna, una donna di destra, palesemente manipolabile, ignorante e inadatta al ruolo che ricopre. La Presidente annuncia di voler legalizzare il femminicidio equiparandolo ad attività venatoria e pulizia di genere: una donna vuole lasciare il marito? Va eliminata in quanto storta. Una donna è vecchia e pesa sui figli? Va eliminata in quanto scarto. Un’amante rischia di rappresentare un pericolo per l’uomo sposato con cui ha una relazione? La si elimina per salvare il sacro vincolo del matrimonio di lui.

La legge è lacunosa al punto giusto, caratteristica analoga anche nel nostro, di Paese. Si stabilisce un metodo di eliminazione-esecuzione: quello usato per abbattere gli ovini. Inoltre si stila un elenco approssimativo per appianare un tragico gap: visto che nel Paese le donne sono in numero maggiore (e noi non siamo sessisti) eliminiamo il surplus tramite pratiche venatorie! Come si andasse a caccia, così i femminicidi si ridurranno di conseguenza. Sì sa, dopotutto, che gli uomini sono geneticamente più propensi alla caccia, no? Bisogna pur conviverci! Una volta finito di leggerlo, il libro lascia un gran senso di inquietudine e molte questioni. Probabilmente il femminicidio non verrà mai legalizzato e infiocchettato come soluzione al sessismo sistemico – la Storia comunque insegna che le possibilità lunari possono realizzarsi se affiancate dalle opportune condizioni – ma è anche vero che possedere zero tutele, o peggio, delle leggi non applicate, oltre ad approssimazioni giudiziarie, non è tanto distante nei risultati finali. 

Forse leggerlo in anticipo potrebbe smuovere la coscienza collettiva. Anche riguardo chi ci governa e sostiene di lavorare nei nostri interessi che, ribadiamolo, dovrebbero innanzitutto voler prevenire la violenza maschile contro le donne.

(fonte)

La battaglia di Valditara contro le feste “non riconosciute”

Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara insiste: “non sarà più possibile chiudere una scuola in occasione di una festività non riconosciuta dallo Stato”, ha annunciato ieri a Varese, ospite della festa della Lega che ha stancamente festeggiato i suoi 40 anni. Secondo il ministro ci sarebbe un “provvedimento in dirittura d’arrivo”. Inevitabili gli applausi dei sovranisti. Nel mirino ovviamente c’è la fantomatica scuola di Pioltello che ha deciso di rimanere chiusa il 10 aprile, giorno di chiusura del Ramadan, per evitare di lasciare la classe sguarnita. 

Sul caso della scuola “Iqbal Masih” di Pioltello già il ministro dei Trasporti e leader della Lega Matteo Salvini aveva detto che “è giusto spiegare ai bambini di ogni etnia, di ogni religione, quanto è bello conoscerci. Però siamo in Italia. Quindi occorre la reciprocità: non penso che in nessun Paese islamico chiudano per il Santo Natale o per la Santa Pasqua”. Il ministro Valditara fiutando l’aria ha voluto cavalcare la propaganda del collega ministro per scaldare i cuori dei leghisti presenti annunciando una legge. C’è un piccolo problema: un’eventuale riforma del genere è molto più complessa della propaganda. 

Valditara alla festa della Lega: “il provvedimento è in dirittura d’arrivo”. Ma dimostra di non conoscere la Costituzione

Il primo fondamentale punto è che la scuola di Pioltello non ha in nessun modo voluto celebrare una festa di altre religioni. Ogni anno il Ministero dell’Istruzione, con un’ordinanza, definisce il calendario delle festività nazionali, che vengono rispettate da tutte le scuole di ogni ordine e grado. L’unica festività di tipo locale è quella del Santo Patrono, differente per ogni comune. Allo svolgimento delle lezioni sono assegnati almeno 200 giorni per garantire la validità dell’anno scolastico. Su questi limiti ogni Regione elabora poi un proprio calendario scolastico con una data di inizio e di fine lezioni, i giorni di chiusura per feste natalizie e pasquali e eventuali chiusure. Infine ogni istituto – ed è qui che vorrebbe intervenire il ministro Valditara – può decidere di discostarsi per poche giornate, garantendo il numero complessivo dei giorni di lezione e rispettando le indicazioni nazionali e regionali. Si tratta dell’attuazione della legge 59 del 1997 sull’autonomia scolastica stabilita dall’articolo 33 della Costituzione italiana. 

Ricapitolando: il ministro Valditara parla di “festività non riconosciute” che nulla centrano con la decisione delle scuole di chiudere eventualmente i propri istituti e annuncia di aver un provvedimento in dirittura di arrivo che dovrebbe essere una riforma costituzionale, con tutto quello che comporta in termini di iter legislativo. La scuola di Pioltello ha adottato la decisione della chiusura della scuola nell’ambito del quadro giuridico riconosciuto dalle leggi e dalla Costituzione. L’istituto scolastico ha definito il calendario delle lezioni in relazione a esigenze concrete della propria comunità scolastica e senza introdurre una festività ulteriore rispetto a quelle fissate a livello centrale ma semplicemente sfruttando la propria autonomia per evitare assenza che avrebbero interferito con il programma scolastico. 

Ci altri due aspetti non secondari. Non sono “feste riconosciute” nemmeno il cosiddetto martedì grasso che corrisponde alla chiusura delle scuole e non sono “feste riconosciute” nemmeno i giorni di ponte che abitualmente collegano il Natale al Capodanno. Infine c’è l’avversione (inutile, come abbiamo visto) alle altre fedi religiose e tradizioni. Quest’ultima è una pratica che non ha nulla a che vedere con le leggi ma è molto di questo tempo e di questo governo e si chiama razzismo. 

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Spesa sanitaria come esempio: la realtà e il percepito.

Il nuovo Documento di economia e finanza presentato dal governo guidato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni c’è scritto nero su bianco che nel 2023 la spesa sanitaria è stata più bassa rispetto a quanto previsto dal governo Meloni. Il calo rispetto al 2022 c’è stato anche nel rapporto tra spesa sanitaria e Prodotto interno lordo (Pil): si è infatti passati dal 6,7 per cento al 6,3 per cento. La spesa sanitaria è passata dai 131,7 miliardi del 2022 a 131,1 miliardi, calando anche in rapporto al Pil. 

È interessante notare però come i membri dei partiti di maggioranza, del governo e perfino Giorgia Meloni abbiano sempre ripetuto (e insistono ancora) che non c’è nessun calo, convinti evidentemente di poter piegare i numeri alla propaganda. In una democrazia funzionale e matura la compagine governativa potrebbe semplicemente spiegare ai cittadini quali siano le le cause della contrazione della spesa sanitaria, senza perdere tempo e autorevolezza insistendo su un’affermazione falsa.

A colpire è soprattutto il senso di impunità di chi è convinto di poter imporre una bugia nel dibattito pubblico – sicumera dai connotati berlusconiani – senza avere nessun timore della smentita certificata dalle cifre. Il cosiddetto “controllo della stampa” sta tutto qui, nella consapevolezza di avere accesso alle leve che potranno inquinare il sistema informativo trasformando il giornalismo in narrazione che contribuisce al percepito. Così alcuni lettori di centrodestra oggi sono convinti che la spesa sanitaria sia aumentata e che i numeri facciano sporca propaganda.

Buon lunedì. 

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La pericolosa deriva orwelliana del governo

Sentite cosa ha scritto la Federazione europea dei giornalisti (Efj) sulla proposta del carcere per i giornalisti, sta tutto qui: “Si tratta di una deriva orwelliana particolarmente pericolosa, che ricorda i tempi bui dell’Italia fascista”, ha dichiarato sempre a LaPresse Ricardo Gutiérrez, segretario generale dell’Efj. “Si tratta semplicemente di criminalizzare l’esercizio del giornalismo in Italia e di imporre un’autocensura generalizzata. Il diritto di accesso alle informazioni dei cittadini italiani sarebbe completamente compromesso qualora tali disposizioni venissero adottate”.

Per l’Efj la proposta del carcere per i giornalisti è “una deriva orwelliana particolarmente pericolosa, che ricorda i tempi bui dell’Italia fascista”

L’Efj è la più grande organizzazione di giornalisti in Europa, che rappresenta oltre 320.000 cronisti, con 73 membri in 45 Paesi. “Confondere diffamazione e notizie false è il culmine della perversità”, ha detto ancora Gutiérrez. “Lo strumento definitivo di censura che consentirà a chi è al potere di incarcerare i giornalisti che servono l’interesse pubblico denunciando gli eccessi di chi è al potere. Come principale organizzazione rappresentativa dei giornalisti in Europa, siamo sconvolti da tali proposte. Non avremmo mai pensato di arrivare a un delirio così liberticida, degno delle peggiori dittature“. E ancora: “Questi tentativi di imporre la censura legale vanno completamente contro gli standard legali europei sulla libertà di stampa, basati sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Queste proposte sono del tutto contrarie anche al nuovo regolamento europeo sulla libertà di stampa, che entrerà automaticamente in vigore nei prossimi mesi. Con tali proposte la maggioranza di governo italiana si autoesclude dall’Europa dei diritti umani e dall’Unione europea“.

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