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Che casino i conti di Giorgia!

Non c’è bisogno che Giorgia Meloni arronzi con una calcolatrice nel salotto di Bruno Vespa. I calcoli, quelli giusti, glieli ha forniti l’Istat, che segnala l’inflazione in crescita nel mese di ottobre, riportando gli italiani alla dura realtà.

Dopo l’illusorio calo di settembre, dovuto ai prezzi in discesa durante le vacanze, gli italiani hanno dovuto fare i conti con il carrello della spesa e con i prodotti alimentari, passati rispettivamente da +1% a +2,2% e da +1,2% a +2,6%. Poiché nessuna catena di supermercati accetta per ora la propaganda di governo come buono sconto, ci toccherà mettere mano al portafoglio, con buona pace della calcolatrice “strabica” della premier.

Non hanno abboccato alla calcolatrice di Meloni neanche i 52 mila uomini e le 11 mila donne che a settembre hanno perso il lavoro, riportando il numero degli occupati sotto la soglia dei 24 milioni, cifra che aveva fatto esultare il governo con iperboli degne di Giuseppe Garibaldi.

Giocare con i numeri di fronte a qualche giornalista compiacente è uno spettacolo che può far sorridere solo il pubblico in studio e il conduttore. Qui fuori, ci sono quattro milioni e mezzo di italiani che hanno dovuto rinunciare a visite o accertamenti per problemi economici, liste d’attesa o difficoltà di accesso.

Qui fuori ci sono 5,7 milioni di italiani, di cui 1,3 milioni di minori, che concorrono al triste record della povertà in Italia. Loro non hanno riso per la scenetta della calcolatrice.

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Giorgia Meloni, tra influencer e fantasma: un anno senza conferenze

Buon compleanno al silenzio di Giorgia Meloni. Era il 3 novembre 2023 quando la presidente del Consiglio si presentò di fronte ai giornalisti per illustrare la riforma costituzionale relativa al ruolo del presidente del Consiglio. Non era sola; al suo fianco c’erano i suoi vice, Matteo Salvini e Antonio Tajani.

Altri tempi. I tre non avevano ancora iniziato a sabotarsi l’un l’altro, la maggioranza di governo aveva ancora una parvenza di intesa, e Meloni si era affidata ai suoi uffici dopo aver confidato a due comici russi sotto mentite spoglie che c’era “stanchezza sull’Ucraina.”

Poi la presidente del Consiglio è scomparsa dalla scena pubblica. O meglio, la si vede e la si sente moltissimo, amplificata dai telegiornali di una Rai al suo servizio e dalle reti Mediaset, che le offrono carezze a profusione. L’abbiamo dovuta osservare nei suoi video promozionali confezionati per i social, impegnata in monologhi da influencer di governo.

Poi sono arrivati i benedetti “punti stampa,” salvifici per chi può fingere di andare sempre di corsa e per chi diluisce temi spinosi nel tempo di una battuta di spirito. Secondo i calcoli di Pagella Politica, dal 4 novembre 2023 al 31 ottobre 2024, 23 esponenti del governo (18 ministri, tre viceministri e due sottosegretari) hanno partecipato a conferenze stampa per presentare e commentare provvedimenti presi dal Consiglio dei ministri, alcuni dei quali rilevanti.

Meloni, invece, non si è più vista, nemmeno in occasione della conferenza stampa per la Legge di Bilancio, che è l’ossatura politica di un governo. Un anno di faccette, battutine, vittimismo: tutto riversato su microfoni compiacenti e accomodanti. Doveva essere la terza Repubblica, e invece è uno spettacolo di mimo.

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“L’emergenza climatica è una crisi sociale”, l’allarme di The Lancet

Record di decessi per calore nel 2023. Il rapporto 2024 di Lancet Countdown sulla salute e il cambiamento climatico lo scrive nero su bianco: il riscaldamento senza precedenti sta già incidendo drammaticamente sulla salute pubblica. Gli impatti, disseminati in ogni angolo d’Europa, rivelano un quadro di vulnerabilità crescente e disuguaglianze amplificate che mettono a nudo una crisi tanto sanitaria quanto etica.

Negli ultimi anni, si legge nel rapporto, le ondate di calore estreme hanno visto un aumento allarmante, con un 97% in più di esposizioni agli eventi caldi, mentre il tasso di mortalità legato al caldo si è drammaticamente impennato. Tra il 2003 e il 2022, i decessi per calore sono aumentati di 17,2 per 100.000 abitanti, con un impatto più pesante sulle donne rispetto agli uomini. Il dato non è un mero numero ma il riflesso di una realtà brutale: chi ha meno risorse e chi vive in condizioni sociali svantaggiate paga il prezzo più alto, contribuendo meno di altri alla causa del cambiamento climatico.

Caldo letale: un fardello che pesa sulle fasce più vulnerabili

In Italia, le temperature estreme stanno riducendo la produttività nei settori a elevata esposizione come agricoltura e costruzioni. Nelle regioni montane del Nord, come il Sud Tirolo, alcune ore lavorative sono state recuperate grazie a condizioni più miti ma nel resto del Paese il calo della produttività persiste, influenzando condizioni economiche e sanitarie. L’Italia affronta anche l’espansione di malattie infettive come il virus del Nilo Occidentale e la leishmaniosi, patologie che si spostano verso nord e verso le aree montane, storicamente meno colpite.

L’impatto del cambiamento climatico non si ferma al caldo. L’Europa ha assistito a un’espansione nella diffusione di malattie infettive trasmesse da vettori climaticamente sensibili, come leishmaniosi e virus del Nilo Occidentale. Quest’ultimo ha visto un aumento del rischio del 256% rispetto ai decenni precedenti. Le temperature più alte favoriscono la proliferazione di agenti patogeni e vettori che trovano condizioni ottimali in nuove aree, amplificando il rischio per la popolazione.

A questo si aggiunge la crescente minaccia della siccità e dell’insicurezza alimentare. Le estati italiane registrano condizioni di siccità estrema sempre più frequenti, con ripercussioni gravi su sicurezza e disponibilità alimentare, e il settore agricolo è sotto pressione. In alcune regioni italiane, come il Sud, il rischio di incendi boschivi rimane elevato, minacciando sia la salute pubblica che il benessere ambientale.

Epidemie, siccità e produttività in crisi: un’Europa in ginocchio

In tutta Europa, la vulnerabilità complessiva è aumentata di oltre il 9% dal 1990 al 2022, con il rischio di stress da calore per le attività fisiche che si espande a tutte le ore del giorno, riducendo le opportunità di attività fisica e aumentando i rischi per le malattie non trasmissibili.

L’inefficienza nel prevenire e mitigare gli effetti devastanti del riscaldamento climatico è esacerbata dalla lenta risposta politica. La vulnerabilità complessiva è aumentata di oltre il 9% dal 1990 al 2022, con il rischio di stress da calore per le attività fisiche che si espande a tutte le ore del giorno, riducendo le opportunità di attività fisica e, di conseguenza, aumentando i rischi per le malattie non trasmissibili.

L’Unione Europea, secondo The Lancet, continua a incentivare l’uso di combustibili fossili, con 29 dei 53 Paesi che forniscono ancora sussidi netti a questo settore. L’obiettivo di neutralità climatica appare in ritardo, proiettato al 2100 anziché il necessario 2040 per mantenere l’aumento delle temperature sotto 1,5°C. La mancanza di azioni incisive rischia di aggravare ulteriormente gli impatti del cambiamento climatico già in corso e perde l’opportunità di generare significativi co-benefici sanitari immediati, come la riduzione della mortalità prematura grazie a una migliore qualità dell’aria e a diete più sostenibili.

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Quindi, chi sono i trafficanti?

No, non ha parlato con i giornalisti. Giorgia Meloni ieri si è accodata nel salotto di Bruno Vespa, che ha la qualità che piace più al potere: l’accondiscendenza. Ospite di Porta a Porta, ha potuto quindi esibirsi nella sua formula di conferenza stampa preferita, il monologo rabbioso accompagnato dai “sì, sì” ciondolanti del conduttore.

Tra una piccata rivendicazione e l’altra, la presidente del Consiglio ha raccontato di aver ricevuto minacce di morte dai «trafficanti» per la sua strampalata idea di piantare un centro di permanenza per il rimpatrio in Albania, dove stamattina agenti delle forze dell’ordine italiane stanno giocando a carte dopo una lauta colazione.

Una minaccia di morte a una capa di governo dovrebbe essere una notizia che monopolizza i sommari di tutti i media. Non accadrà, ed è un peccato, perché consentirebbe una volta per tutte di comprendere chi siano per la premier i cosiddetti «trafficanti» contro cui rumorosamente si arrabatta dall’inizio della legislatura.

Siamo convinti, insieme a molte organizzazioni internazionali, che la linea di comando dei «trafficanti» sia composta dagli stessi travestiti da politici che Meloni pomposamente incontra, dai ministri libici fino al premier tunisino. Avere le generalità del minacciante e il suo ruolo ci permetterebbe di sapere se stiamo parlando delle stesse persone, delle stesse responsabilità.

Non possiamo non notare, comunque, come Meloni sia solitamente prodiga di pubblico vittimismo anche solo per una scritta su un muro, e come invece, in questo caso, abbia adottato un insolito riserbo. Quindi, chi sono i trafficanti?

Buon giovedì.

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L’ultima fuga di Elkann, stavolta dal Parlamento

Forte, John Elkann. Da generazioni, la sua famiglia si propone come esempio di capitani d’industria e simbolo dell’italianità esportata nel mondo. Qualche tempo fa, avevano persino pensato di mettere una bandierina italiana ben visibile sulla fiancata di una delle loro vetture. Peccato che di italiano non ci fosse niente, e sono stati costretti a rimuoverle una a una. Forte, John Elkann. Ha ereditato il talento di famiglia: quando le cose vanno bene, è merito suo, colui che dà lustro all’Italia e ci onora con la sua italianità. Ma, di fronte ai risultati fallimentari, la colpa è dell’Italia brutta, dell’Italia sporca, della politica tutta cattiva.

Così, quando il Parlamento l’ha convocato nei giorni scorsi per un’audizione, lui, con la sua proverbiale eleganza, ha rifiutato con la stessa leggerezza con cui si potrebbe saltare un appuntamento per il tè delle cinque. In veste di presidente di Stellantis, ha comunicato al presidente della Commissione Attività Produttive della Camera, Alberto Luigi Gusmeroli, di non avere nient’altro da aggiungere rispetto a quanto già espresso dal suo amministratore delegato, Carlos Tavares. Elkann ha comunque fatto sapere di essere disposto a continuare il dialogo con il Ministero delle Imprese e del Made in Italy “nell’ambito del tavolo di confronto istituito presso il dicastero, in attesa della convocazione ufficiale presso la Presidenza del Consiglio”. Evidentemente, lì il caffè deve essere molto migliore e le poltrone molto più comode. Elkann passa con incredibile velocità dall’essere il testimonial italiano nel mondo a un cittadino qualunque senza nulla da dire. Gli va però riconosciuto un enorme merito: negli ultimi due anni, è stato l’unico a mettere d’accordo maggioranza, opposizione e il cosiddetto terzo polo per il suo comportamento inaccettabile.

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Corsa al riarmo senza precedenti: nel 2025 il conto per l’Italia sale a 32 miliardi di euro

Nel quasi totale silenzio dei media mainstream, l’Italia si sta armando come non aveva mai fatto prima. Non è una metafora, né un’esagerazione: è la fredda realtà che emerge dall’analisi della Legge di Bilancio condotta dall’Osservatorio Milex sulle spese militari italiane.

Per la prima volta nella storia della Repubblica il budget militare supera i 30 miliardi di euro, attestandosi a 32 miliardi per il 2025. Di questi, ben 13 miliardi saranno destinati all’acquisto di nuovi armamenti, segnando un’escalation che supera in percentuale di crescita qualsiasi altra voce di spesa pubblica.

Un riarmo da record: 32 miliardi, ma a quale costo?

Mentre il dibattito pubblico si concentra su decimali di deficit e su piccoli aggiustamenti della manovra, sta passando inosservato quello che può essere definito il più massiccio riarmo della storia repubblicana. I numeri elaborati da Francesco Vignarca ed Enrico Piovesana parlano chiaro: in soli dieci anni, la spesa militare italiana è aumentata del 60%, passando dai 19,9 miliardi del 2016 ai 32 miliardi previsti per il prossimo anno.

Ma è nell’ultimo quinquennio che la corsa agli armamenti ha accelerato vertiginosamente. Solo per dare un’idea dell’entità del fenomeno: nel 2021 si spendevano 7,3 miliardi in nuovi armamenti, mentre nel 2025 se ne spenderanno quasi 13, con un aumento del 77% in soli cinque anni. Un dato che dovrebbe far riflettere sulla direzione intrapresa dal Paese.

Il ministro Crosetto, dal suo ufficio di via XX Settembre, gestirà un “bilancio proprio” della Difesa di oltre 31,2 miliardi di euro, con un incremento netto di 2,1 miliardi rispetto al 2024. Un aumento senza precedenti nella storia recente, che si inserisce in un trend di crescita costante e imponente.

Ma i numeri, per quanto eloquenti, rischiano di non restituire appieno la portata di questo cambiamento. Si tratta di risorse che, confrontate con altre voci di spesa, assumono proporzioni imponenti: spendiamo più in armamenti che in edilizia scolastica, più in missioni militari che in ricerca universitaria.

La spesa militare italiana arriverà così all’1,42% del PIL (o all’1,46% includendo i costi indiretti), avvicinandosi sempre più a quel 2% richiesto dalla Nato. Vale la pena ricordare che questo obiettivo non è vincolante, ma sembra essere diventato una sorta di mantra per i governi degli ultimi anni.

Aggiungendo poi ulteriori due voci di costi indiretti per basi militari e alle quote di compartecipazione per spese di natura militare in ambito Ue si potrebbe aumentare il totale complessivo di un ulteriore miliardo, superando quindi i 33 miliardi di euro.

Le priorità di un Paese in armi: difesa vs. spesa sociale

Non deve sfuggire un dettaglio significativo: mentre il bilancio della Difesa cresce a ritmi vertiginosi altre voci di spesa rimangono ferme o subiscono tagli. È una questione di scelte e priorità, e le priorità di questo governo sembrano chiare: più armi, meno spesa sociale, per dirla con una metafora classica.

Il paradosso è che questa corsa al riarmo si verifica in un momento in cui il Paese avrebbe bisogno di investimenti massicci in sanità, istruzione e transizione ecologica. Settori che, a differenza della Difesa, stentano a vedere incrementi significativi nei rispettivi budget.

L’analisi di Milex ci restituisce il ritratto di un Paese che sta silenziosamente cambiando volto, privilegiando la dimensione militare rispetto a quella civile, la spesa per gli armamenti a scapito dei servizi per i cittadini.

Una trasformazione che meriterebbe un dibattito pubblico approfondito, una discussione parlamentare seria, un confronto con i cittadini sulle reali priorità del Paese. Invece, tutto avviene nel silenzio quasi complice dei media e della politica, come se l’aumento esponenziale delle spese militari fosse un destino ineluttabile e non una precisa scelta politica.

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“Kamala nemica della fede”: Trump accende la miccia del fanatismo religioso

Donald Trump, in piedi al National Faith Summit, si lascia andare a promesse di fede e salvezza, come un pastore infervorato. Vuole un “ufficio della fede” dentro la Casa Bianca, un cuore spirituale pulsante accanto alla scrivania più potente d’America. Trump parla di un’America sotto attacco, di cattolici perseguitati, e Kamala Harris diventa, nelle sue parole, una nemica della religione, una figura da cui guardarsi. Da lì a chiamarla “fascista” è un passo breve. 

Trump e la fede come arma politica

Ma la campagna non si gioca solo sul palcoscenico elettorale. In un silenzio che sa di resa, lo storico Washington Post annuncia che non sosterrà alcun candidato. Più di duecentomila abbonati se ne vanno, e la testata si trova a riflettere sul prezzo della neutralità. Per qualcuno è una fuga, un atto di codardia, un tradimento dell’ultimo baluardo democratico. E così, in una manciata di giorni, un quotidiano secolare si trova a brancolare nel buio, come chi perde la strada proprio alla vigilia della tempesta.

Trump, intanto, continua a marciare a colpi di retorica aspra. Evoca complotti, diffonde paure, dipinge un Paese invaso e conquistato da nemici senza volto, uomini “assetati di sangue” da cui promette di salvare le donne d’America. E mentre Harris si rivolge ai giovani del Michigan, cercando di invocarne l’energia e la voglia di cambiare, lui si pone come unico scudo contro i pericoli che minacciano una patria “da salvare”: un messaggio ardito che si traduce in promesse di legge marziale, frontiere di ferro e muri più alti. Il suo sguardo si fa cupo quando parla dell’immigrazione, della pena di morte per chi viola il suolo americano e tra il pubblico qualcuno applaude come si applaudirebbe una lotta tra gladiatori. 

Il braccio di ferro mediatico e le accuse incrociate

Kamala Harris è altrove, in tutt’altro campo di battaglia. Si rivolge ai giovani, agli elettori latini, ai musulmani di Detroit e del Michigan, a chi non si riconosce nell’idea di un’America chiusa, irta di palizzate e diffidenze. Ma sa bene che il terreno è scivoloso, che basta una provocazione per accendere la piazza. E così, mentre lei ascolta i canti di protesta pro-palestinesi e cerca di placare la tempesta, Maggie Rogers canta per la folla, e un’altra voce urla che Trump è paura, è la notte che avanza, un timore che va arginato con la luce, dicono i sostenitori dem. 

Ma il braccio di ferro non si esaurisce qui. Trump lancia accuse perfino a Michelle Obama, insinuando che sia lei a incarnare la vera cattiveria dell’America “che odia.” Michelle, che da anni è il volto di una cultura votata al rispetto, diventa bersaglio di un rancore mai sopito, un pretesto per distogliere l’attenzione dai propri lati oscuri. Intanto, i sostenitori più devoti al presidente – capitanati da Marjorie Taylor Greene – insorgono, rigettano etichette come “fascista” e “nazista” e minacciano class action contro i media. In questo rimpallo di accuse, Greene, la deputata cospirazionista, si sente forte. È l’avvocata di Trump contro un nemico invisibile, uno spettro che abita la stampa, le università, i tribunali. 

Sul lato opposto, Doug Emhoff, il second gentleman marito di Harris, pronuncia parole cariche d’angoscia mentre celebra il ricordo della strage alla Tree of Life Synagogue, invocando un’America che sappia spegnere il fuoco dell’odio. È uno scontro senza resa, quello tra chi dipinge Trump come un “agente del caos” e chi lo vede come l’ultimo baluardo. E, tra una promessa e una minaccia, entrambi i candidati sembrano scolpire, ognuno per sé, un’immagine distorta dell’avversario, un riflesso caricaturale che accende gli animi. 

I giorni passano ma restano le cicatrici: incendi dolosi distruggono schede elettorali in Oregon, richieste d’intervento raggiungono la Corte Suprema per fermare i voti provvisori in Pennsylvania, e mentre Trump allude a un “piano segreto” nella Camera dei Rappresentanti, l’America si guarda allo specchio, smarrita, divisa, in bilico su un voto che ha le sembianze di un abisso. 

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Greenwashing a processo, riflettori puntati sull’Australia: colosso petrolifero alla sbarra

La storia del primo processo al greenwashing del mondo inizia in un’aula di tribunale australiana, dove le parole “zero netto” rimbalzano tra le pareti di marmo e le coscienze dei presenti. È iniziato così, in una mattina d’ottobre che sa di storia, il processo che vede protagonista il colosso petrolifero Santos, chiamato a rispondere delle sue promesse verdi davanti alla giustizia federale.

Il caso Santos: l’accusa di greenwashing

Non è un processo qualunque: è il primo vagito di una nuova era in cui le parole potrebbero finalmente avere un peso specifico misurabile, dove le promesse ambientali non possono più essere lanciate come coriandoli. L’Australasian Centre for Corporate Responsibility (ACCR), azionista della stessa Santos, ha deciso di chiamare in giudizio il gigante dei combustibili fossili per quelle che definisce “speculazioni incastonate insieme nel giro di poche settimane”, spacciandole per un piano climatico credibile.

Il cuore della questione sono le promesse di Santos: ridurre le emissioni del 26-30% entro il 2030 e raggiungere lo zero netto entro il 2040. Promesse che, secondo l’ACCR, sono poco più che un castello di carte costruito sul terreno instabile delle buone intenzioni. Ma in un’epoca in cui il termometro del pianeta non perdona le buone intenzioni non bastano più.

L’avvocato Noel Hutley SC, voce dell’Accr nell’aula di tribunale, ha dipinto un quadro impietoso della strategia di Santos: non un piano concreto, ma una collezione di “speculazioni” assemblate frettolosamente. Santos, secondo l’accusa, avrebbe fatto promesse grandiose senza avere gli strumenti per mantenerle.

La questione si fa ancora più intricata quando si parla di idrogeno blu, presentato da Santos come “pulito” e a “zero emissioni”. Una definizione che, secondo l’accusa, nasconde una verità scomoda: i documenti interni dell’azienda mostravano che la produzione del presunto salvatore verde avrebbe in realtà aumentato le emissioni dirette. Un dettaglio non proprio marginale, omesso nelle comunicazioni pubbliche e nella tanto sbandierata tabella di marcia verso lo zero netto.

La difesa di Santos, affidata a Neil Young KC, suona come una variazione sul tema del “ci avete frainteso”: gli investitori, sostiene, avrebbero dovuto capire che non tutto ciò che era incluso nella tabella di marcia era un progetto consolidato. Come dire: le promesse erano più aspirazioni che impegni concreti, più poesia che prosa aziendale.

Ma in un mondo che brucia, dove ogni decimo di grado conta e ogni tonnellata di CO2 pesa sul futuro del pianeta, le sfumature semantiche rischiano di diventare lussi che non possiamo permetterci. Il processo potrebbe segnare un punto di svolta: il momento in cui il greenwashing da pratica diffusa diventa responsabilità legale, in cui le promesse verdi devono essere sostenute da piani concreti e non da vaghe speranze.

Un nuovo standard di responsabilità

Se l’ACCR dovesse vincere questa battaglia legale le onde d’urto si propagherebbero ben oltre le coste australiane. Potrebbe essere l’inizio di una nuova era di responsabilità ambientale in cui le aziende dovranno pensare due volte prima di dipingersi di verde senza avere i colori giusti nella tavolozza.

Il processo, che si concluderà il 15 novembre, non è solo questione di semantica legale o di interpretazione di documenti aziendali. È un processo al futuro stesso: alla nostra capacità di distinguere tra azioni concrete e promesse vuote, tra impegno reale e marketing ambientale. È un processo che ci ricorda che, nell’era della crisi climatica, le parole devono pesare quanto le azioni che promettono di descrivere.

Quanto tempo ancora potremo permetterci il lusso di promesse verdi che si sciolgono come neve al sole della realtà? La risposta, forse, la troveremo nelle pagine di questa sentenza storica, che potrebbe diventare il primo mattone di un nuovo edificio di giustizia climatica.

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Vai al sindacato? Giù botte Altro scandalo ignorato

Si chiama Tahla, ha 22 anni, e la sua colpa è stata quella di bussare alla porta di un sindacato. Nel 2024, nel cuore della Toscana felix, nell’Italia che si vanta di essere una Repubblica democratica fondata sul lavoro, un ragazzo viene pestato a bastonate per aver osato alzare la testa. Non fa rumore, non diventa una storia nazionale, non merita i titoloni dei giornali perché siamo assuefatti alla barbarie. Quarrata, provincia di Prato. Turni di 12-14 ore, lavoro nero, caporalato: fotografia di una modernità che si misura in fatturato ma non in diritti. Tahla viene convocato dopo aver parlato con il sindacato Sudd Cobas: “Sappiamo che sei stato al sindacato”, gli dicono. Poi partono i bastoni.

È la stessa zona dove appena due settimane fa altri quattro lavoratori sono stati vittime di una spedizione punitiva durante un picchetto. Non sono coincidenze: è un sistema che si nutre di paura e omertà, che prospera nell’indifferenza generale e nella retorica del “piccolo è bello” che spesso nasconde il marcio. La prognosi dice sette giorni, ma la ferita è molto più profonda: è uno sfregio alla Costituzione, è il fallimento di uno Stato che non riesce a proteggere chi lavora, è la vergogna di un Paese che si scopre ancora medievale nei rapporti di lavoro mentre si vanta di correre verso il futuro. Tahla è pakistano, e anche questo non è un dettaglio: lo sfruttamento sa bene dove colpire, sceglie le sue vittime tra chi ha meno voce, tra chi può essere più facilmente zittito. Noi intanto scivoliamo via, distratti, assuefatti, complici. In un Paese normale questa storia sarebbe uno scandalo nazionale. In Italia è solo cronaca locale. E questo, forse, è il vero scandalo.

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Pd e il paradosso Schlein: colpevole di non aver sedotto la destra

Prevedibili come l’alba ieri in casa Pd sono arrivate le accuse alla segretaria Elly Schlein dopo la sconfitta del candidato del centrosinistra Andrea Orlando alle elezioni regionali liguri. All’osservatore disattento potrebbero risuonare poco comprensibili. Il Partito democratico ha collezionato dieci punti percentuali in più rispetto alle elezioni precedenti, senza contare la considerevole mole di voti della lista civica del suo candidato presidente. 

La componente interna dei cosiddetti “riformisti”, che dopo Renzi si è aggrappata a Bonaccini e ora sembra fedele solo alla sua natura, ieri ha strepitato – con la solita, falsa eleganza – contro Schlein, accusandola di aver scelto un’alleanza con il Movimento 5 Stelle, ignorando Renzi. In realtà, le divergenze erano tra Conte e il senatore fiorentino, come al solito.

«Ai veti è seguito un errore politico, pensare che si dovesse scegliere tra il 6% di Conte e il 2% di Renzi rilevati nei sondaggi», dice Alessandro Alfieri, ultimo portavoce della fronda dem, rompendo la pax interna inaugurata solo pochi mesi fa.

Se Alfieri stamattina scorrerà le pagine del Corriere oltre l’articolo che lo riguarda, scoprirà che oltre metà degli elettori di Italia Viva ha votato a destra, per quel Bucci di cui Renzi era compiaciuto alleato al Comune di Genova.

In sostanza, la critica alla segretaria consiste nel non aver inseguito i voti di chi ha un’attrazione fatale per la destra. Non male, no?

Buon mercoledì.

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