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Un Daspo per Calenda dal Centrosinistra. L’ex ministro sposa il bavaglio al dissenso

Strano modo quello di Carlo Calenda per cercare di inserirsi nel cosiddetto campo largo tra Partito democratico e Movimento 5 stelle. Ieri il leader di Azione ha voluto farci sapere di essere “assolutamente d’accordo” al Daspo “per le persone che commettono violenze in piazza, così come se la commettono negli stadi. è giusto che siano allontanati e gli sia impedito di partecipare a cortei dove possano esercitare la violenza. Mi sembra un principio di buon senso”.

Strano modo quello di Carlo Calenda per cercare di inserirsi nel cosiddetto campo largo tra Pd e M5S

La frase letta così potrebbe sembrare una norma quasi di buon senso. Peccato che il cosiddetto Daspo per i manifestanti sia l’ennesima roncola agitata dalla maggioranza di governo contro coloro che non sono d’accordo con le posizioni e con le opinioni del governo. Il Daspo in mano a Meloni e soci sostanzialmente è un bavaglio che comprime gli spazi del dissenso. Del resto siamo in un tempo in cui si viene identificati se si grida viva l’Italia antifascista durante la prima alla Scala di Milano oppure mentre si appoggia un fiore sulla tomba di Anna Stepanovna Politkovskaja per ricordare l’assassinio di Aleksej Navalny.

Purtroppo le esigenze di posizionamento politico costringono Calenda a dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ogni giorno, trasformandolo in un cocciuto bastian contrario che vorrebbe stare in mezzo a un bipolarismo che nel mezzo prevede il niente. Peccato perché così facendo il leader di Azione non fa altro che dare ragione a Giuseppe Conte che da mesi si incaponisce contro la segretaria del Partito democratico Elly Schlein che vorrebbe allargare il fronte anche all’ex ministro. Professarsi “assolutamente d’accordo” con il Daspo ai manifestanti è un modo banale per dire di voler giocare alla politica dei due giorni. Ma no, non c’è tempo.

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Crollo delle nascite. Il lavoro precario farà affondare il Paese

Perché in Italia nascono così pochi bambini? Tra le cause, certamente, c’è quel terzo delle donne che nel periodo cruciale per la fecondità si ritrova ad avere un contratto a tempo determinato, con troppe poche garanzie per programmare un futuro. In un’analisi del sito di informazione economica lavoce.info si indaga se la diffusione dei contratti a termine abbia effetti sulla fecondità, e come i due aspetti interagiscano tra loro, ovvero se l’eventualità di una nascita in futuro riduca le opportunità di accesso a un contratto a tempo indeterminato per le donne. Lo studio di Ylenia Brilli, Bernardo Fanfani e Daniela Piazzalunga affronta il problema denatalità nel nostro Paese.

Tra i 25 e i 34 anni procreare è un lusso. E l’Italia che si spopola si impoverisce

Il tasso di fecondità in Italia – scrivono i ricercatori – è tra i più bassi di Europa: nel 2021 – ultimo dato disponibile – ha raggiunto 1,25 figli per donna, rispetto a una media europea di 1,53; Germania e Francia si collocano rispettivamente a 1,58 (in leggero aumento) e 1,84 figli per donna. Nel 2022 il numero di nati è stato pari a 393 mila, quasi 7 mila in meno rispetto all’anno precedente (-1,7 per cento), e i dati provvisori suggeriscono un ulteriore calo nel 2023. Il governo ha da poco licenziato il cosiddetto Bonus mamme che consente l’esonero della contribuzione previdenziale, fino a un massimo di 3 mila euro annui, per le lavoratrici con almeno tre figli, e, in via sperimentale per il solo 2024, per le lavoratrici con almeno due figli, di cui il più piccolo di età inferiore ai 10 anni e fino al raggiungimento della suddetta età.

L’agevolazione pensata dal governo però è rivolta alle madri con contratto a tempo indeterminato, sfavorendo le lavoratrici che in stato di precarietà lavorativa si ritrovano a essere più fragili. Anche perché secondo Eurostat in Italia nel 2022 oltre il 28 per cento dei lavoratori di età compresa tra i 25 e 34 anni aveva un contratto a termine, 10 punti percentuali in più della media europea e oltre 11 punti percentuali in più rispetto alla media della popolazione. Numeri che ci rendono uno dei Paesi europei con più alto tasso di contratti a termine. Nella fascia tra i 25 e i 34 anni la differenza di genere è evidente: sono a termine il 25 per cento dei contratti tra gli uomini e il 32 per cento tra le donne.

Pure il Bonus mamme del governo Meloni si applica solo a chi ha un contratto a tempo indeterminato

I dati- spiegano i ricercatori – risultano ancora più preoccupanti prendendo in considerazione le differenze geografiche: se al Nord Italia circa il 27 per cento delle donne di età compresa tra i 25 e 34 anni ha un contratto a tempo determinato, nel Centro Italia la percentuale sale al 37 per cento e nel Sud Italia raggiunge il 40 per cento. “Considerata – si legge nello studio – l’importanza che questa fascia di età ha per le scelte di fecondità, in un nostro lavoro (di cui una descrizione dettagliata è disponibile nell’Allegato del XXII Rapporto Inps) indaghiamo se la diffusione dei contratti a termine abbia effetti sulla fecondità, e come i due aspetti interagiscano tra loro – ovvero se l’eventualità di una nascita in futuro riduca le opportunità di accesso a un contratto a tempo indeterminato per le donne”.

La precarietà invita a fare pochi figli e avere dei figli riduce drasticamente la possibilità di uscirne, innestando un circolo vizioso. In uno studio Alessandra Casarico e Salvatore Lattanzio avevano già osservato nel 2020 come prima della nascita, le traiettorie di donne con e senza figli sono pressoché identiche, ma subito dopo la nascita del figlio iniziano a divergere. A quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri sono di 5.700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita (ossia, i loro salari sono inferiori del 53 per cento). Serve molto più di un bonus e della retorica per rendere conveniente la maternità.

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Doppia poltrona, Gasparri molla la Cyberealm

“Non è una resa”, annuncia il capogruppo di Forza Italia Maurizio Gasparri dopo avere comunicato via lettera al presidente del Senato di essersi “dimesso dalla presidenza non operativa di Cyberealm, società che non merita astiosi e immotivati attacchi”, scrive nella sua missiva, spostando come al solito il focus da se stesso alla società che non è mai stata argomento di discussione giornalistica.

Il capogruppo di Forza Italia Maurizio Gasparri ha lasciato la presidenza della società Cyberealm rivelata da La Notizia

Il punto era piuttosto che un presidente dal 2021 di una società che si occupa di sicurezza informatica non abbia mai comunicato al Senato il proprio ruolo, come rivelato da La Notizia. E quell’omissione avrebbe potuto comportare la decadenza del seggio. Gasparri è stato salvato dalla Giunta delle elezioni e delle immunità del Senato in una sottocommissione presieduta dal leghista Manfredi Potenti, secondo cui non esistono presupposti di incompatibilità perché non ci sarebbero elementi che facciano presumere che l’azienda abbia rapporti con la pubblica amministrazione.

Aveva taciuto l’incarico al Senato ma è stato salvato dalla Giunta delle elezioni

“La mia è una libera scelta – dice Gasparri -. Non mi sono arreso assolutamente a nulla, Report e gli esponenti grillini continuano a dire menzogne. Ho fatto il contrario, non mi sono dimesso prima per consentire agli organi del Senato di esprimersi. Un giudizio che mi ha dato ragione”. Poi, come accade per altri parlamentari, allo scoperchiamento di uno scandalo Gasparri ha deciso di dimettersi dalla società da cui trovava ingiusto e inutile dimettersi. Probabilmente si è dimesso per dimostrare che aveva ragione. Come no.

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Venti punti per ogni morto nei cantieri. Rivolta contro la patente della Calderone

Ieri a Palazzo San Macuto nella Commissione di inchiesta sulle condizioni di lavoro, sfruttamento e tutela della salute e sicurezza è stato il turno della ministra al Lavoro Marina Calderone che sull’onda dello sdegno per la strage di lavoratori a Firenze promette controlli più serrati. “Tra il 2023 e 2024 con il personale che abbiamo attualmente in forza avremo un aumento del 40% delle ispezioni”, ha annunciato la ministra. “Con il nuovo contingente – ha aggiunto – andiamo a raddoppiare numero degli ispettori tecnici addetti ai controlli di cantiere e questo significa aumentare in prospettiva del 100% le nostre potenzialità in termini di controlli”.

Calderoni difende la misura, ma sindacati e opposizione la bocciano

La ministra ha riconosciuto che “nelle aziende edili ispezionate la percentuale di irregolarità sul 2023 è del 76%” che sale all’85% nei cantieri del Superbonus. Calderone ha anche difeso l’introduzione del nuovo sistema per classificare le imprese e i lavoratori autonomi, chiamato “patente a punti” o “patente a crediti”, licenziato dal Consiglio dei ministri lo scorso 26 febbraio. La patente a punti è stata introdotta nel nostro ordinamento dopo il confronto con le parti sociali ed è stata una scelta coraggiosa”, ha detto la ministra, invitando a “non ironizzare” sulla misura che entrerà in vigore dal primo ottobre di quest’anno.

Sulla misura adottata dal governo però più che ironie sono arrivate critiche. La Uil, per esempio, che è tra coloro che richiedevano la cosiddetta patente a punti è netta: “La patente come l’hanno strutturata al governo non funziona – ha detto la scorsa settimana il segretario generale Pierpaolo Bombardieri -. È mai possibile che una vita valga 20 crediti, che si possa operare con 15 e se ne possano recuperare 5 con un corso di formazione? Un criterio inaccettabile. Dovremmo confrontarci sul sistema delle sanzioni”. Il segretario della Cgil Maurizio Landini ha sottolineato come la patente dovrebbe esserci “per tutti i settori, non solo per gli edili. I morti e gli infortuni ci sono in tutti i settori e attività”. Della stessa idea anche il M5S per cui limitare l’iniziativa al settore edile “significa ignorare i morti nelle fabbriche, o davanti a un orditoio”.

La riforma si applica solo al comparto edile e non prevede sanzioni se l’incidente mortale si verifica in fabbrica

La deputata del Partito democratico Cecilia Guerra ha detto che “non si può pensare a uno strumento come quello per la patente di guida, in cui se perdo i punti mi fanno fare di nuovo l’esame”. Secondo Guerra, “è fondamentale impedire l’accesso agli appalti pubblici, ma anche togliere i benefici fiscali e contributivi di cui le imprese godono”. Confartigianato ritiene che si tratti di “un meccanismo farraginoso e pieno di incertezze e lacune applicative” destinato “a non produrre alcun risultato positivo in termini di riduzione degli infortuni, mentre rischia di trasformarsi nell’ennesimo balzello burocratico sulle spalle degli imprenditori edili, in particolare le piccole imprese, che duplica oneri economici e adempimenti amministrativi rispetto a quelli già esistenti”.

L’Associazione costruttori edili lamenta che non si tenga conto di “altri fattori quali l’anzianità e l’esperienza dell’impresa, i contenziosi intercorsi con le varie committenze, il know how aziendale, il numero di infortuni pregressi ed altri criteri reputazionali”. Per la deputata del Pd e capogruppo in commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, Giovanna Iacono, bisognerebbe intervenire sui subappalti che “consentono spesso di aggirare gli obblighi formativi, mettendo a rischio lavoratrici e lavoratori che hanno minori tutele.”Insomma, sulla patente a punti pensata dal governo si ode di tutto tranne che semplici “ironie” da superare con una scrollata di spalle come fa la ministra Calderone.

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Armi, cosa accade dietro la faccia rassicurante di Bruxelles?

Conviene fare un breve ripasso su quali siano gli obiettivi dell’Unione europea che si celano dietro l’ispessimento di notizie su un esercito europeo e su una ventilata economia di guerra. Provare a rispondere alla fatidica domanda: cosa accade dietro la faccia rassicurante di Bruxelles?

Martedì gli alti funzionari Ue hanno presentato il loro piano per una sostanziale revisione dell’industria della difesa e del blocco. Moltissime le idee e pochissimo – per ora – i soldi. Sul piatto ci sono 1,5 miliardi di euro nel Programma europeo per gli investimenti per la difesa (Edip). Cinque propositi sul piatto. Innanzitutto Bruxelles vuole che i governi dell’Ue acquistino meno armi dagli americani (anche se, in segno di dominio della difesa degli Stati Uniti, la presentazione effettiva includeva una foto di un caccia a reazione McDonnell Douglas F/A-18 Hornet). Quando dagli Usa si sono detti preoccupati per il possibile calo di vendite americane il vicepresidente esecutivo della Commissione Margrethe Vestager ha rassicurato: “l’Europa sarà più autosufficiente ma ovviamente non completamente autosufficiente”.

Serviranno almeno 100 miliardi di euro. Dove prenderli? Qualcuno propone di utilizzare i fondi di coesione (che servirebbero per le disuguaglianze), molti vorrebbero che la Bce “cambi la sua politica di prestito” per consentire investimenti in difesa (qualcosa non attualmente consentita).

E la Nato? Un alto funzionario della Nato ha detto che i piani dell’Ue per maggiori finanziamenti sono i benvenuti, ma anche che l’organizzazione sta “osservando da vicino per vedere se l’Ue spingerà questioni come i propri standard per le armi”. Ed è solo l’inizio. 

Buon giovedì. 

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Al bando la farina di grillo. L’ultima balla della Lega

Due giorni fa l’eurodeputata della Lega Isabella Tovaglieri ha dato sui suoi social una notizia con il fare di chi è convinto di avere ottenuto una vittoria politica storica. Il risultato eccezionale sarebbe di avere fatto approvare una mozione nella Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera del suo partito “contro l’uso della farina di grillo nelle mense scolastiche”.

La risoluzione votata è radicalmente cambiata proprio nella parte finale dove il divieto di usare novel food nelle mense è sparito

“Da una parte abbiamo una sinistra che vieta la carne di maiale nelle scuole (per accontentare le famiglie islamiche) e dall’altra la Lega che vieta la farina di grillo nelle mense. Voi da che parte state?”, ha scritto Tovaglieri. Noi, se l’europarlamentare di Salvini non si offende, preferiremmo stare dalla parte della verità e dell’attinenza ai fatti. I fatti dicono che la risoluzione (no, non era una mozione) presentata in Commissione dal deputato della Lega Rossano Sasso chiedeva di impegnare il governo a “proseguire la sensibilizzazione nelle scuole sull’importanza di una corretta alimentazione che non può prescindere dal consumo di prodotti a filiera corta” e “a stilare un protocollo d’intesa” affinché fosse “bandito l’uso dei novel food nelle mense scolastiche”.

In quest’ultima frase ci sarebbero i famosi grilli. Peccato che la risoluzione votata sia radicalmente cambiata proprio nella parte finale e il divieto di usare novel food nelle mense sia sparito. Si parla generalmente di “avviare un’approfondita riflessione”. C’è un altro particolare non trascurabile: come ricorda Pagella politica le risoluzioni delle commissioni parlamentari esprimono un indirizzo al governo ma sono tutt’altro che giuridicamente vincolanti. A ciascuno le sue conclusioni.

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Tra sciopero e mimose. Questo 8 marzo le donne si ribellano

Nell’anno 2024 la Giornata internazionale della donna (no, non è “la festa della donna” celebra l’8 marzo) con il governo più maschilista seppur a guida femminile si celebra con uno sciopero generale proclamato dalla maggior parte delle sigle sindacali italiane (Flc Cgil, Slai Cobas, Adl Cobas, Cobas Usb, Cobas Sub, Osp Faisa Cisal, Usi Cit, Clap, Si Cobas, Cub Trasporti, Uitrasporti, Usi 1912, Flaei Cisl e Uiltec Uil).

L’8 marzo, Giornata internazionale della donna, si celebrerà con uno sciopero generale proclamato dalla maggior parte delle sigle sindacali italiane

La discriminazione fa la forza, verrebbe da dire vedendo l’ombrello di tutti i sindacati italiani che decidono di scendere in piazza. A queste come ogni anno si aggiunge uno sciopero transfemminista promosso dal movimento “Non una di meno”, che invita le donne alla mobilitazione generale “contro la violenza patriarcale in tutte le sue forme”, per mettere in atto “un blocco della produzione e della riproduzione nelle case e sui posti di lavoro, nelle scuole e nelle università, nei supermercati e nei luoghi di consumo, nelle strade e nelle piazze, in ogni ambito della società. Perché se ci fermiamo noi si ferma il mondo”.

I sindacati di base, nei loro volantini, elencano varie motivazioni. Principalmente ricorrono: “Sciopero contro ogni forma di violenza fisica, psicologia e morale, contro ogni discriminazione salariale e di ruolo sui luoghi di lavoro e nelle istituzioni, ogni guerra e l’aumento delle spese militari e a favore di servizi pubblici di qualità, lavoro stabile, riconoscimento del lavoro di cura, aumenti salariali in rapporto al costo della vita, salute e sicurezza e stato sociale”. In sintesi: “Non donateci mimose”.

I sindacati confederali (Cgil, Cisl e Uil) chiedono di scendere in piazza “per gridare il nostro dissenso ad ogni forma di sopraffazione contro le donne e contro le politiche familiste, razziste e nazionaliste di questo governo, che alimentano sfruttamento e violenza”. Per il sindacato serve scendere in piazza “per gridare il nostro dissenso ad ogni forma di sopraffazione contro le donne e contro le politiche familiste, razziste e nazionaliste di questo governo, che alimentano sfruttamento e violenza, lo sciopero è anche l’occasione per chiedere seri e urgenti provvedimenti”.

La mobilitazione proclamata da “Non una di meno” contro la violenza in tutte le sue forme

Le manifestanti sottolineano anche la continua scia di femminicidi che attraversa il Paese, “un fenomeno intollerabile per un Paese che si dichiara civile”, dicono. In effetti dopo la fiammata di dibattito che ha seguito la morte di Giulia Cecchettin l’emergenza condivisa dall’arco parlamentare sembra essersi affievolita. Il dibattito si è fermato ma le morti no: dall’inizio dell’anno sono già 9 le vittime dei loro mariti, compagni o ex. Qualche giorno fa l’Istat nel suo rapporto “Analisi dei divari di genere del mercato del lavoro e nel sistema previdenziale” ha evidenziato che la parità di genere nel mercato del lavoro è ancora lontana e la necessità di conciliare vita professionale e familiare (e quindi l’uso dei relativi strumenti) rimane legata a una dimensione culturale prettamente femminile.

Nel 2022 a retribuzione femminile media nel settore privato si attesta sui 16.300 euro contro 24.500 euro annui percepiti dagli uomini. Una differenza del 40% che, anche a parità di condizioni (età, contratti, ore lavorate), non si azzera mai e arriva a un 12-13% stabile. Nel settore pubblico il gap si riduce, ma persiste; per le donne la retribuzione è di 28.400 euro annui contro i 33.600 euro annui dei maschi. Questo divario è dovuto al sempre più frequente ricorso nelle Pa dei contratti brevi, soprattutto nella scuola e nella sanità, dove la maggioranza degli occupati è di sesso femminile.

La festa della donna ai tempi del patriarcato. E del governo più maschilista della storia

Inoltre, le donne dirigenti con meno di 40 anni guadagnano in media 65.000 euro, a fronte dei quasi 103.000 degli uomini. Giorgia Meloni con il suo governo a oggi si è dimostrata sicuramente femminile ma molto poco femminista. Non resta che sperare nel regolamento adottato dal Consiglio europeo per combattere le discriminazioni retributive, che ogni Stato membro dovrà recepire entro il 2026.

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Patto di Stabilità Ue, Lega e FdI in fuga dal voto e da Giorgetti

La Commissione Econ del Parlamento europeo ha approvato la riforma del Patto di stabilità confermando a maggioranza il proprio voto favorevole a quanto emerso dai negoziati inter-istituzionali sui tre testi di legge che compongono le nuove regole fiscali. Chi mancava nel momento del voto? Gli europarlamentari di Fratelli d’Italia e della Lega.

Per la premier Meloni la riforma del Patto di Stabilità era una vittoria. Ma al momento dell’ok i suoi si sono volatilizzati

Il 20 dicembre dell’anno scorso la presidente del Consiglio Giorgia Meloni in una nota da Palazzo Chigi definiva l’accordo preso a Bruxelles “un compromesso di buonsenso per un accordo politico”. “L’Italia è riuscita, non solo nel proprio interesse, ma in quello dell’intera Unione, a prevedere meccanismi graduali di riduzione del debito e di rientro dagli elevati livelli di deficit del periodo Covid”, dettava Meloni, che di fronte ai giornalisti si diceva “soddisfatta”, anche se non era “il Patto di stabilità che avrei voluto io”.

Da canto suo il ministro all’Economia Giancarlo Giorgetti aveva sottolineato, in Commissione bilancio della Camera, come con il nuovo patto di stabilità “probabilmente abbiamo fatto un passo indietro”, ma “la valutazione però la faremo tra qualche tempo, rispetto al vecchio ha il pregio che la Commissione può costruire un percorso per ogni singolo paese”, quindi con un sistema di regole “complicato ma mobile”.

La vittoria sventolata da Meloni settimana dopo settimana ha cominciato ad ammainarsi

La vittoria sventolata da Meloni settimana dopo settimana ha cominciato ad ammainarsi. L’altro ieri in commissione l’ultimo atto. Gli europarlamentari della Lega e di Fratelli d’Italia membri titolari della Commissione per i problemi economici e monetari del Parlamento europeo hanno disertato il voto. “Evidentemente si vergognano di mettere la faccia sui tagli draconiani che questa riforma porterà al nostro Paese”, dice l’europarlamentare dei 5s Tiziana Beghin, che sottolinea la “presa di distanza pusillanime” che “non cambia le responsabilità su come si è arrivati a questo testo”. “Il loro Ministro Giancarlo Giorgetti lo ha negoziato in Europa e Giorgia Meloni lo ha più volte difeso. È loro la responsabilità politica – aggiunge Beghin – del ritorno dell’austerity e noi glielo ricorderemo ogni singolo minuto in campagna elettorale. La strategia dello struzzo e cioè far finta che i problemi creati non esistano con i cittadini non funziona”.

Uno studio della Confederazione europea dei sindacati (Ces) basato sui calcoli del prestigioso think tank Bruege ha ipotizzato che il nuovo Patto di stabilità porterà a un taglio alle spese per sanità, istruzione e investimenti che potrebbe arrivare a 100 miliardi di euro in Ue nei prossimi anni. Di cui un quarto solo in Italia. La riforma potrebbe costringere l’Italia a tagli annuali al bilancio tra lo 0,61% e l’1,15% del Pil (le percentuali più alte in Ue dopo Belgio e Slovacchia). Questo dipenderà dal tipo di piano di rientro del debito che il nostro governo concorderà con la Commissione europea (una delle novità della riforma), ossia se un piano di 4 anni o uno di 7 anni.

I sovranisti disertano la Commissione. M5S: “Si vergognano di metterci la faccia”

Nel primo caso, il taglio annuale, calcola la Ces, sarebbe di 25,4 miliardi. Nel secondo caso, lo sforzo scenderebbe a 13,5 miliardi. L’Italia ha ottenuto clausole per ammortizzare i tagli nell’immediato ma per Jeromin Zettelmeyer, economista tedesco con un passato da direttore al Fondo monetario internazionale, se lo sconto nel brevissimo termine “renderà la vita più facile ai governi che hanno negoziato il compromesso” (quindi a Meloni), il rinvio del pagamento degli interessi graverà sui “loro successori”.

“La riforma del Patto di Stabilità che obbligherà l’Italia a tagliare 12/13 miliardi l’anno – spiega Beghin – è passata in Commissione sostenuta da una maggioranza che va dai socialisti a Orban, passando per i liberali e i popolari. Tutti uniti, ahimé, nel difendere l’austerity”. Per l’Italia mancavano solo i diretti interessati.

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Quei 1.500 camion bloccati a Rafah

Sono almeno mille e cinquecento (1.500) i camion carichi di aiuti umanitari per la popolazione di Gaza bloccati al valico di Rafah. Bloccati perché gli è impedito di entrare nella Striscia dove la popolazione – secondo il Wto – si appresta a contare almeno altri 75mila morti per fame e per sete. 

Le immagini dei mezzi costretti al fermo le ha mostrate Meri Calvelli, cooperante della ong Acs, giunta al valico di Rafah assieme alla delegazione italiana che chiede il cessate il fuoco immediato e l’ingresso nella Striscia di aiuti umanitari senza alcuna limitazione. 

Su Gaza cadono bombe e pochi (pochissimi) aiuti umanitari dal cielo. Lo Stato di Israele evidentemente crede che per sconfiggere Hamas sia necessario impedire l’ingresso di cibo per salvare la gente stremata. Impossibile sapere cosa c’entri con la strategia militare del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu affamare la gente già stracciata. 

Gli operatori umanitari fanno l’elenco di cose semplici che Israele non ha fatto per facilitare l’arrivo degli aiuti: consentire forniture essenziali sufficienti, aprire prima i punti d’ingresso e rispettare le minime condizioni di sicurezza per i convogli e gli operatori umanitari e i loro uffici, che invece vengono attaccati. Israele, inoltre, continua a respingere regolarmente le richieste umanitarie di far entrare altre fonti di energia come i pannelli solari, i generatori e le batterie. I civili palestinesi muoiono per cause evitabili: bombardamenti, mancanza di acqua e cibo, diffusione di malattie, assenza di cure mediche.

Il blocco israeliano è una forma di punizione collettiva e un crimine di guerra. Anche se scriverlo offende qualcuno. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: i camion bloccati a Rafah da Pagina esteri

 

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Figli di due mamme. C’è un giudice a Padova

Si tratta solo del primo round. Il tribunale di Padova ha respinto il ricorso della Procura che nella primavera scorsa aveva chiesto di annullare tutti gli atti di nascita con i quali il comune di Padova aveva riconosciuto a 35 bambini lo status di figli con due mamme. Quei bambini sono finiti in un limbo, orfani per sentenza, con l’avvallo della politica omofoba al governo. Per il tribunale il ricorso della Procura è inammissibile.

Il matrimonio tra persone dello stesso sesso in Europa viene riconosciuto legalmente e realizzato in 21 stati

Poco distante, a Milano, però un mese fa la Corte d’Appello ha dichiarato illegittime le iscrizioni anagrafiche dei bambini con due mamme. La furia ideologica del governo con la mamma cristiana e italiana Giorgia Meloni e con il ministro all’Interno Matteo Piantedosi è semplicemente rimandata. La discriminazione che sfrutta i vuoti normativi è pusillanime. Ma non si possono lasciare i diritti in mano ai giudici.

Non possono essere i tribunali a decidere la geografia delle famiglie. Il matrimonio tra persone dello stesso sesso in Europa viene riconosciuto – a febbraio del 2024 – legalmente e realizzato in 21 stati ovvero: Andorra, Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Islanda, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera e Estonia. Il Parlamento ha l’obbligo di affrontare la questione.

Così ognuno si potrà assumere le proprie responsabilità: gli omofobi si siederanno con gli omofobi, i finti progressisti si sveleranno e ai cittadini verrà data la possibilità di giudicare i voti e non solo le promesse e le posture. La cosa certa è che fingere di non vedere la pluralità di famiglie non le cancella, con buona pace di Meloni e compagnia.

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