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Cariche di Stato a Pisa. Nel silenzio di Meloni arriva la Procura

Giorgia Meloni muta. La Procura di Pisa intanto nel pomeriggio di ieri ha aperto un’inchiesta per appurare chi ha preso le decisioni e chi ha dato l’ordine di caricare. Da venerdì, quando i poliziotti hanno manganellato degli studenti inermi a Pisa durante una manifestazione che chiedeva la pace in Palestina, la presidente del Consiglio non ha trovato un minuto per dire la sua. Hanno parlato i ministri del suo governo, i maggiorenti del suo partito, i parlamentari della sua maggioranza e il Quirinale ha scritto una nota ufficiale. Meloni muta. L’unica conversazione di cui si ha traccia è un colloquio privato con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in cui il capo dello Stato ha invitato ad abbassare i toni per preservare la coesione sociale. In quel caso Meloni evidentemente non ha nemmeno ascoltato, o forse non ha capito.

Aperta un’inchiesta sulle cariche selvagge agli studenti di Pisa. Intanto la premier si nasconde dietro Piantedosi

Il silenzio non sembra comunque avere l’effetto sperato. Ieri il presidente dell’Associazione Nazionale Presidi (Anp), Antonello Giannelli, ha sottolineato come i ragazzi fossero “a viso scoperto, non disponevano di nessun oggetto in grado di offendere. Vedere dei poliziotti – ha continuato – che manganellano dei minorenni perlopiù inermi, che non causano offesa di nessun tipo, non è una bella cosa”. Il ministro Matteo Piantedosi ha incontrato ieri i sindacati che avevano richiesto un incontro urgente. Non è andata benissimo. All’uscita il segretario della Cgil Maurizio Landini ha sottolineato come la presidente del Consiglio sia “sempre molto attenta su tutto. È chiaro che questo silenzio, di per sé, ha parlato”. Il segretario generale della Uil, Pier Paolo Bombardieri ha spiegato che “non possiamo accettare che ci siano persone con le mani tese che non vengono identificate e ragazzi che protestano con le braccia alzate che vengono manganellate. Questo non è accettabile”.

La Cisl chiede che vengano “accertate le responsabilità e che chi ha sbagliato paghi”. Dall’opposizione per tutto il giorno piovono le richieste di prevedere i codici identificativi per le forze dell’ordine e che il ministro dell’Interno si presenti in Aula. “Lo attendiamo con ansia in Parlamento perché riferisca”, dice il deputato Marco Pellegrini, capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione Difesa a Montecitorio, che avanza anche il sospetto che i poliziotti “eseguissero direttive superiori”.

Il ministro dell’Interno chiamato a riferire in Parlamento dall’opposizione. Che chiede i codici identificativi per gli agenti

Riccardo Magi di +Europa sottolinea come i codici identificativi siano raccomandati anche dall’Onu e dall’Unione europea. L’ex ministro alla Giustizia dem Andrea Orlando sottolinea come “la presidenza del Consiglio non solo sembra ignorare l’allarme del Capo dello Stato, ma scavalca pure il Viminale non appena il ministro Piantedosi, toccato dalla nota del Quirinale, approva un riesame dei fatti con il Dipartimento di pubblica sicurezza”. Dal canto suo il ministro Piantedosi si ritrova in mezzo alla corrente. Mentre l’opposizione insiste nel chiedere le sue dimissioni si ritrova per tutta la giornata a gestire il vittimismo delle sigle sindacali di Polizia (come se le mele marce non siano proprio una questione di “onorabilità” del corpo) e i compagni di maggioranza che lamentano un doppio standard della sinistra. Così prima di sera è costretto a ribadire la stima per il presidente della Repubblica ma contemporaneamente a fare sponda con gli innocentisti più focosi. L’informativa è il passaggio obbligato per fingere di voler chiudere una vicenda che no, non si chiuderà così facilmente.

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Intesa vincente Conte-Schlein. La Sardegna è solo l’inizio

Ieri, mentre scrivevamo questo articolo, erano sedici ore che in Sardegna si contavano le schede in uno spoglio che pareva uno stillicidio. Nello staff di Alessandra Todde, futuribile presidente di Movimento 5 stelle, Partito democratico e Alleanza verdi e sinistra dalle prime ore del mattino è galleggiata la sensazione che la lentezza sia un effetto di macchinosità burocratica ma anche un effetto scenico per mimetizzare la sconfitta della destra. “Stanno cercando in tutti i modi di arrivare ai Tg della sera con il titolo sul testa a testa”, si dicono i parlamentari del Pd.

Elly Schlein piazza uno schiaffone ai terzopolisti del Pd. L’alleanza con il M5S di Conte e Avs è un modello per le altre regioni

Per come è andata a finire l’evento è epocale: il campo largo ma non slabbrato che tiene insieme i 5S e i dem con l’appoggia di verdi e sinistra contende una regione che fino a poche settimane fa era considerata un forno del centrodestra. Nei partiti della maggioranza di governo la sicumera aveva spinto i leader perfino a bisticciare sul candidato. Da questa parte la segretaria dem Elly Schlein ha silenziosamente lavorato per stringere e sperimentare l’alleanza a cui lavora per le altre elezioni regionali e, soprattutto, per costruire l’alternativa politica a una Giorgia Meloni che comincia a scalfirsi. Il deputato Pd Nicola Zingaretti non si trattiene e a conta ancora in corso scrive: “Ennesima conferma: uniti si può vincere, divisi si perde sicuro. Complimenti alla presidente Alessandra Todde e a tutto il centrosinistra sardo. Grazie Elly Schlein per aver tenuto la barra dritta: contenuti chiari e cultura unitaria!”.

Musi lunghi tra i guastatori riformisti del Pd che in segreto confidavano nel primo inciampo della loro segreteria che vorrebbero rosolare per usura. Non solo gli elettori hanno premiato la candidata 5 stelle, il Pd tallona Fratelli d’Italia nei voti di lista a dimostrazione che i cosiddetti riformisti sono molto rumorosi ma politicamente ben poco influenti. Le macerie del Terzo polo che la componente riformista dei dem vede come salvifica soluzione valgono un pugno di voti che non servono al Pd e soprattutto non interessano agli elettori. Lo dice senza troppi giri di parole la deputata e vicepresidente del Pd Chiara Gribaudo: “I nostri interlocutori devono essere i Cinque Stelle, ci sono divisioni, è evidente, ma detto questo io penso che sia iniziato un percorso. Quando ci sono candidature, anche generose, si può stare insieme”.

Qualcuno, come il senatore dem Dario Franceschini, ne approfitta per togliersi qualche sassolino dalla scarpa ricordando ai compagni di partito di Base riformista (Guerini, Alfieri e Bonaccini in testa) che la “Sardegna indica che la strada imboccata tra mille difficoltà nel settembre 2019 era quella giusta”. La minoranza Pd resta in silenzio e aspetta mercoledì per l’analisi. Intanto, più di qualcuno dell’area Schlein avverte: “Non hanno una ricetta alternativa, bisogna continuare a insistere anche su Piemonte e Basilicata”. Anche il sindaco di Firenze Dario Nardella – molto poco schleiniano e molto interessato alle prossime europee – annusa l’aria che tira e si lascia andare: “Da domani comincia una nuova strada per il centrosinistra”, scrive sui suoi account social.

Colpo ai renziani di Base riformista che tifavano per il flop in Sardegna. Ma sulle intese future i pentastellati non si sbilanciano

In casa 5 stelle le bocche sono cucite. A parlare è quell’aereo su cui il presidente del partito Giuseppe Conte è salito con Elly Schlein per volare a Cagliari. Conte non si sbilancia con i giornalisti, dice solo che “comunque vada” vuole abbracciare la sua candidata ma i due leader che negli ultimi mesi hanno vissuto momenti di frizione ora sono alleati. Non è solo la Sardegna. Nel 2024 ci sono le elezioni in Abruzzo, Basilicata, Piemonte e Umbria. Nel quartier generale dei pentastellati si sa bene che un contesto favorevole come quello sardo non sarà difficile da replicare. Pd e M5S possono comunque essere competitivi. Però, precisano dal Movimento 5 Stelle, i pesi all’interno della coalizione contano, eccome. I 5S, che hanno sempre chiesto “un rapporto alla pari” al Pd in vista delle alleanze ancora da stringere, tiene il punto.

“Dove c’è stato un confronto aperto e si è partiti dalle esigenze dei cittadini, come in Sardegna, – spiega chi è più vicino al presidente Conte – si è riusciti a trovare un’intesa e a raggiungere un risultato importante”. “La specificità della Sardegna, – dicono dallo staff di Conte – non si può applicare in fotocopia in Basilicata e Piemonte, ad esempio”. La linea resta quella della cautela: no a fusioni a freddo o cartelli elettorali, “si parta dai programmi e dai territori”. Ma la Sardegna è la partenza migliore che si potesse sperare.

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Processare le ceneri di chi si brucia per delle idee

Nell’epoca dell’utile sgomento il venticinquenne statunitense Aaron Bushnell è stato talmente maleducato da darsi fuoco di fronte all’ambasciata israeliana a Washington. Un aviatore dell’esercito americano che decide di urlare contro un genocidio usando il suo suicidio è un tilt per la stampa mansueta. Nelle riprese video Bushnell urla di non voler “essere più complice del genocidio” e dichiara di prepararsi “a un gesto estremo che non è nulla rispetto a ciò che vivono le persone a Gaza nelle mani dei colonizzatori”. 

I giornalisti pensosi si saranno domandati: come si scrive una storia così? Non scriverla o spuntarla fino ad arrotondarla deve essere sembrata la scelta migliore e così Aaron Bushnell l’indomani sul New York Times si merita un titolo che brilla per ciò che non dice: “un uomo muore dopo essersi dato fuoco davanti all’ambasciata israeliana a Washington, dice la polizia”. Un record di decontestualizzazione che è il contrario degli insegnamenti di ogni corso di giornalismo. E pensare che lo stesso giornale il 17 marzo del 1965 scriveva di “un’anziana vedova in condizioni critiche qui oggi dopo essersi data fuoco all’angolo di una strada la scorsa notte per protestare contro la politica estera degli Stati Uniti”. Smussarsi per sopravvivere. 

Dopo averlo taciuto qualcuno deve avere pensato che Bushnell anche da morto meritava di essere screditato. Così – come osserva l’editorialista Belén Fernández – il Time riesce a inserire la parola Gaza nel titolo ma ricorda nell’articolo che la “politica del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti stabilisce che i membri del servizio in servizio attivo non dovrebbero impegnarsi in attività politiche di parte”. Sono tempi così, dove protestare contro un genocidio è una posizione “di parte”. “Forse le ceneri di Bushnell potranno essere processate in un tribunale militare”, scrive Fernández. O forse siamo ancora al dito e alla luna, ancora peggio del 1965. 

Buon martedì. 

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Propaganda di guerra. La profezia di Anne Morelli

Anne Morelli è una storica belga che nel 2005 aveva pubblicato in Italia un libro dal titolo “Principi elementari della propaganda di guerra”. L’autrice dimostra come dei meccanismi elementari della propaganda di guerra, utilizzati per la prima volta in occasione del conflitto del 1914-1918, ci si sia serviti regolarmente in tutte le ostilità successive (comprese le più recenti).

Anne Morelli dimostra come dei meccanismi elementari della propaganda di guerra, utilizzati per la prima volta in occasione del conflitto del 1914-1918, ci si sia serviti regolarmente in tutte le ostilità successive (comprese le più recenti)

Il libro, per il suo carattere didattico, ha conosciuto un grande successo internazionale: tradotto in sette lingue (tra le quali il giapponese) e ripubblicato in varie edizioni, si è oggi trasformato in un «classico», utile soprattutto a comprendere come la propaganda ci spinga ad accettare guerre che al loro insorgere disapprovavamo. La propaganda di guerra è un dispositivo antico quanto la guerra stessa, codificato da Arthur Ponsonby, politico pacifista inglese, dopo la prima guerra mondiale.

I dieci punti principali si potrebbero riassumere così: 1. Non siamo noi a volere la guerra, ma siamo costretti a prepararla e a farla; 2. I nemici sono i soli responsabili della guerra; 3. Il nemico ha l’aspetto del male assoluto (salvo averci fatto affari fino a poco prima); 4. Noi difendiamo una causa nobile, non i nostri interessi; 5. Il nemico provoca volutamente delle atrocità, i nostri sono involontari effetti collaterali; 6. Il nemico usa armi illegali, noi rispettiamo le regole; 7. Le perdite del nemico sono imponenti, le nostre assai ridotte; 8. Gli intellettuali e la stampa sostengono la nostra causa; 9. La nostra causa ha un carattere sacro (letterale o metaforico); 10. Quelli che mettono in dubbio la propaganda sono traditori.

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Piantedosamente galleggia

Antropologia di un dei peggiori ministri dell’Interno dell’Italia repubblicana, sulla scia dei pessimi ministri dell’Interno che purtroppo abbiamo avuto in questi ultimi anni. Matteo Piantedosi, ex capo di gabinetto di quel Matteo Salvini relegato da Giorgia Meloni a giocare con i ponti pur di non combinare danni con i porti, ha visto le fascistissime immagini dei manganelli sugli studenti a Pisa e si è indignato. Il suo fastidio per l’operato della polizia lo condivide con il Quirinale quando viene informato che il presidente della Repubblica ha intenzione di intervenire con una nota.

Così un ministro dell’Interno difende irrazionalmente la Polizia più di quanto lo faccia il capo della Polizia

“L’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza”, recita il comunicato stampa di Mattarella, sostanzialmente condiviso da Piantedosi. Nel frattempo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, appena tornata da Kiev, comanda ai suoi di menare le parole per difendere coloro che menano le mani e subito parte un’infornata di comunicati stampa – con il solito Donzelli nella solita parte del cocchiere di corte – per dire che al governo stanno “dalla parte della Polizia senza se e senza ma” e che “i violenti stanno a sinistra”.

Negare e rilanciare è perfino più grave e più fascista dei manganelli: rivittimizzare le vittime è un vigliacco abuso del potere. Che fa Piantedosi? Cambia idea. Abbandona le sue idee convenute con il Quirinale e si cimenta nella parte del cameriere per soddisfare le voglia della sua capa. Così un ministro dell’Interno difende irrazionalmente la Polizia più di quanto lo faccia il capo della Polizia. E anche questa volta il ministro piantedosamente galleggia.

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Steccato di Cutro un anno dopo. E la filoxenia

Un anno fa, il 26 febbraio del 2023, sulla spiaggia di Steccato di Cutro morivano almeno 94 persone. 35 erano bambini. Numeri certi, anche un anno dopo, non ce ne sono. Una ventina di dispersi sono stati inghiottiti dal mare. I corpi sono stati sputati sulla spiaggia per giorni, quattro o cinque al giorno. 

Un anno fa la prima reazione di questo governo a una tragedia che ha insozzato i salotti degli italiani – quindi inevitabile – consisteva nell’accusare i morti di essere partiti per morire. Poi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni con tutti i membri del suo governo è andata in gita a Cutro per inscenare un Consiglio dei ministri in favore di stampa. Sono stati accolti da peluche buttati sulle auto delle scorte come maledizione per quei cadaveri bambini. Hanno licenziato un decreto mortifero a cui hanno dato il nome del lutto, come ferali influencer della politica. La presidente del Consiglio non ha visitato le salme e i famigliari per i “troppi impegni”. Poi abbiamo saputo che quella sera c’era un importante karaoke per il compleanno di Matteo Salvini dove stonare ridanciani la canzone su una migrante annegata di Fabrizio De André. 

Ai familiari dei sopravvissuti Meloni aveva promesso canali umanitari e lo status di rifugiati. Promessa mai mantenuta. Il “decreto Cutro” non ha rispettato i morti e ha aumentato il sabotaggio nei confronti dei vivi. 

In piazza del Popolo a Cutro c’è una scultura dell’artista Antonio Tropiano. È una mano che esce dall’onda e tiene il lembo di un’imbarcazione. Si chiama Symbolon che deriva dal verbo “symballo” che significa “unire”, ma anche soccorrere, aiutare. Filoxenia, ossia l’amore per lo straniero: è con questo termine che si definiva il valore sacro dell’ospitalità, quel principio etico fondamentale della cultura greca che distingueva l’uomo giusto dall’iniquo.

Buon lunedì. 

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Le motivazioni di Lisa Ginzburg per la presentazione de I mangiafemmine al Premio Strega 2024

“Con I mangiafemmine, Giulio Cavalli costruisce una lucidissima distopia che non ha nulla di distopico. Si addentra nell’abominio dei femminicidi tratteggiando personaggi maschili dalla bieca e cieca natura, e lo fa in modo impietosamente verosimile, così come immagina e restituisce donne i cui disgraziati destini risultano anch’essi assolutamente contigui alla realtà. Il risultato è un romanzo che è attuale a ogni pagina, ma la cui forza letteraria in nulla disobbedisce alle ferree regole della trasposizione e dell’invenzione. Un libro che si legge d’un fiato, con totale coinvolgimento per come affonda nel nervo del possibile, eppure sentendosi costantemente nutriti dalla cruda pienezza della fantasia. Dialoghi, frangenti, intrecci: tutto è terso e stringente come solo accade quando lo sguardo di uno scrittore sa essere chirurgico per come nitido e coraggioso, quasi una lama quando affronta quel che sta per tagliare senza in nulla arretrare davanti alla precisione del suo proprio gesto. Il mondo di DF, luogo/spazio immaginario il cui acronimo condensa nel suo enigma distopia e denuncia, è specchio convesso che riflette senza deformare una troppo vasta porzione del mondo in cui viviamo. E come succede nella letteratura quando è tale, riprovazione, scandalo, angoscia, paura, dolore, ogni moto d’animo suscitato nel lettore genera a propria volta un processo di associazione con la vita vera che indirettamente rafforza lo spessore dell’immaginazione narrativa. Un libro che parla di esistenza e di pulsioni di morte, di violenza di genere, di frustrazione e di soprusi, di abissi morali e di rapporti di forza. Una vicenda densa di voci maledettamente azzittite ma su cui, stendendosi come una scia, rimbomba sonora l’eco che quelle stesse vittime lasciano nell’aria, grido acuto di allarme, anatema.

Per lo stile preciso e la struttura compatta, per come reinventando la realtà in senso antropologico e politico sa narrarla dal di dentro, per come incuneandosi nel buio riesce a sviscerare di quel buio ogni singola ombra, I mangiafemmine è romanzo importante, che con convinzione mi sento di presentare al Premio e agli Amici della Domenica.”

Lisa Ginzburg

La polizia, le manganellate e quel senso di impunità garantito dal governo – Lettera43

Negli ultimi mesi le cariche delle forze dell’ordine si sono moltiplicate. Contro studenti che manifestano per la pace in Palestina, contro chi difende il diritto al lavoro o chi si batte per l’ambiente. In una parola verso chi non si riconosce nelle idee e negli obiettivi del governo più marziale della storia repubblicana. Come lo vogliamo chiamare? Michela Murgia non aveva dubbi.

La polizia, le manganellate e quel senso di impunità garantito dal governo

In una delle nostre ultime telefonate Michela Murgia mi raccontava di un elenco di intellettuali, soprattutto scrittori, non graditi che era stato girato a certi Istituti italiani di cultura in giro per il mondo. La repressione può avere molte forme, può essere la manganellata di un poliziotto adulto addestrato e attrezzato per gravi disordini sociali in faccia a un ragazzino che chiede di fermare la strage in Palestina o può essere un bisbiglio velenoso che comanda senza impartire. La leva dell’autocensura in Italia, oliata dalla naturale propensione di molti verso il potere di turno fa il resto: a volte non c’è bisogno di dire esplicitamente che vi sono categorie di persone con cui si può usare un pugno più duro che con altre. Basta la percezione di una garantita impunità da parte del potere politico maggioritario.

Cariche e manganellate della polizia ai cortei pro Palestina di Pisa e Firenze
Scontri durante il corteo pro-Palestina a Pisa (da X)

Blocchi stradali, gli eco-vandali e gli agricoltori eroi

Negli ultimi mesi le strade italiane sono state bloccate da attivisti per il clima e da agricoltori organizzati. Lasciamo perdere le legittime richieste di ognuno, proviamo semplicemente a valutare le reazioni ai blocchi stradali. Gli attivisti per il clima sono stati apostrofati come «gretini», «eco vandali», «eco cretini», «delinquenti» e meritevoli di «essere sbattuti in galera e buttare via la chiave». Tutte queste definizioni sono uscite dalla bocca di importanti rappresentati dei partiti di maggioranza e del governo. Nessuno tra loro si è sognato di definire “agri cretini” i coltivatori che hanno protestato e che stano protestando ancora. Nel primo caso si è puntato il dito sul contestatore tralasciando le ragioni della suo manifestare mentre nel secondo caso le lamentele sono state prese così terribilmente sul serio che anche una statua disarcionata (non sporcata con vernice lavabile, letteralmente mandata in pezzi) in piazza a Bruxelles è passata inosservata nell’indifferenza generale.

Salvini e il manuale dell'ipocrisia: dai blocchi stradali degli agricoltori al caso Salis
Le proteste degli agricoltori a Bruxelles (Getty Images).

L’identikit delle vittime della repressione

Ciò che è preoccupante nelle impattanti operazioni di polizia di questi ultimi mesi è l’omogeneità delle vittime. Sono molti giovani (a quelli di Ultima generazione hanno dedicato perfino un decreto legge contra personam), studenti, afferibili ad ambienti di sinistra o comunque considerati estranei alla parte politica della maggioranza di governo, sono dichiaratamente antifascisti. Il governo più marziale della storia repubblicana e più benevolmente retorico verso le forze dell’ordine (meglio: verso il diritto alla forza che rappresentano) sta riuscendo nella mirabile impresa di aggiungere alla categoria dei “pericolosi” oltre alle storiche donne e bambini che sbarcano sulle nostre coste anche degli eleganti signori che alla borghesissima Prima della Scala urlano «viva l’Italia antifascista», degli studenti che sfilano per la pace, dei cantanti che dicono (come cantano) quello che pensano, dei conduttori televisivi che intervistano, delle donne che lamentano di essere uccise e così via. Di fronte alle immagini di 50 poliziotti bardati per la guerra che malmenano qualche decina di ragazzini con lo zaino in spalla, la questura di Pisa ci ha spiegato che «il corteo non era autorizzato» (come gli agricoltori in mezzo alla strada, come i fascisti alle commemorazioni, del resto) e che «è mancata l’interlocuzione con i rappresentanti dei promotori». La giustificazione è fenomenale: poiché non sapevano con chi parlare hanno menato le mani. E hanno menato le mani perché questo tempo concede la percezione di impunità a chi alza il livello di scontro contro studenti che manifestano per la Palestina, così come contro quelli che manifestano per l’ambiente, così come quelli che manifestano per il diritto al lavoro, così come contro quelli che manifestano per un obiettivo che il governo non condivide.

Deponevano fiori per Navalny a Milano: identificate dalla Digos, scontro tra Sensi e Piantedosi
Il ministro degli interni Matteo Piantedosi. (Imagoeconomica).

Piantedosi potrebbe essere ricordato per aver superato (in peggio) il maestro Salvini

Qualche giorno fa il ministro all’Interno Matteo Piantedosi – che tra qualche anno senza vergogna ricorderemo come colui che è riuscito a fare peggio del suo maestro Salvini – ha candidamente spiegato che l’identificazione di alcune persone che portavano un fiore in memoria di Navalny nel luogo che commemora Anna Politkovskaja non è «una compressione delle libertà». Il ministro non ci trova nulla di strano che nei registri di Stato si debba tenere conto di chi silenziosamente rende omaggio a una vittima di Putin. Diceva Michela Murgia: «Io penso che questo governo sia fascista. Lo penso dalle scelte, dalle decisioni che sta prendendo. Cioè controllo dei corpi, controllo della libertà personale, discriminazione delle comunità già discriminate che stavano riuscendo a ottenere dei diritti. Una certa impostazione ideologica che inevitabilmente ripercorre cose che abbiamo già visto. Ma voi vi aspettate che il fascismo vi bussi a casa con il fez e la camicia nera e vi dica: “Salve, sono il fascismo, questo è l’olio di ricino”? Non accadrà così».

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Abiura Fratelli d’Italia sulle Regioni, da centri di malaffare a poltrone da occupare

Il 15 gennaio del 2014 in Parlamento veniva presentata una proposta di legge costituzionale per abolire le Regioni. Al loro posto avrebbero dovuto esserci “36 centri propulsori della gestione amministrativa della cosa pubblica”. L’illustrazione della proposta incominciava così: “L’affollamento istituzionale, generato da una distorta e ‘generosa’ interpretazione del principio del pluralismo istituzionale affermato dall’articolo 5 della Costituzione, ha determinato una costante frantumazione delle articolazioni funzionali senza che siano state ricondotte a omogeneità da un coerente disegno unitario del sistema autonomistico”.

Le firme in calce erano dell’attuale viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli e di una giovanissima Giorgia Meloni, ora presidente del Consiglio.

Vade retro

Il 14 dicembre dello stesso anno alla manifestazione di Fratelli d’Italia e An L’Italia soprattutto, organizzata a Roma al teatro Quirino, Meloni spiegava ai giornalisti che “il regionalismo in Italia ha fallito perché ha moltiplicato occasioni di malaffare e ha occupato poltrone e spesa pubblica”. Per l’attuale presidente del Consiglio la sfida consisteva nel dare “più autonomia ai comuni” e “più autorevolezza allo Stato centrale”.

“Su questi temi sfidiamo anche la Lega”, spiegava Meloni. Dieci anni dopo di quel progetto è rimasta la sfida con gli alleati e nient’altro. Le odiate regioni sono la spina dorsale della riforma per l’autonomia differenziata. La presidente del Consiglio in un decennio deve essersi convinta che le occasioni di malaffare e lo sperpero pubblico siano guarite talmente bene da meritarsi ancora già spazio per decidere.

Indietro tutta

Ma sono soprattutto le poltrone a far venire l’acquolina in bocca al partito della presidente del Consiglio. Fratelli d’Italia si apparecchia le regioni italiane per riempirsi lo stomaco. C’è il succulento Veneto in cui il partito di Giorgia ha più che raddoppiato i voti della Lega, c’è la Campania a cui il ministro alla Cultura Gennaro Sangiuliano dedica buona parte delle sue parole e delle sue giornate, c’è la Liguria e così via. Il dibattito politico nella maggioranza sul terzo mandato per i presidenti di regione è la cipria con cui si prova a nascondere l’insaziabile appetito della presidente del Consiglio che sogna la sostituzione politica dei suoi alleati con i suoi uomini. Così la marcia marziale della leader di Fratelli d’Italia continua noncurante delle lamentele.

Ieri il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti – che raccontano terrorizzato dall’idea di doversi reinventare – si è augurato “che Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni facciano una riflessione, sono sempre stati un partito favorevole alle preferenze, al consenso, se l’è cercato casa per casa. Oggi questa limitazione non è coerente con la sua storia, come non è coerente con la storia di Forza Italia di Silvio Berlusconi, che in qualche modo ha sempre glorificato come un alfiere della volontà popolare e pura, talvolta con scontri istituzionali abbastanza duri sugli equilibri di potere”.

Pigliatutto

Il veneto Luca Zaia dice di aspettare per vedere “quanta sovranità al Parlamento” ma è Matteo Salvini a Cagliari a tenere aperta la disfida: “Decide liberamente il Parlamento, non c’è nessun problema di maggioranza”, ripete il leader della Lega che precisa come ci siano “altri quattro anni davanti per aiutare gli italiani a lavorare di più e stare bene. Sicuramente – ha detto Salvini – ci sono posizioni diverse, anche all’interno del Pd, ma secondo me è democratico che se si trova un buon sindaco o un buon governatore lo si possa rivotare. Detto questo voterà il parlamento”.

La linea in Fratelli d’Italia è ovviamente quella dettata dalla leader: il terzo mandato non è nel programma, ripetono in coro i maggiorenti del partito. L’ennesima giravolta di Giorgia Meloni è diventata un mantra: anche sulle regionali non c’è discussione. L’occupazione che chiamano egemonia culturale può serenamente avanzare.

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Tusk vota von der Leyen, sbloccato il Pnrr alla Polonia

Ultime notizia dall’Unione europea che sbiadisce e suggerisce l’Ue che verrà. La Commissione è pronta ad approvare il primo pagamento per la Polonia dallo strumento di ripresa e resilienza dell’Ue, già questa settimana. Poco dopo essere al potere, il nuovo governo del primo ministro Donald Tusk aveva chiesto una prima rata di 6,3 miliardi di euro dai quasi 60 miliardi di euro stanziati per la Polonia nell’ambito del Fondo per la resilienza e la ripresa. I fondi erano stati congelati a causa delle preoccupazioni per lo stato di diritto nel paese sotto il precedente governo nazionalista di Law and Justice (PiS, Ecr). Il governo PiS era accusato di avere indebolito l’autonomia della magistratura con le sue riforme.

Con il cambio di governo il nuovo primo ministro Tusk ha messo in campo un pacchetto di riforme che includono riforme anche nel settore giudiziario. Il ministro della Giustizia polacco Adam Bodnar ha presentato ad altri ministri dell’Ue un pacchetto di progetti di legge per ripristinare lo stato di diritto in Polonia già all’inizio di questa settimana. Ma soprattuto Tusk ha confermato lunedì che il suo partito sosterrà la candidatura di Ursula von der Leyen di nuovo alla presidenza della Commissione Ue. E così in brevissimo tempo i soldi si sono sbloccati. Intanto il partito filo-russo di estrema destra bulgaro Vazrazhdane dopo una gita a Mosca dei suoi leader ha deciso di aderire al gruppo di estrema destra Identità e Democrazia al Parlamento europeo. Vazrazhdane è il terzo partito in Bulgaria e potrebbe ottenere quattro eurodeputati su 17 in patria. Andranno a sedersi con Matteo Salvini e Marine Le Pen.

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