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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

La sorella d’Italia di Orbán

“Giorgia Meloni è la mia sorella cristiana”. Ha parlato così ieri il presidente ungherese Viktor Orbán al Workshop Thea di Cernobbio. “All’inizio – spiega – questo rapporto non ha avuto un ruolo importante nella politica europea, ora però insieme possiamo aprire una nuova era”. Secondo Orbán “avere le stesse basi culturali gioca un ruolo più importante rispetto al passato” e Meloni “non è solo una collega politica ma una ‘sorella cristiana’…”.

“Questo concetto – ha concluso – ha un senso politico fondamentale per l’Ungheria ma credo anche per l’Italia e questo aspetto culturale della politica tornerà in Europa come è giusto che sia”. La presidente del Consiglio Meloni sogna – lo ha sempre sognato – di essere autorevole. L’autorevolezza è il suo chiodo fisso, quasi tradendo una sorta di complesso di inferiorità.

Nessuna autorevolezza però si è vista contro la pur risicata lobby dei balneari. Lì il pugno di ferro della premier si è trasformato in una pavida carezza, preoccupata di non irritare l’Unione europea. Così alla fine l’autorevole Meloni ha deciso di non decidere fino alle prossime elezioni. Nessuna autorevolezza si è vista in occasioni delle elezioni Ue, quelle che avrebbero dovuto rivoluzionare l’Unione europea, secondo la propaganda di Fratelli d’Italia. Il voto di astensione di Meloni alla presidenza von der Leyen è il marchio doc di chi avrebbe voluto essere maestra di equilibrio e invece si è sciolta nell’evanescenza politica.

Poca autorevolezza si è vista nell’atteggiamento della premier verso i suoi ministri, da Sangiuliano, del quale ha respinto le dimissioni (le prime) per poi trovarsi costretta ad accogliere le seconde (quelle di ieri), e Santnachè, scaduti in comportamenti fuori luogo soprattutto per un governo di autorevoli. Meloni è autorevole per Orbán.

Autorevole e cristiana, qualsiasi cosa significhi l’esser cristiani per un governo che predica bene e razzola male persino sulla tanto sbandierata famiglia tradizionale. E che si volta dall’altra parte di fronte alla morte a Gaza e nel Mediterraneo. Sorella italiana d’Orbán.

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La “corruzione a norma di legge”

Ecco la nuova frontiera della corruzione italiana magistralmente delineata dal professor Alberto Vannucci in un suo recente articolo per LaVoce.info. L’evoluzione è notevole: dalla volgare tangente in contanti siamo giunti all’elegante “corruzione a norma di legge”.

I casi di Liguria e Venezia ci offrono un prezioso spaccato di questa raffinata pratica. I nostri politici d’affari, creature ibride tra l’imprenditoria e la politica, hanno finalmente compreso che la legge non va infranta, ma semplicemente interpretata con creatività. Perché violare apertamente le norme quando si possono piegare con tanta grazia

Le decisioni, ci assicurano, vengono prese “nel rispetto della legge”. Un sollievo per tutti noi cittadini, indubbiamente. I favori si concedono con discrezione, attraverso un intricato sistema di finanziamenti, consulenze e cortesie reciproche. Un vero capolavoro di ingegneria sociale.

È particolarmente edificante notare come i ruoli si siano invertiti: non sono più i partiti a dettare le regole del gioco, ma gli imprenditori stessi. I “mini-partiti personali” sono diventati strumenti flessibili, perfettamente adattabili alle esigenze del mercato politico-affaristico.

Le contropartite? Nulla di così volgare come una mazzetta. Si parla di contributi alle campagne elettorali, finanziamenti a nobili iniziative politiche. Tutto perfettamente tracciabile, fiscalmente ineccepibile.

Certo, potremmo soffermarci su dettagli insignificanti come terreni inquinati bonificati a metà o spiagge pubbliche miracolosamente privatizzate. Ma sarebbe di cattivo gusto, quando tutto avviene nel pieno rispetto delle procedure amministrative.

Il professor Vannucci ci mette in guardia: questa nuova forma di corruzione è più sottile, più difficile da individuare e da contrastare. Finalmente la corruzione si è fatta civile, quasi impercettibile.

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Assegno unico e gli immigrati fantasma: l’ultima favola di Meloni

Ogni giorno un numero di illusionismo politico. Anche questa volta la protagonista è Giorgia Meloni e il tema è l’assegno unico familiare. Un tema delicato, che tocca le corde sensibili di milioni di famiglie italiane e che meriterebbe un’analisi attenta, al di là delle dichiarazioni roboanti.

La presidente del Consiglio, in un video sui social network, ha recentemente dichiarato che il suo governo sta “dando battaglia in Europa” per difendere l’assegno unico. Secondo Meloni la Commissione europea vorrebbe che questa misura fosse estesa “a tutti gli immigrati che esistono in Italia”, il che equivarrebbe a “uccidere l’assegno unico”. Parole forti, che dipingono uno scenario apocalittico per una delle misure di sostegno alle famiglie più importanti degli ultimi anni. La realtà, come spesso accade, è ben diversa da quanto affermato dalla premier. Pagella Politica ha analizzato attentamente la questione e no, le cose non stanno per niente così. 

La realtà dietro le dichiarazioni: cosa chiede davvero l’Ue

L’assegno unico e universale, introdotto dal governo Draghi nel 2021, è una misura di sostegno economico per tutte le famiglie con figli a carico, indipendentemente dalla condizione lavorativa dei genitori. Un provvedimento che, ironia della sorte, aveva visto il voto favorevole di Fratelli d’Italia, allora all’opposizione.

La Commissione europea ha effettivamente mosso delle critiche all’attuale struttura dell’assegno unico. Tuttavia non si tratta di un attacco indiscriminato o di una richiesta di estensione a “tutti gli immigrati”, come vorrebbe far credere Meloni. Il nodo della questione riguarda la conformità della misura al diritto europeo, in particolare al principio di non discriminazione tra lavoratori dei diversi Stati membri dell’Ue.

Secondo la Commissione il requisito dei due anni di residenza in Italia per accedere all’assegno unico rappresenterebbe una discriminazione nei confronti delle famiglie di cittadini Ue trasferitesi da poco nel nostro Paese per motivi di lavoro. Una critica che si basa su principi fondamentali del diritto europeo, come la libera circolazione dei lavoratori e la parità di trattamento.

Discriminazione o adeguamento? Il vero nodo della questione

È fondamentale sottolineare che queste richieste di modifica riguardano principalmente i cittadini comunitari, non “tutti gli immigrati” come affermato da Meloni. La fonte della Corte di giustizia dell’Ue citata da Pagella Politica chiarisce che i regolamenti in questione si riferiscono specificamente ai “diritti dei lavoratori europei, dei rifugiati e delle loro famiglie”, senza includere esplicitamente i lavoratori immigrati da Paesi non Ue.

Certo, esistono accordi tra l’Ue e alcuni Paesi terzi che potrebbero portare a un’estensione dei beneficiari anche al di fuori dei confini dell’Unione. Ma si tratta di casi specifici, non di un’apertura indiscriminata come paventato dalla premier.

La realtà, dunque, è ben più sfumata di quanto Meloni voglia far credere. Non si tratta di “uccidere l’assegno unico”, ma di adeguarlo ai principi di non discriminazione su cui si fonda l’Unione Europea. Un processo certamente complesso, che potrebbe richiedere una revisione dei criteri di accesso e un possibile aumento degli stanziamenti, ma non certo la fine della misura.

È comprensibile che il governo voglia difendere una politica di sostegno alle famiglie italiane. Ma è altrettanto importante che questa difesa si basi su fatti concreti e non su distorsioni della realtà. Le famiglie italiane meritano chiarezza e onestà, non spauracchi agitati per fini politici.

L’assegno unico non è in pericolo di morte. Ciò che rischia di morire, se non stiamo attenti, è la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella politica, minata da dichiarazioni che giocano con le paure invece di affrontare le sfide con onestà e pragmatismo.

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La crociata anti-cricket finisce sulla Bbc: sport vietato ai bangladesi di Monfalcone

A proposito di integrazione l’Italia si trova nuovamente sotto i riflettori internazionali per una questione che sa di medioevo. La Bbc, con un articolo dal titolo eloquente sulla “città italiana che ha bandito il cricket”, ha puntato i suoi fari su Monfalcone, piccola cittadina del Friuli-Venezia Giulia che si è guadagnata una fama poco invidiabile.

Ma andiamo con ordine. Monfalcone, nota per il suo cantiere navale Fincantieri, ha visto negli anni un afflusso costante di lavoratori bangladesi, tanto che oggi quasi un terzo della popolazione è di origine straniera. E fin qui nulla di strano per una cittadina industriale in un’Italia che invecchia e ha disperato bisogno di manodopera. Il problema nasce quando questi nuovi cittadini decidono di praticare il loro sport nazionale: il cricket.

La sindaca Anna Maria Cisint, esponente della Lega di Matteo Salvini, ha deciso che il cricket non s’ha da giocare. Con una mossa che sa più di crociata che di amministrazione pubblica, ha di fatto bandito questo sport dalla città. Le motivazioni? Ufficialmente mancanza di spazi e pericoli legati alle palle da cricket. Ma leggendo tra le righe dell’articolo della Bbc, emerge una realtà ben più inquietante.

Miah Bappy, capitano di una squadra locale, rivela alla giornalista Sofia Bettiza che il vero motivo del divieto è la loro condizione di stranieri. Aggiunge che se osassero giocare all’interno di Monfalcone, la polizia interverrebbe immediatamente per fermarli. Una situazione che sa di apartheid sportivo, con multe fino a 100 euro per chi osa impugnare una mazza da cricket all’interno dei confini comunali.

La crociata anti-cricket: quando lo sport diventa un pretesto

Ma la storia non finisce qui. Mentre la comunità bangladese si vede costretta a giocare in un parcheggio fuori città, la sindaca Cisint si prepara a portare la sua crociata anti-cricket (e non solo) in Europa. Sì, perché la paladina della “difesa dei valori cristiani” è stata eletta al Parlamento europeo, entrando orgogliosamente nel gruppo dei Patrioti europei. U

n’ascesa politica costruita sulla retorica anti-immigrazione e sulla lotta a quello che lei chiama “un forte processo di fondamentalismo islamico” nella sua città. La situazione ha raggiunto livelli tali che la stessa Cisint è ora sotto protezione 24 ore su 24 a causa di minacce di morte ricevute per le sue posizioni sui musulmani.

Oltre Monfalcone: un raggio di speranza nel vicino San Canzian d’Isonzo

Ma non tutto è perduto. Mentre Monfalcone chiude le porte al cricket, il vicino comune di San Canzian d’Isonzo le apre. Come riportato da un articolo sul giornale locale Il Goriziano, il campo sportivo di Begliano è stato messo a disposizione di venti squadre bengalesi per tutte le domeniche fino a fine luglio. Un’iniziativa salutata come “storica” dal segretario dell’asd Monfalcone Tigers, Ahmed Masum, e sostenuta da consiglieri regionali e rappresentanti locali.

Il sindaco di San Canzian, Claudio Fratta, ha dichiarato: “Abbiamo inteso dare spazio allo sport per offrire un’opportunità a tutto il territorio e garantire a ognuno un momento di svago e divertimento”. Parole che suonano come una lezione di civiltà e integrazione per la vicina Monfalcone.

La storia di Monfalcone e del suo divieto di cricket è emblematica di un’Italia che fatica ancora a fare i conti con la sua nuova realtà multiculturale. Da un lato abbiamo amministratori che vedono nell’integrazione una minaccia, dall’altro comunità che chiedono solo di poter vivere e lavorare in pace, praticando i loro sport e le loro tradizioni.

Il fatto che la Bbc abbia dedicato un intero articolo a questa vicenda è indicativo di quanto l’Italia sia ancora percepita all’estero come un paese arroccato su posizioni retrograde in tema di immigrazione e integrazione.

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Tradite le promesse agli studenti: un anno dopo resta l’emergenza abitativa

Ricordate gli studenti nelle tende, l’agitazione all’interno del governo con la ministra all’Università Anna Maria Bernini che definiva “giuste” le proteste e prometteva interventi? Era maggio del 2023 e a settembre 2024 non è cambiato nulla. 

Il trend dell’aumento degli affitti per gli studenti, una vera e propria emergenza abitativa, sta rapidamente erodendo le fondamenta del diritto allo studio, trasformando l’istruzione universitaria in un privilegio riservato a pochi anziché in un’opportunità accessibile a tutti.

Il caro affitti in cifre: una panoramica nazionale

Secondo i dati recentemente pubblicati dall’osservatorio del portale Immobiliare.it, il panorama delle locazioni studentesche in Italia sta subendo una metamorfosi drammatica. Le cifre parlano chiaro: Milano, Bologna e Roma, tradizionalmente considerate le mete universitarie per eccellenza, hanno registrato aumenti rispettivamente del 4%, 5% e 9% rispetto all’anno precedente. Gli incrementi si traducono in canoni mensili che raggiungono i 637 euro per una stanza singola a Milano, 506 euro a Bologna e 503 euro a Roma. 

Tuttavia sarebbe un errore considerare questo fenomeno come circoscritto alle sole metropoli del centro-nord. L’ondata di rincari sta investendo l’intero territorio nazionale, colpendo anche le città del Meridione, tradizionalmente considerate più accessibili. Palermo ha visto un aumento dell’8%, con affitti che si attestano sui 282 euro mensili, mentre Bari ha registrato un incremento ancora più marcato dell’11%, arrivando a 357 euro. Persino Catania, nonostante rimanga tra le opzioni più economiche, ha subito un aumento del 3%.

L’incremento medio nazionale del 7% sui canoni di locazione, sia per stanze singole che doppie, si inserisce in un contesto di domanda in forte crescita, con un aumento del 27% nel 2024 rispetto all’anno precedente. Lo squilibrio tra domanda e offerta sta portando a una distorsione del mercato, con conseguenze particolarmente gravose per gli studenti fuorisede.

Come sottolineato da Daniela Barbaresi, segretaria confederale della Cgil, il problema investe circa 900.000 studenti fuorisede e le loro famiglie, costretti a confrontarsi con un’offerta concentrata principalmente nel settore privato. La scarsità di alloggi pubblici e di student housing, nettamente inferiore rispetto ad altri Paesi europei, acuisce ulteriormente il problema.

La gravità della situazione emerge con chiarezza se si considera che, a fronte di quasi 900mila studenti fuorisede (pari al 48% degli iscritti), i posti letto disponibili per il diritto allo studio sono appena 43.864, coprendo solo il 5% del fabbisogno. Questa carenza cronica di alloggi pubblici costringe la stragrande maggioranza degli studenti a ricorrere al mercato privato, esponendoli a costi sempre più insostenibili.

Proposte e richieste: alla ricerca di soluzioni concrete

Di fronte a questo scenario, emerge l’urgente necessità di un intervento strutturale e coordinato. Le proposte avanzate dal Sunia, in collaborazione con Cgil e Udu, puntano in primis all’aumento degli studentati pubblici: l’obiettivo è di aggiungere 60.000 nuovi posti letto ai 50.000 attuali, sfruttando i fondi del Pnrr. Parallelamente, si propone un ampliamento dell’offerta di alloggi a canoni concordati, legati alla disciplina della legge 431 del 1998, con incentivi fiscali mirati a favorire questa tipologia contrattuale.

Le richieste un anno dopo sono sempre le stesse: indirizzare in modo più efficace i fondi del PNRR verso il diritto allo studio. Si rende necessaria una programmazione di finanziamenti su scala pluriennale, accompagnata da un controllo più stringente sulle iniziative private, al fine di garantire una maggiore equità sociale nell’accesso all’abitazione studentesca. Le tende non sono mai state levate. 

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Macron e il ritornello del “meno peggio”

Emanuel Macron, qui da noi ritenuto da alcuni un luminare della politica, ha dimostrato in un sol colpo la naturale propensione di certi liberali, anche nostrani: fingere di voler sconfiggere la destra per mangiarsi voti a sinistra e infine governare con la destra con i voti incauti di chi ha creduto di concorrere all’altra parte della barricata.

Il fronte popolare che il presidente francese aveva evocato per arginare Marine Le Pen e il suo Rassemblemente National ha partorito Michel Barnier, esponente politico di destra di lungo corso, ex ministro degli Esteri ed ex Alto commissario europeo. 

Il più anziano primo ministro nella storia della quinta repubblica francese (Barnier ha 73 anni) prende il timone in nome di “un governo di unificazione al servizio del Paese e dei francesi”, perifrasi che rimanda quasi sempre ad alchimie politiciste. 

Il Nuovo fronte popolare, la coalizione di sinistra che aveva ottenuto il maggior numero di seggi alle ultime elezioni (pur restando molto lontana dalla maggioranza assoluta), rimane fuori dai giochi e promette battaglia. I macroniani di Renaissance (forti del loro misero risultato) accusano i socialisti di avere aperto la strada alla destra non appoggiando Bernard Cazeneuve. I liberali che accusano il centrosinistra di avere aperto la strada alla destra abbracciata dal loro leader è un antipatico vizio anche al di là delle Alpi. 

Chissà che ne pensano i commentatori italiani che si sono sbellicati applaudendo il “capolavoro politico” del presidente francese che – a detta loro – avrebbe dovuto disinnescare Le Pen. Ora diranno che la soluzione è la “meno peggio”. E il meno peggio è il viatico migliore per il peggio, sempre. 

Buon venerdì. 

In foto il manifesto lanciato dalla France Insoumise che invoca le dimissioni di Macron

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Caso Sangiuliano-Boccia distrazione di massa

Mentre i telegiornali e i giornali nazionali hanno aperto con la notizia della scappatella di un ministro che aveva promesso un incarico di prestigio per fare il provolone con una donna al largo di Lampedusa – mica in Libia – ventuno persone sono morte su una barca capovolta. Sette si sono salvati rimanendo per tre giorni aggrappati alla zattera, in mezzo a un pezzo di mare lasciato sguarnito. Quando li hanno recuperati i sopravvissuti avevano negli occhi l’orrore di chi non aveva più speranza. Colpa loro, dei morti e degli scampati, che non hanno ancora capito che prima di naufragare bisogna diventare milionari per ottenere soccorsi.
Mentre ci si occupa dei calori estivi di un ministro il cambiamento climatico sta sfondando le strade delle città, preannunciando un autunno che smutanderà i negazionisti di casa nostra, quelli che misurano la crisi annusando la temperatura sul loro balconcino che si affaccia sulla piazza.
Mentre ci si occupa di un ministro che frigna i balneari hanno ottenuto l’ennesimo rinvio che costerà nuove multe al nostro Paese, quindi a noi. Nel frattempo a suon di spari abbiamo saputo che un rampollo di ‘Ndrangheta al nord (dove la mafia non esiste) puntava agli affari della curva della squadra di calcio campione d’Italia.
Nel frattempo i benzinai dicono che il governo ha licenziato la peggiore riforma sulla distribuzione di carburanti. Un regalo ai petrolieri, dicono. Accade anche che le disuguaglianze geografiche nella scuola pubblica siano già gravi prima dell’autonomia differenziata, mentre gli affitti per studenti schizzano alle stelle.
La distrazione è riuscita. Bravi tutti.

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Sì, c’entra il cambiamento climatico con la siccità in Sicilia e Sardegna

Il cambiamento climatico sta giocando un ruolo chiave nell’intensificare la siccità che ha colpito duramente la Sicilia e la Sardegna negli ultimi mesi. Questa è la conclusione di un recente studio pubblicato il 4 settembre 2024 da World Weather Attribution, un’organizzazione internazionale specializzata nell’analisi dell’influenza del cambiamento climatico sugli eventi meteorologici estremi.

Lo studio, intitolato “Climate change key driver of extreme drought in water scarce Sicily and Sardinia”, è il risultato di una collaborazione internazionale che ha visto coinvolti scienziati provenienti da Italia, Paesi Bassi, Svezia, Regno Unito, Commissione Europea e Stati Uniti. Tra le istituzioni partecipanti figurano l’Imperial College di Londra, l’Istituto Meteorologico Reale dei Paesi Bassi (KNMI) e il Centro Climatico della Croce Rossa e Mezzaluna Rossa.

Secondo la ricerca, che si estende per 37 pagine di analisi approfondita, sia la Sicilia che la Sardegna hanno sperimentato negli ultimi 12 mesi condizioni di siccità estrema, caratterizzate da precipitazioni eccezionalmente scarse e temperature molto elevate. La situazione ha raggiunto il suo apice a partire da maggio 2024, con conseguenze devastanti per l’agricoltura, il turismo e l’approvvigionamento idrico delle due isole.

Il 2024 si è rivelato un anno particolarmente critico per il Sud Italia con un autunno caratterizzato da piogge molto inferiori alla media seguito da mesi caldi e secchi. Le prime allerte per la siccità sono state emesse già a dicembre in Sicilia, seguite a maggio da quelle in Sardegna. La gravità della situazione ha portato la Sicilia a dichiarare lo stato di emergenza a maggio 2024. Nonostante il razionamento dell’acqua sia in atto da febbraio, i bacini idrici di entrambe le isole sono ormai quasi prosciugati all’avvicinarsi della fine dell’estate.

L’impatto devastante: un’analisi scientifica della siccità

Per valutare la gravità della siccità, i ricercatori hanno utilizzato l’Indice Standardizzato di Precipitazione ed Evapotraspirazione (SPEI), uno strumento che tiene conto non solo delle precipitazioni ma anche dell’evapotraspirazione potenziale, offrendo così una misura più completa della disponibilità idrica. I risultati sono allarmanti: in Sardegna, l’attuale siccità ha una probabilità di verificarsi ogni 10 anni circa nel clima attuale, già riscaldato di 1,3°C principalmente a causa delle emissioni di gas serra. In Sicilia, la situazione è ancora più grave, con una siccità di questa portata che si verifica in media ogni 100 anni.

Il dato più preoccupante emerge dal confronto con scenari climatici privi dell’influenza umana: il cambiamento climatico indotto dall’uomo ha aumentato del 50% la probabilità di siccità così severe per entrambe le isole. In Sardegna, quella che oggi è classificata come siccità “estrema” sarebbe stata considerata solo “grave” in assenza del cambiamento climatico. In Sicilia, la situazione è ancora più drammatica: con un ulteriore riscaldamento di 0,7°C, l’attuale siccità “estrema” diventerebbe “eccezionale”, la categoria più grave nella scala di classificazione.

Gli scienziati sottolineano che, mentre i cambiamenti nelle precipitazioni sono stati relativamente contenuti, i valori osservati per l’evapotraspirazione potenziale e la temperatura sarebbero stati praticamente impossibili senza l’influenza del cambiamento climatico. Questo indica chiaramente che l’aumento della gravità della siccità è principalmente dovuto all’innalzamento delle temperature estreme causato dal riscaldamento globale.

Prospettive future: un’emergenza che richiede azione immediata

Le proiezioni future sono tutt’altro che rassicuranti. Senza una drastica riduzione delle emissioni di gas serra, eventi di siccità di questa portata diventeranno sempre più frequenti. In uno scenario in cui la temperatura globale aumentasse di 2°C rispetto all’era preindustriale – una possibilità concreta già nel 2050 senza significative azioni di mitigazione – siccità come quelle osservate in Sicilia e Sardegna potrebbero diventare la norma piuttosto che l’eccezione.

Gli autori dello studio sottolineano l’urgente necessità di implementare strategie efficaci di gestione del rischio di siccità, con un focus particolare sulla preparazione a lungo termine e sull’adattamento. Ciò include investimenti in infrastrutture resilienti, strategie di conservazione dell’acqua e una gestione più sostenibile delle risorse idriche.

Le conseguenze economiche di questa siccità sono già catastrofiche, soprattutto in Sicilia, dove l’agricoltura e il turismo, pilastri dell’economia locale, dipendono fortemente dalla disponibilità di acqua. In Sardegna, sebbene l’agricoltura abbia un peso economico minore, la sua rilevanza culturale pone sfide significative nella gestione e prioritizzazione delle risorse idriche limitate.

L’adattamento e la mitigazione non sono più opzioni, ma imperativi non solo per la sostenibilità ambientale ma anche per la stabilità economica e sociale di queste regioni. È tempo che dalle parti del governo ci si preoccupi meno di nascondere il cambiamento climatico. Forse sarebbe il momento di affrontarlo. 

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Il Pnrr non colma il gap scolastico: i soldi a pioggia non sanano le diseguaglianze

Nonostante gli sforzi e gli investimenti previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), il sistema scolastico italiano continua a essere caratterizzato da profonde disuguaglianze che compromettono il futuro di migliaia di studenti, soprattutto nelle regioni del Sud e delle Isole. Questo è quanto emerge dal recente rapporto di Save the Children, “Scuole disuguali. Gli interventi del Pnrr su mense, tempo pieno e palestre”, che offre un’analisi dettagliata della situazione attuale e dell’impatto degli interventi finanziati dal Pnrr.

Il divario Nord-Sud: una realtà persistente nelle mense scolastiche

Il quadro che emerge è preoccupante: solo due bambini su cinque hanno accesso al tempo pieno, con disparità territoriali marcate. Se nelle regioni del Centro e del Nord si registrano percentuali di accesso al servizio mensa superiori al 50% nelle scuole primarie e secondarie di I grado, con punte del 70% e oltre a Biella e Monza e della Brianza, e addirittura del 91,3% nella Provincia Autonoma di Trento, la situazione nel Mezzogiorno è drammaticamente diversa. Gran parte delle province del Sud si trovano sotto la media nazionale del 36,9%.

Il PNRR ha stanziato oltre 17 miliardi di euro per il Ministero dell’Istruzione e del Merito, rappresentando un’opportunità senza precedenti per colmare questi divari. Tuttavia, l’analisi di Save the Children sui 975 interventi già avviati per ampliare l’offerta di mense scolastiche rivela una distribuzione disomogenea delle risorse. Alle regioni del Sud e delle Isole è stato destinato il 38,1% delle risorse, finanziando circa il 50% del totale dei progetti. Ma questo non sembra sufficiente a colmare il gap esistente.

Pnrr: un’opportunità mancata per colmare le disuguaglianze?

Le sei province dove meno del 10% degli studenti usufruiscono della mensa – Agrigento, Foggia, Catania, Palermo, Siracusa e Ragusa – hanno ricevuto finanziamenti per 49 interventi, per un valore di circa 21,5 milioni di euro. Questo si traduce in 2,1 progetti ogni 10.000 studenti delle scuole primarie e secondarie di primo grado. Di contro, le sei province con le più alte percentuali di alunni che usufruiscono del servizio mensa (oltre il 65%) hanno ricevuto 30 milioni di euro per 34 progetti, pari a 1,8 progetti ogni 10mila studenti.

La situazione è particolarmente critica se si considera che nelle province più svantaggiate si concentra anche la percentuale più alta di studenti provenienti da famiglie con un livello socioeconomico basso: il 26,4% contro il 17,2% delle province con maggior accesso al servizio mensa.

Il tempo pieno, strumento fondamentale per contrastare la dispersione scolastica e la povertà educativa, resta un miraggio per molti. Solo due alunni della scuola primaria su cinque ne beneficiano, con le percentuali più basse in Molise (9,4%), Sicilia (11,1%) e Puglia (18,4%), e le più alte nel Lazio (58,4%), in Toscana (55,5%) e in Lombardia (55,1%).

Anche l’accesso alle infrastrutture sportive presenta forti disparità. Meno della metà (46,4%) delle scuole statali primarie e secondarie hanno una palestra. Gli interventi del PNRR in questo ambito sembrano favorire maggiormente le province più svantaggiate, con il 62,8% dei progetti avviati nelle regioni del Sud e Isole. Tuttavia, la distribuzione delle risorse resta disomogenea: ad esempio, Crotone riceve 7,8 progetti ogni 100 scuole, mentre Palermo solo 1,1.

Nonostante gli sforzi e gli investimenti del Pnrr, le disuguaglianze nel sistema scolastico italiano persistono, minacciando di perpetuare un ciclo di svantaggio per intere generazioni di studenti. L’autonomia differenziata voluta dal governo farà il resto. Così anche la scuola diventerà un diritto direttamente proporzionale alla zona geografica in cui qualcuno avrà la fortuna di nascere e vivere. 

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Il feeling tra Meloni e Musk che mette a rischio la Sovranità tecnologica

ll 23 settembre a New York si consumerà l’ennesimo atto della commedia dell’assurdo. Elon Musk, il miliardario noto per la sua imprevedibilità e le sue posizioni estreme, consegnerà il Global Citizen Award dell’Atlantic Council alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Un’accoppiata che solleva più di un sopracciglio nel panorama politico internazionale.

Come riporta Bloomberg il premio, in passato assegnato a figure come quelle di Volodymyr Zelensky e Janet Yellen, viene ora consegnato da un uomo che ha trasformato Twitter in un far west digitale a una premier nota per le sue posizioni controverse. La scelta di Musk come premiante è un chiaro segnale della direzione che sta prendendo la politica internazionale.

Il premio controverso: quando l’imprevedibilità premia l’ambizione

Ma il vero nodo della questione, come rivela StartMag, si nasconde dietro le quinte. A margine dell’evento, Musk e Meloni hanno in programma un incontro a porte chiuse per discutere di investimenti nei settori spaziale e dell’intelligenza artificiale in Italia. Un’intesa che fa suonare più di un campanello d’allarme.

Il governo Meloni, nel suo disperato tentativo di accreditarsi sulla scena internazionale, sembra aver scelto ancora una volta gli alleati sbagliati. L’accordo tra Telespazio e SpaceX per la commercializzazione dei servizi Starlink in Italia, siglato lo scorso giugno, è solo l’ultimo esempio di questa strategia miope. Come sottolinea StartMag, l’intesa ha ricevuto l’immediato plauso della presidente del Consiglio, apparentemente dimentica dei rischi che comporta legarsi a doppio filo con un imprenditore noto per la sua poca affidabilità.

Dietro queste manovre si muovono figure come Paolo Messa, ex presidente di Leonardo US e attuale fellow dell’Atlantic Council, e Andrea Stroppa, l’autoproclamato “ambasciatore di Musk in Italia”. Una rete di interessi che appare sempre più opaca e potenzialmente dannosa per gli interessi nazionali.

Alleanze pericolose: il prezzo nascosto degli investimenti spaziali

La verità è che Meloni, nel suo desiderio di brillare sulla scena internazionale, sta giocando con il fuoco. Musk non è solo un imprenditore di successo ma un personaggio controverso con un’agenda politica sempre più esplicita. Affidare il futuro delle nostre telecomunicazioni e della nostra presenza nello spazio a un uomo noto per la sua instabilità è un rischio che l’Italia non può permettersi di correre.

Mentre Musk e Meloni si scambiano sorrisi e premi, il paese rischia di diventare terreno di conquista per interessi privati: un’alleanza pericolosa potrebbe costarci cara in termini di sovranità tecnologica e indipendenza decisionale.

Il governo Meloni, attratta dal luccichio degli investimenti promessi e dal glamour mediatico di Musk, sembra ignorare le possibili conseguenze a lungo termine delle sue scelte. In questa partita ad alto rischio la posta in gioco non è solo un premio o un investiment, ma il futuro stesso del paese.

Meloni-Musk: le affinità ideologiche

Durante un evento di Fratelli d’Italia lo scorso dicembre, Musk ha discusso della crisi demografica italiana, esortando la platea con un “Fate figli” che riecheggia le posizioni care al partito della Meloni. Un’affinità ideologica che va ben oltre gli interessi economici.

Ma le criticità non finiscono qui. StartMag riporta che ad aprile Starlink ha denunciato ostacoli da parte di Telecom Italia nell’introduzione di internet veloce nel nostro paese. Una contesa che è finita sul tavolo del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, sollevando interrogativi sulla capacità del governo di mediare tra interessi nazionali e pressioni di multinazionali straniere.

Bloomberg sottolinea come l’Italia abbia approvato a giugno un nuovo quadro normativo che concede alle aziende spaziali straniere il permesso di operare nel paese. Una mossa che si prevede genererà 7,3 miliardi di euro di investimenti nel settore spaziale entro il 2026. Ma a quale costo per la nostra autonomia strategica

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