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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Mantova brucia /2

Dopo la prima puntata, Mantova continua a bruciare. Basta mettere in fila tre articoli. Non c’è nemmeno bisogno di un commento. (Grazie a Maria Regina)

2 0ttobre 2011 – MANTOVA.

Un rogo con la firma della mafia 

Incendio nell’azienda Villagrossi di Rivalta. A fuoco otto betoniere. A incendiarle due individui con una tanica di benzina. Sale l’allarme per le infiltrazioni. Domani la riunione del comitato per la sicurezza

Il rogo alla Villagrossi di Rivalta (Rodigo) è stato uno shock. Metodi tipici dei clan sono ormai all’ordine del giorno e le istituzioni, restie ad ammettere infiltrazioni nel Mantovano della malavita organizzata, devono prendere atto che il livello delle intimidazioni ha raggiunto la soglia d’allarme. A Mantova arriverà l’antimafia. Vuole vederci chiaro nell’incendio che sabato ha distrutto otto betoniere dell’azienda Villagrossi.

Un rogo doloso, come aveva detto da subito il titolare dell’impresa. Un incendio che porta la firma della criminalità organizzata. Le fiamme, secondo le prime ricostruzioni, sarebbero state provocate da due uomini, ripresi dalle telecamere, che hanno agito con precisione quasi chirurgica. Hanno versato la benzina in maniera tale da incendiare le otto betoniere (costo 350-400.000 euro l’una) che servivano per trasportare il calcestruzzo nei cantieri di cui la Villagrossi è fornitrice. L’ultima fornitura di rilievo dell’impresa di Rivalta sul Mincio è per piazzale Mondadori a Mantova, per il cantiere gestito dalle imprese di Antonio Muto e della cooperativa La Leale.

Il prefetto ha convocato per martedì il comitato provinciale per la sicurezza e l’ordine pubblico. Ma l’allarme è salito all’improvviso. Se il prefetto Ruffo annuncia il coinvolgimento degli uomini dell’antimafia, gli industriali cominciano a mostrare segni di preoccupazione. “Facciamo quadrato contro la criminalità – dice il presidente di Assindustria, Alberto Truzzi – è un episodio che non mi sarei mai aspettato, cado dalle nuvole”.

Ma i segnali premonitori non erano mancati, come ha messo in luce nel luglio scorso l’inchiesta della Gazzetta di Mantova sulla recrudescenza di attentati incendiari. “E’ vero – risponde Truzzi – ma finora sono sempre stati episodi isolati. Rimane in me la convinzione che  questa criminalità sia estranea al tessuto sociale e produttivo del nostro territorio”.

E l’azienda di Rivalta come commenta? “Non abbiamo mai subito intimidazioni e minacce – spiega Teresa Villagrossi, figlia di Aldo, uno dei fondatori dell’impresa – per questo l’attentato alla nostra azienda ci sconvolge e ci preoccupa. Voglio comunque tranquillizzare tutti: la nostra azienda rispetterà il calendario delle consegne e i nostri dipendenti non perderanno una sola giornata di lavoro”. Il contratto della Villagrossi con il cantiere di Piazzale Mondadori, a trattativa privata, ammonta a due milioni di euro per la durata di due anni. I danni subiti dall’impresa sono rilevanti: altre alle otto betoniere distrutte, sono stati danneggiati altri sei automezzi e una parte del capannone. Gli attentatori erano molto informati. Hanno approfittato dell’assenza del custode e hanno sapiuto evitare gran parte delle telecamere. Come dire, sapevano parecchio di quell’impresa.

Dati inequivocabili: secondo le notizie di reato che il comando dei vigili del fuoco ha mandato in Procura nel primo semestre del 2011 su 27 incendi di autoveicoli e mezzi pesanti, ben 12 sono stati dolosi. A questo numero vanno aggiunti il rogo dell’Audi di Gaetano Muto a Buscoldo e l’incendio a Rodigo. Difficile credere ancora alla favola delle auto, nuove di pacca, che bruciano per “autocombustione”, per colpa del caldo, del freddo o del caso.

La cronaca dell’incendio di Igor Cipollina

RODIGO. Le otto betoniere fumano ancora, quasi fossero di carta e cenere. A sciogliere subito il sospetto è uno dei titolari, mentre vigili del fuoco e carabinieri si affannano attorno alle lamiere annerite. «Doloso al massimo», ringhia affranto Alfredo Villagrossi, titolare insieme al fratello Aldo dell’omonima azienda in strada Settefrati, Rivalta sul Mincio. Cave, calcestruzzi, lavori stradali. Tre impianti produttivi, trenta automezzi, una cinquantina di dipendenti. Un’azienda larga sulla quale si allunga l’ombra di un incendio appiccato in segno di sfida, sfregio, avvertimento. Ieri sera, intorno alle 20, nonostante gli occhi di dieci telecamere, approfittando dell’assenza del custode. La firma sarebbe nella lingua di fuoco che Alfredo racconta di aver visto correre davanti alle cabine delle sette betoniere parcheggiate l’una di fianco all’altra. L’ottava era posteggiata più in là, impossibile che sia bruciata per contatto con le altre.

Alfredo, 80 anni, è stato il primo ad arrivare, insospettito dal fumo. Passava di lì, sulla provinciale che allaccia Rivalta a Goito. È inciampato nell’incendio quasi per caso, ed è ancora frastornato dall’inferno di gomme, serbatoi, lamiere. Dalla violenza delle fiamme che hanno aggredito la sua azienda. Perché? La domanda sembra tormentare anche Aldo, suo fratello gemello, che vaga a piedi nudi, le ciabatte in mano. Vero, grazie ai suoi numeri, gli impianti, i mezzi, i dipendenti, nel corso degli anni la Villagrossi ha partecipato alle opere più importanti, dall’ospedale Poma alla Spolverina. Ma sempre attraverso forniture, mai con appalti pubblici.

Attualmente è impegnata nel cantiere di piazzale Mondadori, a Mantova (gestito dalle imprese Muto e cooperativa La Leale). Orgoglio, rabbia, incredulità s’impastano nelle parole di Teresa, figlia di Aldo, che cerca di alleviare lo sconforto del padre e dello zio. È lei a rispondere alle domande, gentile e garbata nonostante l’azienda in fumo e la puzza acre di gomma bruciata. Il danno? Nessuno azzarda una cifra, non ancora.

Si può solo osare un calcolo approssimativo, considerando che una betompompa nuova costa 400mila euro. Il danno potrebbe ammontare a due milioni di euro, senza contare che adesso l’attività dell’azienda frenerà bruscamente. E poteva anche andare peggio se Gianpaolo Ballarini, dipendente da dodici anni, non avesse strappato alle fiamme altre tre, forse quattro betoniere. Arrampicandosi sula cabina per metterle al riparo, lontano dalla lingua di fuoco.

4 0ttobre 2011 – – MANTOVA.

Le cosche del mattone.  Investimenti edilizi con i soldi della droga

di Rossella Canadè

MANTOVA Il diavolo come vicino di casa. Nicolino Grande Aracri è tornato a Brescello. Sarebbe proprio il ritorno alla libertà – per un ricalcolo della pena – di “Manuzza”, il boss riconosciuto della ’ndrangheta, con 37 ordinanze di custodia cautelare in carcere sul groppone, condannato a 17 anni per associazione mafiosa e tentato omicidio, una delle cause, se non la causa, dell’accelerazione delle incursioni di violenza di questi mesi. Nel Crotonese, innanzitutto, nel Reggiano, territorio scelto da tempo da molte ’ndrine, e di riflesso nel Mantovano. Secondo gli investigatori calabresi, Manuzza starebbe muovendo pedine per riacquistare la postazione che ritiene gli spetti di diritto: recuperare terreno, ristabilire gli equilibri. Ipotesi, per ora, che tengono gli inquirenti mantovani con gli occhi puntati su quello che accade dall’altra sponda del grande fiume. «La ’ndrangheta non consente una libera forma di concorrenza. Quello che sta accadendo vicino al Po segue il modello calabrese» a dirlo è Antonio Nicaso, uno dei massimi esperti di criminalità calabrese, giornalista e scrittore, autore di diversi libri a quattro mani con il magistrato antimafia Nicola Gratteri. Non è stupito, Nicaso, dell’episodio di Rodigo che ha invece lasciato sbigottiti cittadini, politici e forze dell’ordine. «È un fatto grave, eclatante: significa che la posta in gioco è alta. La tattica della ’ndrangheta in fondo è quella di punirne uno per educarne cento. Al Nord bisogna smetterla di pensare che ci siano anticorpi. Non è vero: la ’ndrangheta ha 44 miliardi di euro di fatturato, sono stime Eurispes. Può corrompere chi vuole con questi soldi: dai politici ai colletti bianchi delle banche, per avere informazioni sugli imprenditori in difficoltà. I mafiosi sono ignoranti, come Riina? Certo, ma hanno i soldi per assumere professionisti che hanno studiato e sono capaci di costruire relazioni». Denaro sporco da riciclare e investire: è questa, secondo Nicaso, la traccia da seguire. La cocaina ha portato alle ’ndrine bottini inimmaginabili, che ora devono essere investiti, «mai al Sud, ma sempre al Nord, dove ad una maggiore ricchezza corrisponde una minore percezione del rischio. Allora si aprono supermercati e si creano filiere edilizie: così si dà lavoro, si costruiscono rapporti con famiglie e persone che poi vanno a votare: si crea consenso sociale». La polvere grigia, spiega Nicaso, è la faccia della ’ndrangheta. L’edilizia, il movimento terra, il trasporto di inerti non richiedono grandi know-how: basta avere denaro fresco in tasca. «In questo modo le ’ndrine al Nord trovano facilmente anche la manovalanza. Con il consenso ottenuto con valigie di denaro riescono a gestire gli affari in un regime di monopolio». Quando qualcosa va storto, qualcosa di succulento, scatta la rappresaglia. «Credo che possa essere successo questo. Un appalto importante finito in mani non gradite alla ’ndrangheta, che reagisce in maniera inequivocabile. La ditta di calcestruzzi immagino che sia assolutamente estranea a queste logiche, ma probabilmente quella commessa doveva finire in altre mani». Secondo questa lettura, forse lo scopo di chi ha ordinato di appiccare il fuoco non era solo quello di spaventare i titolari di Villagrossi, un avvertimento, ma di mettere in ginocchio la ditta, una delle più attive e robuste nel settore. Neutralizzarla per mettere al suo posto, nell’affare di piazzale Mondadori, quella “giusta”.

5 0ttobre 2011 – – MANTOVA.

Villagrossi consegna la lista dei debitori Una pista per il rogo? 

L’azienda ricostruisce con i carabinieri anni di affari.  E spuntano i no a spartire le commesse con i concorrenti  – di Rossella Canadè

RODIGO (Rivalta)  «Ci chiamano da tutt’Italia, ogni minuto. Guardi, i nostri telefonini sono perennemente scarichi. Leggono i titoli sui giornali e ci chiedono in che guai ci siamo cacciati. Non per curiosità o diffidenza, ma per manifestarci solidarietà, appoggio aiuto. Tutti ci conoscono e sanno come lavoriamo. Quello che è successo è stato un fulmine a ciel sereno». È una donna garbata, Teresa Villagrossi, una che misura le parole ad una ad una per non farsi scappare accenti di polemica, di rabbia. Per non ferire nessuno, anche dopo che il rogo che ha distrutto le betoniere ha rischiato di mandare all’aria la ditta. «Non ce l’hanno fatta. La nostra attività continua, e continueremo a dare lavoro ai nostri dipendenti. È questa la cosa più importante». Pensa a loro, quando sente parole come mafia, ’ndrangheta, cosche del mattone, «ho paura che abbiano paura, ecco, questo. Ma la solidarietà che tutti ci stanno dimostrando ci fa andare avanti».  Cresciuta a fatica e conti da far quadrare, in mezzo a gente che si alza all’alba e va a letto al tramonto, i mafiosi se li immagina con coppola e mitraglietta a tracolla, gente con cui i Villagrossi non hanno mai avuto a che fare. Sabato ha toccato con mano che mafia significa anche ritorsione, ricatto, intimidazione, avvertimento. Vendetta di qualcuno che hai danneggiato, magari senza saperlo. Perché lavori più di lui, perché hai i prezzi più bassi, perché non scendi a patti. Qualcuno che non esita a fartela pagare, con i mezzi drastici della criminalità organizzata: colpirne uno per educarne cento. Questa mafia a Teresa Villagrossi sembra meno lontana. «In questi ultimi anni, con la crisi del nostro settore, ci siano trovati ad aver a che fare con gente che non pagava. Abbiamo dato queste grane in mano al nostro avvocato, che ha fatto dei decreti ingiuntivi per farci recuperare gli insoluti. Non escludo che qualcuno sia fallito o che si sia trovato in serie difficoltà. E abbia visto in noi il suo nemico, quello che lo aveva mandato a gambe all’aria». Registri, carte, fatture: in queste ore i Villagrossi stanno passando al setaccio la contabilità, le lettere di ingiunzioni di pagamento che poi verranno acquisite dai carabinieri. Con cifre e nomi in mano, la caccia ai piromani e ai loro mandanti potrebbe trovare un sentiero. «La fame di soldi può spingere le persone a compiere gesti sconsiderati. Uno si sente danneggiato e perde la testa. Posso immaginarlo. Ma non riesco a capire chi possa essere. È capitato anche che abbiamo smesso di vendere il calcestruzzo a qualcuno dopo che non ci aveva pagato alcune forniture. Questo crea danno, è indubbio, perché se una ditta non arriva allo stato di avanzamento lavori paga ingenti penali. Forse è uno di questi, ma io non sono in grado di saperlo. Forse abbiamo fatto uno sgarbo a qualcuno, e questo mi ha bruciato i camion. Non lo avremmo mai immaginato».  A Rivalta non sono mai arrivate minacce, né preavvisi di rappresaglie, «le uniche cose che mi sono venute in mente in queste ore convulse sono le conversazioni con alcuni concorrenti, o meglio colleghi che in alcune occasioni ci hanno chiesto con insistenza di spartire con loro i lavori più grossi. Perché ne abbiamo tanti, non solo piazzale Mondadori. Non abbiamo partecipato a gare, ma sono state tutte trattative private: le nostre offerte evidentemente erano le più convenienti». Alcuni impresari del settore si sono già offerti di dare una mano, con macchine in prestito o a noleggio, «con questi aiuti non avremo problemi».  I fotogrammi che ritraggono l’incursione dei due piromani all’interno della Villagrossi sono all’esame dei carabinieri di Mantova, che hanno già interessato i comandi interprovinciali della Dia e della Dda, ma i titolari dell’impresa hanno potuto visionarli, «sapevano come muoversi e, dato che sui nostri dipendenti mettiamo la mano sul fuoco, significa che ci hanno studiato».

L’antimafia che funziona: la difesa del suolo

Nella medesima sera di martedì 4 ottobre, mentre il Consiglio Comunale di Monza ha adottato la mega variante con i suoi 4 milioni di metri cubi edificabili (qui l’articolo di Vorrei), a Desio l’assessore Daniele Cassanmagnago ha avviato in commissione urbanistica l’iter procedurale di variante al piano vigente, delineando un indirizzo diametralmente opposto.

La variante cancella infatti il 60% della superficie che il piano in vigore, approvato dalla precedente amministrazione Pdl-Lega, destinava ad ulteriore urbanizzazione e restituisce all’agricoltura, al verde pubblico e alla non trasformazione più di 1 milione di metri quadri.

Non ci sono precedenti nella storia urbanistica di Desio: in regione Lombardia un qualcosa di simile era avvenuto nel 1993 a Monza, dove una bozza di piano affidata all’architetto Benevolo prevedeva la cancellazione di 3 milioni di metri cubi edificabili. Questo piano nasceva nel contesto movimentato di tangentopoli, anni in cui finirono sotto inchiesta giudiziaria anche alcuni amministratori monzesi, tra cui l’ex Sindaco Rossella Panzeri.

Come era avvenuto a Monza, anche Desio ha recentemente attraversato un mandato amministrativo movimentato e costellato di inchieste giudiziarie che hanno portato allo scioglimento del Consiglio Comunale. Nella cittadina brianzola si accesero i riflettori delle inchieste giornalistiche e televisive che portarono alla luce evidenti segnali di infiltrazioni mafiose. La città scoprì di avere il territorio decorticato e disseminato di discariche abusive e un Pgt, da poco approvato, con in previsione il 10% di consumo di suolo, un parametro raddoppiato rispetto all’indicazione del piano provinciale (PTCP).

La nuova amministrazione eletta in primavera si è assunta l’impegno di riportare Desio in standard più umani di vivibilità: “Il Piano urbanistico non può essere un patto esclusivo con gli imprenditori immobiliari da cui escludere la grande massa degli altri cittadini, la maggior parte dei quali vuole una città funzionante e vivibile e che mai chiederà un permesso di costruire” Dice Daniele Cassanmagnago. “E’ un’idea che rifiutiamo perché antiliberale, antisociale, in definitiva antiurbana, che pretende di privatizzare scelte che riguardano beni per loro natura “collettivi”.

Qui la presentazione di Daniele. Senza altri orpelli se non la buona politica.

Il congresso “porcellum”

A Varese, nella culla dei Bossi, nel congresso leghista è di scena il porcellum declinato alle sezioni di partito: un segretario non eletto, la chiusura delle iscrizioni a parlare, la negazione ostinata delle diversità e l’acclamazione per metà (mi ricorda qualcosa, già). C’è di buono che è solo il quartiere generale della stampella di governo. Forse, visto i tempi che corrono, poteva andare peggio: potevano aprire qualche nuovo ministero.

Servizio pubblico

Può piacere o non piacere, si può essere d’accordo o meno, ma che qualcuno decida di metterci la faccia e di chiedere dieci euro per continuare a fare il proprio lavoro è lineare all’autodeterminazione di parola. E in una televisione che utilizza il “porcellum” nelle proprie scelte e nella programmazione l’esperimento di Michele Santoro è una verifica importante per lo stato di salute e di lotta della rete. Perché ogni tanto oltre che difendersi sarebbe il caso anche di prenderli in contropiede. E non riesco a non augurargli (e augurarci) che sia il primo azzardo che apra la strada a un metodo.

Milano brucia

Scendendo sabato pomeriggio dall’ultimo cavalcavia dalla Milano-Meda, lungo viale Enrico Fermi, il biglietto da visita della città erano le fiamme. Divampate dalla palestra del centro sportivo Ripamonti di via Iseo, sotto sequestro fino a luglio scorso per infiltrazioni mafiose. Fiamme alte e dolose, appiccate verso le 17.30, quando qualcuno è entrato spaccando un vetro della porta di emergenza: ha raggiunto la palestra del primo piano e, dopo aver versato combustibile in diversi punti della sala, al centro e lungo il perimetro, ha innescato l’incendio. A ulteriore prova del dolo, i vigili raccontano degli estintori svuotati e dell’impianto idrico chiuso. Succede in pieno giorno a Milano. E, per la cronaca, fino alla chiusura delle indagini e al ritrovamento di (eventuali) tracce che possano portare ai mandanti questo incendio non finirà nelle statistiche ufficiali della criminalità organizzata: quelle statistiche che qualcuno continua a sventolare per tranquillizzare (chissà poi chi, veramente). Per la cronaca, la storia recente racconta della convenzione stipulata dal Comune con la società Milano Sportiva, presieduta da Massimiliano Buonocore, figlio di Luciano uno dei fondatori del Pdl, e finita al centro dell’indagine «Redux-caposaldo» del Ros dei carabinieri. Secondo il giudice Giuseppe Gennari, infatti, «era chiaro il controllo ‘ndranghetista del centro sportivo, da parte del clan Flachi».

L’idiosincrasia per le donne, le macerie e il Nobel

In Parlamento invitano una deputata “a farsi scopare, B. riunisce in crocchio i suoi camerieri schiacciabottoni per raccontare l’ultima barzelletta aprisinapsi e lancia il partito della gnocca. E il timore più buio è quello di scoprirsi impermeabili alla sconcezza che non sta solo nelle parole ma nell’immoralità esibita come un vanto, è la distanza culturale che stiamo accumulando verso il basso dal resto del mondo spinta in un gorgo dove stiamo con i disadattati culturali, gli ignoranti fieri, i persecutori del bello per vendetta sui propri limiti. La sfida è politica nel senso meno istituzionale e amministrativo di questi ultimi cinquant’anni: la resistenza sta nel ricordare, studiare e tramandare i limiti della decenza e della tollerabilità come ossigeno necessario per non marcire. Forse non si tratta nemmeno più di alfabetizzare al senso comune, oggi c’è proprio da stringersi per fotografare leggi e valori e chiuderli nel cassetto della cucina per non essere complici di questi anni di dispersione.

Se fosse un gioco di segni più o di segni meno, mi terrorizza (senza iperbole, perché è proprio terrore di non essere all’altezza) l’idea di non riuscire nemmeno a ricordarci tutti i nei da correggere, i commi da ricancellare, le parole da recuperare, di non essere più capaci di ricostruire almeno quello che è Stato. Per quanto possiamo eleggerci sentinelle siamo tutti sotto il pericolo cruciale dell’ammaestramento.

E lì fuori, dove l’economia arranca come da noi ma è uno scoglio collettivo, dove le leggi ‘bucano’ come da noi ma sono opportunità in continua evoluzione, dove i governi sbagliano come da noi ma sono obbligati al tessuto democratico, lì fuori si prendono il Nobel tre donne tre “per la loro lotta non violenta per la salvezza delle donne e per i diritti di partecipazione delle donne in un processo di pace”. Mentre questi quattro stracci parlamentari starnazzano di puttane, scopabili e barzellette, Ellen Johnson-SirleaLeymah Gbowee e Tawakkul Karman vengono premiate “per il rafforzamento del ruolo delle donne, in particolare nei paesi in via di sviluppo”. Però per essere un paese in via di sviluppo bisogna essere inferiori ma responsabilmente impegnati, potenziali e volenterosi: e allora noi non siamo un paese in via di sviluppo.

pubblicato su ILFATTO QUOTIDIANO

Anna Stepanovna Politkovskaja e il bavaglio nelle sue declinazioni

Sono una reietta. È questo il risultato principale del mio lavoro di giornalista in Cecenia e della pubblicazione all’estero dei miei libri sulla vita in Russia e sul conflitto ceceno. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle iniziative in cui è prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino: gli organizzatori non vogliono essere sospettati di avere delle simpatie per me. Eppure tutti i più alti funzionari accettano d’incontrarmi quando sto scrivendo un articolo o sto conducendo un’indagine. Ma lo fanno di nascosto, in posti dove non possono essere visti, all’aria aperta, in piazza o in luoghi segreti che raggiungiamo seguendo strade diverse, quasi fossimo delle spie. Sono felici di parlare con me. Mi danno informazioni, chiedono il mio parere e mi raccontano cosa succede ai vertici. Ma sempre in segreto. È una situazione a cui non ti abitui, ma impari a conviverci: erano queste le condizioni in cui lavoravo durante la seconda guerra in Cecenia, scoppiata nel 1999. (da Il mio lavoro a ogni costoInternazionale, 26 ottobre 2006)

Il partito senza prese per il culo

Claudio Fava oggi immenso su Il Fatto: Luca Cordero marchese di Montezemolo ci fa sapere che non vuole un partito dei padroni ma intende fondare un movimento popolare. Peccato. In un tempo in cui tutti vogliono fondare nuovi partiti rigorosamente popolari (a suo modo lo è anche “Forza Gnocca”, battezzato ieri dal Cavaliere), la notizia sarebbe stata un padrone che vuole fare il partito dei padroni. Se non altro servirebbe a prendersi un po’ meno per il culo.