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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Non lotta di classe: diritto alla decenza

Macelleria sociale, attuazione del piano del venerabile Gelli, iniquità al potere, disuguaglianza per decreto: la manovra estiva del governicchio in castigo è riuscita ad allargare (se ancora fosse possibile) il vocabolario dello sdegno. Eppure oltre la questione finanziaria questo conato estivo per scansare il fallimento ha aperto l’oscenità di una cultura dell’impunità che passa non solo dalle aule giudiziarie ma anche (e soprattutto) dalle ipotesi indecenti e intollerabili che ci vengono propinate con la postura dei buoni padri di famiglia.

La notizia arriva da Venezia e ha come protagonista il presidente di Confindustria Veneto, nonché Presidente di Lotto Sport Italia Spa, Andrea Tolmat che propone una ricetta per uscire dalla crisi semplice semplice: i lavoratori rinuncino alle ferie per aiutare l’economia. Testualmente: «regalando cinque giorni lavorativi all’anno per un periodo limitato, diciamo cinque anni» perché, ci dice, «non bisogna guardare alla singola azienda ma al sistema. Cinque giornate lavorative consentirebbero di aumentare la produttività e la competitività per le imprese, si riuscirebbe ad abbassare i costi dei prodotti, anche ad ampliare le possibilità di aumentare le assunzioni».

Verrebbe da chiederai cosa ne pensano i sindacati (o i lavoratori, meglio, di questi tempi) ma Tolmat ha la risposta ad eventuali critiche: «Teniamo presente che già oggi c’è un numero elevato di giorni di ferie – sottolinea – da 25 potrebbero passare a 20 con sacrificio: non se ne accorgerebbe nessuno». E i sacrifici delle aziende? «Le aziende pagano già il 60 per cento di imposte»: capitolo chiuso.

Agosto 2011, Italia: Giuliano Amato disse nel 1992 “in Italia le misure si riescono a prendere solo quando è crollato il soffitto”, oggi, sotto le macerie (già appaltate), la vera lotta di classe è una resistenza all’indecenza.

Pubblicato anche su IL FATTO QUOTIDIANO

Contro le spese militari. Un impegno politico.

È uno dei capitoli di bilancio meno discusso. È un ‘recinto’ di giochi per pochi. Le spese militari italiane navigano (da tempo) nella classifica dei primi dieci stati al mondo. Nello stesso Paese in cui il Servizio Civile è stato tagliato del 70%, i fondi per la cooperazione internazionale sono stati tagliati del 50% raggiungendo il punto più basso degli ultimi anni nel 2010 si sono spesi Oltre 23 miliardi di euro. Adesso è ora di prendere posizione e dire basta. Basta all’esportazione di democrazia che costa troppo a tutti e giova sempre a pochi. Basta senza temere di scostarsi dalle ‘buone maniere’ della politica che frena sulle scelte di campo. Farlo tutti, tutti insieme e cogliere un occasione per essere integralisti al contrario. Un impegno che mi assumo (e ci assumiamo, vero?) da subito in tutti i modi che ci sono possibili. Al massimo rischieremo di essere additati come fastidiosi pacifisti.

Perché leggere Massimo Gramellini

Mi chiamano Medio Alto, ma il mio soprannome è Rintracciabile. Sono quello che non può nascondersi, quello che paga. Anche stavolta. Il governo della Libertà mi impone tasse svedesi per continuare a fornirmi servizi centrafricani. E io le verserò fino all’ultimo centesimo, senza trucco e senza inganno, da vero scandinavo. Poi però rimango un italiano e allora mi si consenta di essere furibondo. Per pezzi così.

Londra nel caffè di Ilaria

Perché le parole sono importanti. E perché leggerle dalla penna di una concittadina (di questa provincia già morta e moritura ancora) è come sentire il profumo di caffè. Aspettando il prossimo libro di Ilaria che, mica per niente, di titolo fa Happy Italy.

Già un’ora di ferragosto

L’Italia – e non solo l’Italia del Palazzo e del potere – è un Paese ridicolo e sinistro: i suoi potenti sono delle maschere comiche, vagamente imbrattate di sangue: «contaminazioni» tra Molière e il Grand Guignol. Ma i cittadini italiani non sono da meno. Li ho visti, li ho visti in folla a Ferragosto. Erano l’immagine della frenesia più insolente. Ponevano un tale impegno nel divertirsi a tutti i costi, che parevano in uno stato di «raptus»: era difficile non considerarli spregevoli o comunque colpevolmente incoscienti.
(Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane)

Poche idee ma confuse

Antonio Di Pietro sulla manovra. Nel giro di poche ore.
Prima: Si dissocia in parte l’Idv. “Finalmente il Governo – ha detto Antonio Di Pietro – ha mostrato le carte. Carte piene sia di ombre sia di luci. Vista la situazione disastrosa in cui versa il sistema economico-finanziario del nostro paese, l’Italia dei Valori ha il dovere di fare la sua parte, affrontando il provvedimento nel merito. Siamo consapevoli che non possiamo comportarci come l’asino di Buridano che, continuando a dire sempre no, alla fine è morto di fame”.
Dopo: Dopo una giornata di risse all’interno della maggioranza il governo ha partorito una manovra che per il 90% pesa sulle spalle dei cittadini e della povera gente, dei ceti medi e medio bassi. […] Quanto al fare cassa, a pagare sono i soliti noti e da questo punto di vista la manovra è di insopportabile iniquità.

Le prime due vittime della manovra bis

Sono la chimera del ‘federalismo’ e la credibilità di mister B. che è sceso (e rimasto) in campo al grido ‘meno tasse per tutti’ fino a qualche giorno fa. Il funerale del cosiddetto ‘federalismo’ l’ha celebrato (per uno scherzo del destino) proprio il lombardissimo Formigoni che ha perso il suo abituale aplomb e dichiarato guerra al governo centrale (ma si sa, le guerre da quelle parti durano il tempo delle prossime prebende). La fine di B. La racconta bene Sergio Rizzo sul Corriere: non più tardi del 3 agosto, davanti ai deputati, il Cavaliere prometteva «un regime di tassazione più favorevole alle famiglie, al lavoro e all’impresa». Promessa sempre più pallida e sbiadita, ora mandata in frantumi dalla lettera della Banca centrale europea. Che ha consegnato Silvio Berlusconi alla legge del contrappasso: quella per cui l’uomo che ha vinto tre elezioni dichiarando guerra alle tasse garantendo che non avrebbe mai messo «le mani nelle tasche degli italiani», ora in quelle tasche dovrà rovistarci a fondo.
maligni diranno adesso che almeno poteva risparmiarselo. Ieri lo attaccava perfino Libero , quotidiano berlusconiano a quattro ruote motrici. La parola «Tradimento» campeggiava sul titolo in prima pagina. E dentro, la pugnalata: un manifesto del Cavaliere sorridente (era la campagna elettorale del 2001) a fianco della scritta «Meno tasse per tutti».
ià, il mitico 2001. Ricordate il contratto con gli italiani firmato a Porta a Porta? «Abbattimento della pressione fiscale», c’era scritto testualmente, «con l’esenzione totale dei redditi fino a 22 milioni di lire annui; con la riduzione al 23% per i redditi fino a 200 milioni di lire annui; con la riduzione al 33% per i redditi sopra i 200 milioni di lire annui». Sette anni prima aveva sbaragliato la «gioiosa macchina da guerra» di Achille Occhetto garantendo la rivoluzione dell’aliquota unica al 33% sognata da Antonio Martino. Ma il suo governo era durato troppo poco. Senza perdersi d’animo, dall’opposizione aveva continuato a martellare
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La rivolta di Londra e le parole sbagliate

Più di tutto è un imbarbarimento: imbarbarimento di linguaggio, imbarbarimento di analisi, imbarbarimento di disponibilità di parole. Ogni notizia, ogni fatto, ogni opinione diventa una rincorsa al comunicato stampa e alla personale classificazione. Vista da dentro (anche dal punto di vista letterario) l’arte (minuscola) della politica (minuscola) è come giocare a bandiera: tutti più o meno in linea (anche se c’è sempre il furbo che bara di mezza scarpa) per arrivare prima a incellofanare il proprio comunicato stampa. Una serie di scatti zigzagando su tutto per esserci e dire ognuno la sua. Tanti piccoli lemming in ordine sparso che rincorrono il bonus per fare punti come in un videogioco degli anni ottanta. E così gli eventi di Londra diventano tutto e finiscono per non essere più o meno niente. Solo un’altra rivolta.

Dice bene Malvino: È per questo che una rivolta ha sempre una parola d’ordine che mira a reclutare forze, anche quando è solo implicita nei simboli che produce. Anche quando è velleitaria, la rivolta si dà come mezzo. Anche quando degenera in follia collettiva e si esaurisce nella drammatizzazione di basse pulsioni istintuali, la rivolta non perde mai di vista, o almeno mai del tutto, l’interlocuzione col potere costituito (o una sua componente).
Tutto questo non è accaduto nel Regno Unito, anzi, tutto ciò che ha sembrato giustificare l’uso del termine rivolta – la protesta contro un presunto abuso delle forze dell’ordine – si è da subito rivelato inconsistente, buono tutt’al più a offrirsi come pretesto. Nel Regno Unito non è accaduto altro che quanto abbiamo visto a New York, col black out del 1977.
E anche stavolta è stato fatto lo stesso errore di analisi, per fretta, pigrizia intellettuale, cedevolezza a suggestioni di comodo, secondo questo o quel comodo. Così abbiamo sentito madornali paragoni con le rivolte di Tunisia, Egitto, Libia e Siria, perfino con gli indignados di Madrid.

Eppure le piaghe di una paese che ha sfilacciato la trama sociale e affossato il sistema pubblico sono un monito o (nell’ipotesi più pessimista) il nostro prossimo capitolo possibile. Lo scrive su L’Unità Marco Simoni: Chi deve crescere dei figli a Londra, nel resto del paese la situazione è meno critica, impara presto che la scuola pubblica non è uguale per tutti. Dopo il terzo compleanno del primogenito bisogna “scegliere” a quale scuola elementare mandarlo. Le scuole ammettono i bambini sulla base della distanza fisica dalla porta di casa all’edificio scolastico, si tratta pertanto di una scelta solo teorica. In pratica, le poche scuole pubbliche di qualità pur ricevendo centinaia di domande possono offrire un posto solo ai bambini che abitano nel raggio di cinquecento metri. Ognuno pertanto va alla scuola che capita, o a quella che si può permettere.
Il sistema pubblico era stato affossato nel ventennio della destra Thatcheriana, e i pur massicci investimenti del Labour hanno lasciato ancora molta strada da compiere. Mancano le risorse alle scuole e sono insufficienti i servizi di comunità per contribuire a tessere una trama sociale degna di questo nome. Di conseguenza, nella maggior parte dei quartieri poveri di Londra, sterminate periferie di case basse che distano ore sui mezzi pubblici dal centro, le scuole elementari continuano ad avere risultati disastrosi, con anche il 40 per cento dei bambini che non supera l’equivalente del nostro esame di quinta.
In Inghilterra non c’è una discussione sulla precarietà, per due ragioni opposte. Per la corposa classe media con accesso – sia pur faticoso – all’istruzione di buona qualità, i lavori precari sono comunque accompagnati da tutele minime sconosciute ai nostri e sono normale gavetta di un futuro più stabile. Invece, per le masse, minoritarie ma nutrite, di lavoratori non qualificati, la precarietà occupazionale è l’unica forma esistente. Certo in presenza di diritti fondamentali, ma con limitatissime prospettive di crescita economica intergenerazionale, e persino di stabilità economica individuale.
Questo non vale solo per le comunità di origine Afro-Caraibica, protagoniste dei saccheggi delle scorse notti, ed è l’evidente conseguenza di un sistema formativo molto classista che accentua le problematiche economico-sociali. In tempi di crisi economica, il destino di un limbo da lavoratore povero senza prospettive diventa ancora più realistico, e i desideri consumistici e commerciali sempre più irrealistici.

Perché barbari si diventa con un lungo e silenzioso lavoro alle radici. E quando ci si sveglia c’è sempre almeno un’era da recuperare.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/08/12/la-rivolta-di-londra-e-le-parole-sbagliate

L’ultimo anno del secolo

È troppo presto (e l’ora troppo tarda) per analizzare la manovra. Che, c’era da starne certi, non tocca le banche e il mondo dei soldi che si fanno sui soldi. Ma oggi finisce un’epoca. Su capitalismo, concezione di crescita, sviluppo e liberismo si sta di qua o di là. Sono i due fronti per disegnare i prossimi anni. Non ce ne siamo ancora accorti per bene ma adesso non si può più fare politica galleggiando. E sarà il TFR di qualche leader e di qualche partito.