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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

L’inferno dei bambini nell’orrore di Gaza

Che vorrebbero che facessero? Scomparire. Non c’è altra spiegazione per l’ennesimo ordine di evacuazione nel nord di Gaza. Un ordine che suona come una condanna a morte per migliaia di civili, bambini, neonati, malati. Un ordine che non lascia scampo, che non offre alternative, che non contempla l’umanità. L’Unicef lancia l’ennesimo grido d’allarme ma ormai le parole sembrano aver perso di significato. Parlano di “conseguenze devastanti e inconcepibili”, ma cosa c’è di inconcepibile in una guerra che da mesi massacra l’innocenza

Parlano di “sofferenze, orrori e morte inimmaginabili”, ma cosa c’è di inimmaginabile in un conflitto che ha fatto dell’orrore la sua normalità? I numeri sono impietosi: tre grandi ospedali da evacuare, tra cui l’unico con un’unità pediatrica nel nord. Diciotto bambini in condizioni critiche da spostare. Ma spostare dove? In un sud già sovraffollato, inquinato, privo di risorse. In un luogo che di sicuro ha solo il nome, perché la morte non fa distinzioni geografiche a Gaza. E poi ci sono loro, i più vulnerabili tra i vulnerabili: i bambini con disabilità, quelli con condizioni mediche gravi. Per loro, l’ordine di evacuazione è una sentenza senza appello. Spostarsi significa rischiare la vita, rimanere significa condannarsi a morte certa.

Ma forse è proprio questo il punto. Forse l’obiettivo non è farli spostare ma farli sparire. Cancellare un’intera generazione, eliminare il problema alla radice. Perché un bambino che non c’è più non potrà crescere, non potrà rivendicare diritti, non potrà ricordare e chiedere giustizia. E mentre il mondo guarda, impotente o complice, l’Unicef implora un cessate il fuoco. Ma sono sempre parole che cadono nel vuoto, inascoltate. Perché in questa guerra l’umanità sembra essere diventata un optional, un lusso che nessuno può più permettersi.
Che vorrebbero che facessero? Scomparire.

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Dal sogno europeo all’incubo turco: il destino dei migranti nel limbo tra due continenti

L’Unione europea è complice delle migliaiadi respingimenti illegali di migranti dalla Turchia verso Siria e Afghanistan. È quanto emerge da un’inchiesta di Politico che getta una luce sinistra sul ruolo dell’Ue nel finanziare e sostenere il sistema turco di detenzione e deportazione dei richiedenti asilo.

La storia inizia nel 2016, quando l’Unione europea, in preda al panico per l’arrivo di un milione di richiedenti asilo l’anno precedente, stringe un patto faustiano con Ankara. In cambio di 11,5 miliardi di euro la Turchia avrebbe dovuto fare da “deposito di rifugiati” per l’Europa, trattenendo sul proprio territorio quasi 4 milioni di persone in fuga dalla guerra in Siria.

Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. E così, mentre Bruxelles si compiaceva di aver “risolto” il problema migratorio la Turchia ha iniziato a utilizzare quelle stesse infrastrutture finanziate dall’Ue per deportare con la forza siriani e afghani nei loro paesi d’origine, dove rischiano persecuzioni e morte.

Il lato oscuro dell’accordo: centri di accoglienza diventati campi di deportazione

L’inchiesta di Politico dipinge un quadro agghiacciante. Centri di accoglienza trasformati in campi di deportazione. Detenuti torturati, picchiati, abbandonati senza cure mediche adeguate. Migranti costretti con la violenza a firmare moduli di “rimpatrio volontario”. E tutto questo con il marchio dell’Unione europea ben in vista: la bandiera blu con le stelle dorate campeggia ovunque, dai sacchetti di sapone ai materassi, quasi a voler ricordare ai detenuti chi sia il vero mandante della loro sofferenza.

La Commissione europea, custode dei trattati e garante dei valori fondamentali dell’Unione, sembra aver chiuso non uno, ma entrambi gli occhi di fronte a queste palesi violazioni dei diritti umani. Nonostante le ripetute segnalazioni di Ong, avvocati, diplomatici e persino del proprio personale, Bruxelles ha continuato a versare fiumi di denaro nelle casse di Ankara, arrivando a stanziare oltre 260 milioni di euro dal 2022 per “rafforzare” ulteriormente il sistema di controllo delle frontiere turco.

Il caso di Sami, un siriano di 26 anni, è emblematico. Arrestato in Turchia e detenuto per mesi in condizioni disumane in un centro finanziato dall’Ue, si è visto negare le cure mediche nonostante fosse gravemente malato. Deportato in Siria contro la sua volontà, è stato rispedito in Turchia per un breve ricovero, solo per essere nuovamente espulso dopo tre giorni. Oggi sopravvive a stento nel nord della Siria, senza i farmaci necessari per curarsi.

Ma Sami è solo uno dei tanti. L’inchiesta riporta decine di testimonianze simili: afghani costretti a firmare documenti di rimpatrio sotto minaccia, ex collaboratori delle forze Nato deportati in Afghanistan e poi uccisi dai talebani, famiglie separate e vite distrutte. E tutto questo con il benestare, se non la complicità attiva, dell’Unione europea.

Migranti, l’Europa di fronte allo specchio: complicità e negazione

La reazione di Bruxelles alle accuse è, come spesso accade, un capolavoro di ipocrisia burocratica. La Commissione si è trincerata dietro la frase “non abbiamo prove di abusi”, ignorando le montagne di evidenze raccolte da giornalisti e organizzazioni umanitarie. Ha parlato di “missioni di monitoraggio regolari”, senza spiegare come queste missioni non abbiano mai rilevato le palesi violazioni dei diritti umani denunciate dai detenuti.

Intanto, il commissario Olivér Várhelyi, responsabile degli affari di vicinato dell’Ue e stretto alleato del premier ungherese Viktor Orbán, sembra addirittura compiacersi dei “massicci ritorni forzati in Afghanistan” operati dalla Turchia. Un atteggiamento che, se confermato, getterebbe un’ombra ancora più inquietante sul ruolo dell’Unione europea in questa vicenda.

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Centri migranti in Albania, tra poco l’inaugurazione tra costi altissimi e ostacoli legali

Dopo mesi di rinvii e polemiche, i centri per migranti in Albania voluti dal governo Meloni sono finalmente pronti a entrare in funzione. La prossima settimana la premier e il ministro Piantedosi voleranno a Tirana per tagliare il nastro dell’hotspot di Shengjin e del centro di detenzione di Gjader, accolti dal primo gruppo di migranti trasportati da una nave militare italiana. Un’inaugurazione in pompa magna per celebrare quello che il governo considera un successo ma che potrebbe rivelarsi un clamoroso autogol.

Costi astronomici e ostacoli legali: il progetto in Albania vacilla

I costi dell’operazione sono astronomici: quasi un miliardo di euro in cinque anni per strutture che rischiano di rimanere vuote. Perché se è vero che i lavori di allestimento si sono conclusi, seppur con cinque mesi di ritardo, è altrettanto vero che una recente sentenza della Corte di Giustizia europea rischia di mandare all’aria l’intero progetto ancora prima che parta.

I giudici del Lussemburgo hanno infatti stabilito che, per essere considerato “sicuro”, un Paese deve esserlo in ogni sua parte e per qualsiasi categoria di persone, senza eccezioni. Un criterio che fa crollare come un castello di carte la lista di 22 Paesi stilata dalla Farnesina, su cui si basa l’intero meccanismo delle procedure accelerate di frontiera previste dal protocollo italo-albanese.

Scorrendo l’elenco praticamente nessuno dei Paesi da cui provengono i migranti che attraversano il Mediterraneo avrebbe più i requisiti per essere ritenuto sicuro: non la Tunisia, non l’Egitto, non il Bangladesh. Di fatto, solo chi arriva da Capo Verde (pochissimi) potrebbe essere soggetto a queste procedure. Un dettaglio non da poco, che rischia di trasformare i nuovi centri in cattedrali nel deserto ancor prima di aprire i battenti.

Procedure al limite della legalità: il rischio di un clamoroso fallimento

Ma il governo tira dritto, incurante dei rischi. Il Viminale ha già predisposto le regole operative: i migranti soccorsi in acque internazionali verranno portati su una nave della Marina che fungerà da hub al largo di Lampedusa. Qui avverrà una prima scrematura: donne, minori, famiglie e persone fragili verranno fatte sbarcare sull’isola, mentre gli uomini adulti ritenuti provenienti da Paesi “sicuri” saranno trattenuti e portati in Albania una volta raggiunto un numero congruo.

Peccato che, alla luce della sentenza europea questa procedura sia ora priva di fondamento giuridico. Se il governo insisterà, è facile prevedere che i nodi verranno presto al pettine: i primi migranti fermati e portati in Albania potrebbero essere rilasciati dopo 48 ore e riportati in Italia, visto che il protocollo firmato da Meloni e Rama prevede espressamente che nessun migrante possa rimanere libero in territorio albanese.

Uno scenario che, se si verificasse già con la prima nave, renderebbe i nuovi centri inutili ancor prima di entrare in funzione. Uno smacco politico per il governo che si propone come capofila in Europa della strategia di esternalizzazione delle richieste di asilo.

Eppure a Roma sembrano non preoccuparsi, procedendo spediti verso un’inaugurazione che ha tutta l’aria di essere l’ennesima operazione di facciata. Resta da capire quanto durerà la festa prima che la realtà bussi alla porta, presentando il conto di un’operazione tanto costosa e che rischia di rivelarsi inutile. Nel frattempo il contatore della spesa pubblica continua a girare, in attesa che qualcuno si decida a staccare la spina a questo carrozzone mediatico-politico travestito da soluzione ai problemi migratori.

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Da ‘legittima difesa’ a ‘crimine’: il doppio standard dell’opinione pubblica

L’attacco dell’esercito israeliano alle basi Unifil, la missione dell’Onu al sud del Libano, smaschera l’ipocrisia. 

Il fato che Israele abbia aperto il fuoco contro la base UNP 1-31 sulla collina di Labbune, nell’area di responsabilità dell’Italia che nel sud del Libano schiera oltre mille militari non è un’azione diversa dagli irresponsabili colpi che l’esercito di Netanyahu ha sparato in questo ultimo anno, trasformando una presunta legittima difesa in una vendetta utile a un disegno politico che ha radici antiche.

L’indignazione che leggiamo questa mattina sui giornali è figlia dell’empatia sovranista che in tempi di guerra infetta anche alcuni insospettabili: se a rischiare la vita sono soldati “nostri” allora ciò che prima era collaterale, bellicamente ragionevole e difensivo, diventa un crimine di guerra. 

Se a essere colpite sono della basi Onu – dopo gli ospedali, le scuole, le sedi giornalistiche, gli uffici umanitari – il diritto internazionale diventa improvvisamente un comandamento inderogabile. 

Ipocritamente anche la difesa del dissennato attacco è sempre la stessa: pure le basi Onu – come gli ospedali, le scuole, le sedi giornalistiche, gli uffici umanitari – diventano un “nascondiglio dei terroristi”. Quindi i soldati italiani sono il Libano a fiancheggiare i terroristi, secondo Israele. Chissà anche di questo che ne pensa il ministro Crosetto. 

Per molti invece quella di ieri è stata una giornata perfettamente in linea con l’agire dell’esercito israeliano.

Buon venerdì.

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Il Nobel per la pace? Non diamolo a nessuno

Il toto Nobel per la pace è partito. Qualcuno che si atteggia da bene informato sussurra che l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), la Corte internazionale di giustizia e il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres siano tra i favoriti per il premio Nobel per la pace 2024.

Per la sua attività in favore delle popolazioni colpite dai conflitti buone chance di vittoria sono attribuite all’UNRWA e al suo alto commissario Philippe Lazzarini. Un premio all’Unrwa riaccenderebbe evidentemente gli animi di chi osteggia le accuse di Israele contro l’agenzia, le stesse che avevano bloccato i finanziamenti di molti paesi, poi ripristinati dopo i risultati di inchieste indipendenti.

Un Nobel per l’Onu e al suo segretario Guterres aprirebbe la polemica sulla Corte internazionale di giustizia che ha condannato l’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia e ha chiesto a Israele di garantire che non venga commesso alcun genocidio a Gaza in un caso presentato dal Sudafrica, ancora in corso, che Israele ha ripetutamente respinto come infondato.

Qualcuno vorrebbe il presidente ucraino Zelensky, altri spingono per un Nobel postumo al dissidente russo Alexei Navalny, morto in una colonia penale artica a febbraio. Tra i papabili ci sarebbero anche l’Unesco e il Consiglio d’Europa.

Le guerre, i massacri, la vigliaccheria internazionale e i morti intanto continuano. Non c’è stata pace in questo 2024 che è l’anno dell’incitamento alla guerra. Anzi, per il Nobel della guerra verrebbero in mente facilmente alcuni nomi.

Allora fate una bella cosa, non assegnatelo il Nobel per la pace. È accaduto altre 19 volte (durante la Prima guerra mondiale, nel primo dopoguerra, durante la Seconda guerra mondiale, negli anni della Guerra fredda e della Guerra del Vietnam). Fatelo ancora.

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Una bambina su cinque vittima di violenze, allarme shock dell’Unicef

L’11 ottobre segna la Giornata mondiale delle bambine e delle ragazze e come accade quando si allarga lo sguardo i numeri messi insieme fanno impressione. I dati emersi dal rapporto InDifesa di Terre des Hommes e dalle stime dell’Unicef fotografano un quadro allarmante, evidenziando come la strada verso la parità di genere sia ancora lunga e impervia.

Secondo il dossier InDifesa 2024, oltre 3,1 miliardi di bambine e ragazze vivono in paesi dove i loro diritti umani non sono adeguatamente tutelati. Questo numero impressionante rappresenta più della metà della popolazione femminile mondiale e sottolinea l’urgenza di interventi mirati e sostanziali.

Le violazioni dei diritti delle bambine assumono forme diverse e spesso sovrapposte. Tra le più gravi emergono i matrimoni forzati, le gravidanze precoci, la violenza sessuale e le mutilazioni genitali femminili. Quest’ultima pratica, nonostante gli sforzi per eradicarla, continua a colpire circa 4 milioni di bambine e ragazze ogni anno. Complessivamente, sono oltre 230 milioni le donne sopravvissute a mutilazioni genitali che ne subiscono le conseguenze, con 144 milioni solo in Africa.

L’istruzione, fondamentale per l’emancipazione femminile, rimane un miraggio per troppe. Sono 122 milioni le bambine e le ragazze che non frequentano la scuola, con più della metà concentrate nell’Africa sub-sahariana. In Afghanistan, la situazione è particolarmente critica, con il divieto imposto alle ragazze di oltre 12 anni di accedere all’istruzione.

Il matrimonio precoce continua a essere una piaga diffusa. Circa 640 milioni di donne tra i 20 e i 24 anni si sono sposate da minorenni, con la metà di questi casi concentrati nell’Asia meridionale. Sebbene si registrino progressi in alcune aree, fattori come la pandemia e i cambiamenti climatici hanno esacerbato le condizioni di vulnerabilità in molti paesi.

La violenza sessuale emerge come una delle violazioni più devastanti. L’Unicef rivela che oltre 370 milioni di ragazze e donne in vita – una su otto – hanno subito stupri o violenze sessuali prima dei 18 anni. Includendo le forme di abuso “senza contatto”, come molestie online o verbali, il numero sale a 650 milioni, ovvero una su cinque.

L’Africa subsahariana risulta la regione più colpita, con 79 milioni di vittime, seguita dall’Asia orientale e sudorientale con 75 milioni. In contesti fragili, caratterizzati da istituzioni deboli o crisi politiche, il rischio per le bambine aumenta drammaticamente, con una su quattro che subisce violenze sessuali durante l’infanzia.

Il fenomeno non risparmia i maschi: si stima che tra 240 e 310 milioni di ragazzi e uomini abbiano subito abusi sessuali da bambini, un numero che sale a 410-530 milioni considerando anche le forme senza contatto fisico.

In Italia, la situazione, seppur migliore rispetto a molti paesi in via di sviluppo, presenta criticità significative. Nel 2023 sono stati registrati 6.952 reati ai danni di minori, con un aumento del 34% rispetto al 2013. Le bambine e le ragazze rappresentano il 61% delle vittime, percentuale che sale nei casi di violenza sessuale e reati correlati.

Preoccupa anche il crescente disagio psicologico tra i giovani, in particolare tra le ragazze. Il 52% delle adolescenti italiane ritiene che la pandemia abbia avuto un impatto negativo sulla propria salute mentale, contro il 31% dei coetanei maschi.

Sul fronte della parità di genere, l’Italia ha peggiorato la sua posizione nella classifica globale, scendendo all’87° posto. Persistono disparità significative nell’ambito lavorativo, con quasi una donna su due che non lavora, e nello sport, dove le ragazze partecipano meno dei coetanei maschi.

Le soluzioni? Le solite. Serve sfidare e cambiare le norme sociali e culturali che permettono il perpetuarsi di queste violazioni, fornire ai bambini gli strumenti per riconoscere e denunciare gli abusi, e garantire servizi di supporto adeguati per le vittime.

Inoltre, è fondamentale rafforzare le leggi a tutela dei minori e investire in sistemi di raccolta dati più efficienti per monitorare i progressi e assicurare una maggiore responsabilità.

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Il generale delle gaffe: Vannacci inciampa sulle leggi per la cittadinanza

Nel circo politico italiano, Roberto Vannacci ancora una volta si distingue per la sua capacità di elevare la gaffe a disinformazione. L’ultimo capolavoro del neo-europarlamentare leghista è andato in scena a Pontida, dove ha regalato al suo pubblico una lezione magistrale su come parlare di leggi sulla cittadinanza senza avere la minima idea di cosa stesse parlando. 

La lezione di geografia creativa di Vannacci

Vannacci, con la solita sicumera, ha dichiarato: “Chi è che vi dà la cittadinanza Il Marocco forse se la chiedete? La Libia Il Bangladesh? La Nigeria No, non ve la concedono, e quindi non c’è motivo affinché noi la regaliamo agli altri”. Un’affermazione che sarebbe stata brillante, se solo Carlo Canepa di Pagella Politica, evidentemente afflitto dalla malsana abitudine di verificare i fatti prima di parlare, non avesse avuto la pazienza di smontare la perla di saggezza vannacciana scoprendo che in tutti i paesi citati dal generale esistono leggi che prevedono la concessione della cittadinanza agli stranieri. Che sorpresa.

In Marocco, ad esempio, un bambino nato da genitori stranieri può ottenere la cittadinanza se i genitori sono nati nel paese. La legge marocchina offre anche una seconda possibilità: chiunque nasca in Marocco da un padre straniero a sua volta nato in Marocco può chiedere la cittadinanza marocchina se il padre proviene da un Paese in cui la maggioranza della popolazione parla l’arabo e in cui la religione più diffusa è l’Islam. Inoltre, uno straniero può ottenere la cittadinanza del Marocco per “naturalizzazione” dopo cinque anni di residenza regolare, dimostrando una sufficiente conoscenza della lingua araba e mezzi di sostentamento adeguati.

La Libia richiede dieci anni di residenza per la naturalizzazione. In Nigeria, la cittadinanza per naturalizzazione richiede 15 anni di residenza, ma questo periodo può ridursi a 12 mesi se nei vent’anni precedenti si è vissuto in Nigeria per un periodo complessivo non inferiore a 15 anni. Il Bangladesh chiede cinque anni di residenza, una buona conoscenza del bengalese e l’intenzione di rimanere nel paese dopo l’ottenimento della cittadinanza. 

I dati evidenziano non solo l’imprecisione delle affermazioni di Vannacci ma anche la complessità delle dinamiche migratorie e delle politiche di cittadinanza. Le leggi sulla naturalizzazione nei paesi citati, lungi dall’essere inesistenti come sostenuto da Vannacci, riflettono una varietà di approcci e requisiti.

L’analisi comparativa rivela anche che questi paesi, pur avendo leggi sulla cittadinanza meno liberali rispetto ad alcuni stati europei, non chiudono completamente le porte agli stranieri. Al contrario, offrono percorsi, seppur talvolta complessi, per l’integrazione legale degli immigrati di lungo periodo.

Numeri che parlano: la realtà contro la retorica

In Italia vivono 415 mila marocchini, 124 mila nigeriani e 174 mila bangladesi. Ma ci sono anche italiani che hanno fatto il viaggio al contrario. In Marocco sono 6.101, in Nigeria 840 e in Bangladesh 531.

Ma Vannacci non è solo in questa crociata contro la realtà. Il ministro Piantedosi, non molto tempo fa, ha dichiarato che nessun paese europeo applica lo ius scholae dimenticando paesi come Grecia, Portogallo, Lussemburgo e Slovenia abbiano forme di ius scholae nelle loro leggi sulla cittadinanza.

Ogni giorno il dibattito (bassissimo) sulla cittadinanza svela il lato peggiore della propaganda. 

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Meloni & C. nel mirino: accesso abusivo ai conti della premier, della sorella e di altri politici, magistrati e vip

Il quotidiano Domani ha svelato l’ennesimo caso di dossieraggio che coinvolge i vertici delle istituzioni italiane. Questa volta a finire sotto la lente d’ingrandimento sono i conti correnti della premier Giorgia Meloni, di sua sorella Arianna e di numerosi altri esponenti politici e istituzionali di primo piano.

Secondo quanto emerso, un dipendente di una banca avrebbe effettuato migliaia di accessi abusivi ai conti correnti di politici, magistrati, imprenditori e personaggi dello spettacolo. L’ex bancario, ora licenziato, è al centro di un’indagine della Procura di Bari che potrebbe avere sviluppi clamorosi.

Lo scandalo in numeri: migliaia di accessi abusivi ai conti dei potenti

I numeri forniti da Domani sono impressionanti: quasi 7.000 accessi non autorizzati realizzati tra il febbraio 2022 e l’aprile 2024, per un totale di oltre 3.500 clienti “spiati” in 679 filiali sparse su tutto il territorio nazionale. Un’attività sistematica e capillare, dunque, che solleva interrogativi sulle reali finalità di questa massiccia raccolta di informazioni riservate.

Tra i nomi eccellenti finiti nel mirino del funzionario infedele figurano, oltre alla premier Meloni e a sua sorella Arianna, il ministro della Difesa Guido Crosetto, la ministra del Turismo Daniela Santanchè, il presidente del Senato Ignazio La Russa e l’ex compagno della Meloni, Andrea Giambruno. Ma la lista comprende anche governatori regionali come Michele Emiliano e Luca Zaia, alti magistrati come il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, oltre a imprenditori, sportivi e militari di cui non sono stati resi noti i nomi.

L’inchiesta è partita quasi casualmente grazie alla segnalazione di un correntista di Bitonto (Bari) che aveva notato anomalie negli accessi al proprio conto. Da lì sono scattati gli accertamenti interni di Intesa Sanpaolo, che hanno portato al licenziamento del dipendente l’8 agosto scorso e alla successiva denuncia alle autorità competenti.

Ora gli inquirenti baresi stanno cercando di far luce sui reali obiettivi di questa imponente attività di spionaggio finanziario. Al momento non è chiaro se il funzionario abbia agito per mera curiosità personale o se dietro ci siano finalità più complesse, come la ricerca di informazioni sensibili da utilizzare per scopi non ancora identificati.

La vicenda solleva nuovamente l’attenzione sulla sicurezza dei dati sensibili dei cittadini, dopo i recenti casi di accessi abusivi alle banche dati delle forze dell’ordine e della magistratura. Un problema che sembra assumere dimensioni sempre più ampie, mettendo in evidenza potenziali vulnerabilità nei sistemi di protezione delle informazioni riservate.

Reazioni e indagini: la risposta delle istituzioni e della banca

La reazione della premier Meloni non si è fatta attendere. Con un post sui social ha commentato: “Dacci oggi il nostro dossieraggio quotidiano”, a sottolineare come episodi del genere stiano diventando sempre più frequenti. Una battuta che evidenzia la preoccupazione per un fenomeno che sembra aver preso di mira in modo particolare gli esponenti dell’attuale governo.

Dal canto suo, l’istituto bancario ha precisato in una nota di aver “tempestivamente adottato le opportune iniziative disciplinari” nei confronti del dipendente, sottolineando come il comportamento anomalo sia stato individuato grazie ai sistemi di controllo interni della banca. Ed ha inoltre assicurato il proprio impegno a “evolvere i sistemi nell’ottica di garantire la massima protezione dei dati della clientela”.

Il caso si inserisce in un contesto già caratterizzato dalle polemiche sui presunti dossieraggi ai danni di politici ed imprenditori, oggetto di diverse inchieste giudiziarie. Tra queste, spicca l’indagine in corso a Perugia per accesso abusivo alle banche dati, legata a operazioni sospette della Uif (Unità di Informazione Finanziaria). Una vicenda complessa che ha visto recentemente l’audizione del ministro Crosetto al Copasir, dopo la sua denuncia sulla pubblicazione di notizie coperte da segreto a suo carico.

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85, bastano per tornare a discuterne?

Forse il giornalismo – quello che si promette di raccontare il suo tempo – oltre a sfrucugliare nel sacchetto dell’umido per darci in pasto i particolari macabri dalla bocca di Filippo Turetta potrebbe dirci dello squarcio nei figli di Eleonora Toci. Loro ieri hanno dovuto mostrare alla zia il cadavere della madre strangolata dal padre, con il telefono in mano. 

Oppure potrebbero concentrarsi sullo strazio di Maria Arcangela Turturo, 60 anni, che quattro giorni fa ha usato gli ultimi respiri per raccontare a sua figlia di essere stata bruciata e poi soffocata dal marito Giuseppe Lacarpia, 65 anni lì belli in mostra a smentire il testosterone come movente. 

Cinque giorni fa è stata ammazzata Letizia Girolami, 72 anni, trovata morta in un casolare spettrale. È stata uccisa dall’ex compagno della figlia, un altro uomo incapace di fare i conti con la fine di una relazione. 

Il 26 settembre il corpo senza vita di Maria Campai, 42 anni, è stato trovato a Viadana, un comune della provincia di Mantova.‍ Il ragazzo che l’ha uccisa si è lamentato per una prestazione sessuale che non valeva i soldi pattuiti. Quello stesso giorno a Tarzo, nei pressi di Treviso, è stata ammazzata Cesira Bianchet. 

Due ammazzate anche il giorno prima, il 25 settembre, Giusi e Martina Massetti erano madre e figlia. Roberto Gleboni, 52 anni, ha sparato a tutti i membri della sua famiglia prima di uccidersi. Morto anche il figlio Francesco e un vicino di casa. 

Tra il 22 e il 24 settembre ne sono state ammazzate tre: Loretta Levrini, Antonella Lopez e Rosa Nabi. Sono 85 donne uccise dall’inizio dell’anno, secondo il Viminale 65 sono femminicidi. Bastano per tornare a discuterne?

Buon giovedì. 

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Tagli al lavoro in carcere, altro che rieducazione

Da quando è diventato ministro della giustizia Carlo Nordio ha ripetuto che il lavoro in carcere è fondamentale per il reinserimento sociale delle persone detenute e per abbassare il tasso di recidiva. Essendo ministro ci si aspetterebbe quindi che nel corso del suo mandato abbia agito alla stregua delle sue parole. Dovrebbe accadere così: chi governa illustra le sue priorità e poi agisce di conseguenza. Dovrebbe essere semplice, lineare. E invece no. In una nota del Provveditorato Regionale del Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta si legge infatti come il fabbisogno rilevato per mantenere i tassi di occupazione fosse di 2 milioni di euro, mentre dal Ministero della Giustizia è stato erogato meno del 50% di questo fabbisogno. Per questo, il Prap, ha invitato le direzioni degli istituti a tagliare il numero di persone lavoranti o comunque di ridurre le ore di lavoro che le stesse svolgono.

Questi tagli potranno colpire peraltro categorie specifiche di lavoratori: quelli che prestano assistenza ad altri detenuti disabili o non pienamente autosufficienti, o quelli a supporto dell’area pedagogica (bibliotecari e scrivani). A lavorare in carcere è solo circa il 30% delle persone detenute e la maggior parte di esse lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, peraltro in molti casi già per pochi giorni o poche ore alla settimana. Il guadagno che si ottiene serve a garantire un ritorno in libertà dove si abbiano a disposizione un minimo di risorse per far fronte alle spese, comprese quelle del mantenimento che ogni persona detenuta deve versare allo Stato a fine pena. Quelli dell’associazione Antigone si chiedono come il ministro possa smentirsi facendo tutto da solo. È una buona domanda.

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