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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Generazione in crisi: il crollo della salute mentale dei giovani italiani

Il 10 ottobre ricorre la Giornata mondiale della salute mentale, un’occasione per esaminare i dati sul benessere psicologico delle nuove generazioni. L’analisi di Openpolis offre un quadro dettagliato della situazione in Italia.

L’indice di salute mentale tra gli adolescenti italiani (14-19 anni) è sceso a 71 nel 2023, rispetto al 72,6 dell’anno precedente. Questo calo evidenzia come i livelli pre-Covid non siano ancora stati recuperati. Il dato è particolarmente significativo se confrontato con la media della popolazione: il divario emerso durante la pandemia non sembra colmarsi.

Il divario di genere: una ferita aperta nella salute mentale giovanile

Il report mette in luce un marcato divario di genere: tra le adolescenti l’indice di salute mentale si attesta a 67,4, circa 7 punti in meno rispetto ai coetanei maschi (74,3). Questa differenza, sebbene presente in tutte le fasce d’età, risulta particolarmente accentuata tra i più giovani.

Il contesto familiare gioca un ruolo cruciale. Openpolis riporta che solo il 42% delle ragazze in Veneto ed Emilia-Romagna dichiara di ricevere un elevato supporto familiare, una percentuale ben al di sotto della media nazionale. Al contrario, oltre due terzi degli studenti maschi della provincia autonoma di Bolzano (71,7%), della Valle d’Aosta (66,5%) e della Puglia (66,2%) dichiarano di sentirsi fortemente supportati dalla famiglia.

Scuola e social media: i nuovi fronti della crisi

La scuola rappresenta un altro fattore chiave. Circa il 60% degli studenti intervistati dichiara di sentirsi molto o abbastanza stressato dall’ambiente scolastico, una percentuale in aumento rispetto alla rilevazione del 2017/18. Il picco si raggiunge tra le ragazze 15enni: quasi l’80% riporta livelli elevati di stress legato alla scuola.

L’uso dei social media emerge come un altro aspetto critico. Il 13,5% degli adolescenti mostra un uso problematico di queste piattaforme, con punte del 20,5% tra le ragazze di 13 anni e del 18,5% tra quelle di 15. La Campania guida questa classifica, con il 16% degli adolescenti che fa un uso problematico dei social, seguita da Calabria e Puglia con quote poco inferiori al 15%.

Openpolis sottolinea l’importanza di una rete sociale e di servizi su cui fare affidamento. Durante la pandemia, la presenza di reti sociali, sanitarie ed educative capaci di collaborare in modo sinergico ha rappresentato un fattore protettivo per il benessere dei ragazzi.

Tuttavia, il sistema attuale mostra diverse criticità. I centri di assistenza di neuropsichiatria infantile e adolescenziale non sono presenti in tutte le regioni. Nel 2022, questi centri erano articolati in 58 strutture residenziali e 53 semiresidenziali. Inoltre, a fronte di un fabbisogno stimato di 700 posti letto nei reparti di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, attualmente ne sono disponibili solo circa 400.

Il fenomeno dei giovani neet (Not in Education, Employment or Training) è un altro indicatore significativo. Nel 2020, l’Italia ha registrato il 23,3% di neet nella fascia 15-29 anni, il dato più alto nell’Unione Europea. Questo fenomeno è particolarmente accentuato nelle regioni del mezzogiorno: Sicilia (37,5%), Calabria (34,6%) e Campania (34,5%) mostrano le percentuali più elevate.

L’indagine sui comportamenti collegati alla salute in ragazzi di età scolare (HBSC), promossa dall’OMS e condotta in Italia dall’Istituto Superiore di Sanità, fornisce ulteriori dati. Nel 2022, sono state campionate oltre 6.000 classi in tutte le regioni italiane, offrendo una panoramica dettagliata su vari aspetti della salute e del benessere dei giovani.

I dati mostrano che al crescere dell’età, diminuisce la facilità con cui ragazze e ragazzi riescono ad aprirsi con i genitori. Tra i 15enni, solo il 51,8% delle ragazze dichiara di ricevere un elevato supporto familiare, contro il 60,7% dei coetanei maschi.

Per quanto riguarda la scuola, il 61,8% dei 15enni si sente accettato dagli insegnanti, ma solo il 35,4% percepisce un interesse da parte dei docenti. Due su tre (66,6%) si sentono accettati per come sono dai compagni di classe.

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Dazi sul brandy, cosa c’è dietro la nuova guerra fredda economica tra Ue e Cina

Nell’escalation di tensioni commerciali che sta assumendo i contorni di una vera e propria guerra economica, la Cina ha sferrato un colpo diretto al cuore dell’industria europea del lusso. Il ministero del Commercio cinese ha annunciato che dall’11 ottobre imporrà dazi anti-dumping sulle importazioni di brandy dall’Unione europea, in quella che appare come una chiara ritorsione dopo la decisione di Bruxelles di imporre tariffe sui veicoli elettrici made in China.

Le bottiglie di Martell, Remy Martin, Hennessy e Nonino si troveranno improvvisamente gravate da un’aliquota che oscilla tra il 30,6% e il 39% al loro ingresso nel mercato cinese. Un colpo basso che mira dritto al portafoglio dei produttori europei ma soprattutto un messaggio inequivocabile: la Cina non ha intenzione di subire passivamente le politiche protezionistiche dell’Ue.

La Cina alza i calici: una mossa strategica oltre l’alcol

Il cambio di azione di Pechino, che solo poche settimane fa aveva rassicurato sul fatto che non avrebbe imposto dazi sul brandy europeo, segna un punto di non ritorno nelle relazioni commerciali sino-europee. Ma c’è di più: il dragone non sembra intenzionato a fermarsi qui. Il Ministero del Commercio ha già fatto sapere che, per “proteggere i legittimi diritti delle industrie e delle aziende cinesi” potrebbe estendere la sua rappresaglia ad altri settori chiave dell’export europeo, come l’automotive, la carne suina e i prodotti lattiero-caseari.

Dieci paesi dell’Ue hanno votato a favore dei dazi sulle auto cinesi, tra cui Paesi Bassi, Italia e Polonia, e ora rischiano di essere più esposti alle ritorsioni della Cina. Germania e Ungheria, d’altra parte, erano tra i cinque paesi che hanno votato contro l’iniziativa europea. 

Bruxelles in hangover: la risposta tiepida dell’Ue

Di fronte a questa escalation la reazione di Bruxelles appare sorprendentemente tiepida. Il commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, ha dichiarato con nonchalance: “Non siamo mai preoccupati”. Una frase che suona più come un wishful thinking che come una reale valutazione della situazione. Gentiloni ha poi aggiunto: “Abbiamo preso decisioni appropriate e molto proporzionate. Non penso che ci sia alcuna ragione di reagire a questa decisione proporzionata con una ritorsione”. Parole che sembrano ignorare la portata della sfida lanciata da Pechino.

La Commissione europea ha annunciato che ricorrerà all’Organizzazione Mondiale del Commercio contro i dazi cinesi su brandy e cognac, dichiarando di essere “determinata a difendere l’industria dell’Ue contro l’abuso degli strumenti di difesa commerciale”. Una mossa che, seppur necessaria, rischia di apparire come un mero esercizio burocratico di fronte alla rapidità e all’incisività dell’azione cinese.

La guerra dei dazi sul cognac non è solo una questione di alcolici di lusso. È il sintomo di un conflitto più profondo che vede contrapposte due visioni del commercio internazionale: da un lato, l’approccio pragmatico e aggressivo della Cina, dall’altro, l’ideale europeo di un mercato globale regolato e “fair”. Il rischio è che, mentre l’Ue si attarda in discussioni su regole e procedure, la Cina continui a guadagnare terreno, imponendo di fatto le proprie condizioni.

In questo contesto, l’Unione europea si trova di fronte a un bivio: continuare sulla strada di un approccio conciliante, rischiando di vedere erosa la propria competitività, o sviluppare una strategia geoeconomica più assertiva, capace di tutelare gli interessi europei in un mondo sempre meno incline al compromesso.

La guerra dei dazi potrebbe essere solo l’inizio di una sfida molto più ampia che richiederà all’Ue una profonda riflessione sul suo ruolo nel mondo e sugli strumenti necessari per affermare i propri interessi. E non basterà rinchiudersi nel sovranismo economico. 

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600 gigatonnellate di ghiaccio svanite nel nulla: il 2023 anno nero per l’acqua

Il 2023 per le risorse idriche globali è stato il peggiore degli ultimi tre decenni per le risorse idriche globali. Il rapporto “State of Global Water Resources 2023” dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM) fotografa uno scenario allarmante, caratterizzato da fiumi in secca, ghiacciai in rapido scioglimento e una siccità senza precedenti che ha colpito vaste aree del pianeta.

I dati presentati dall’OMM sono inequivocabili: oltre il 50% dei bacini fluviali monitorati ha registrato portate inferiori alla media storica. Emblematici i casi del Mississippi e dell’Amazzonia, che hanno toccato i livelli più bassi mai osservati. Il 26 ottobre 2023, il livello dell’acqua nel bacino amazzonico presso il porto di Manaus ha raggiunto il minimo storico di 12,70 metri, il più basso registrato dal 1902. In Europa, bacini come quello del Danubio hanno mostrato condizioni di sofferenza idrica.

Fiumi in secca e ghiacciai in fuga: il volto della crisi dell’acqua globale

Il rapporto evidenzia come le condizioni di siccità abbiano interessato vaste regioni del globo. In Nord America, l’intero territorio ad eccezione dell’Alaska ha sperimentato condizioni di portata fluviale da inferiori a molto inferiori alla norma. La situazione è stata particolarmente grave in America Centrale e Meridionale, con il Messico che ha registrato l’anno più secco di sempre, con precipitazioni del 21% inferiori alla media.

Ma è sui ghiacciai che si registra il dato più allarmante. Nel 2023 hanno perso oltre 600 gigatonnellate di massa, il valore più alto degli ultimi 50 anni. Questo fenomeno ha contribuito per 1,7 millimetri all’innalzamento del livello del mare, segnando una accelerazione preoccupante del processo. Il rapporto sottolinea come sia il secondo anno consecutivo in cui tutte le regioni glaciali del mondo hanno registrato una perdita di ghiaccio.

La causa principale di questa crisi idrica globale è stata identificata nel caldo record che ha caratterizzato il 2023, l’anno più torrido mai registrato con temperature medie 1,45°C sopra i livelli preindustriali. Le temperature estreme hanno provocato siccità prolungate in molte regioni, dalla California al Corno d’Africa.

Dall’economia all’ambiente: gli impatti multidimensionali della crisi idrica

Le conseguenze non sono solo ambientali ma anche economiche e sociali. In Argentina, la prolungata siccità ha causato una perdita del 3% del PIL. In Libia, le inondazioni seguite a un periodo di grave aridità hanno provocato oltre 4.700 vittime e 8.000 dispersi, colpendo il 22% della popolazione del paese.

Il rapporto dell’OMM sottolinea anche l’importanza cruciale del monitoraggio delle risorse idriche. Nonostante i progressi registrati nell’ultimo anno, con un aumento significativo delle stazioni di misurazione della portata fluviale (da 273 in 14 paesi nel 2022 a 713 in 33 paesi nel 2023), ampie aree del pianeta rimangono prive di sistemi di osservazione adeguati, soprattutto in Africa e Sud America.

Il documento evidenzia anche come le anomalie nella disponibilità idrica non si limitino alle acque superficiali. L’analisi dei livelli delle acque sotterranee, basata su dati provenienti da oltre 35.000 pozzi in 40 paesi, ha rivelato situazioni critiche in diverse regioni. In particolare, vaste aree del Nord America, del Cile centrale e meridionale, dell’Europa meridionale e dell’Australia occidentale e meridionale hanno registrato livelli di falda inferiori o molto inferiori alla norma.

L’analisi delle aree sotto diverse condizioni di portata fluviale dal 1991 al 2023 mostra una tendenza crescente verso condizioni di siccità nel tempo, con il 2023 che risulta l’anno più secco degli ultimi 33 anni, seguito dal 2021 e dal 2015.

Il “State of Global Water Resources 2023” dell’OMM sottolinea l’importanza di migliorare i sistemi di monitoraggio, condividere i dati e sviluppare strategie di adattamento per affrontare le sfide poste dai cambiamenti climatici sul ciclo idrologico globale. Magari iniziando a non negare l’innegabile. 

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Von der Leyen contro Orbán: “Non protegge l’Europa, scarica i problemi sui vicini”

In Europa ci si abitua presto alla retorica del “troppo poco, troppo tardi”. Eppure, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha deciso di scuotersi e rispondere a Viktor Orbán. Finalmente, verrebbe da dire. Lo scontro si consuma in plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo, e fotografa la Commissione e il premier ungherese su posizioni inconciliabili.

Se Orbán ha usato il suo intervento all’Eurocamera sulle priorità della presidenza ungherese dell’Ue per difendere il suo operato e presentare l’Ungheria come l’alfiere di un’Europa che deve cambiare, von der Leyen ha finalmente smesso di usare guanti di velluto. E, anche se l’assalto verbale arriva con anni di ritardo, il messaggio è chiaro: basta tollerare un’Unione Europea che tradisce sé stessa.

Ursula contro Viktor: lo scontro a Strasburgo

Dalla presidente della Commissione non ci si aspetta un linguaggio che morde ma questa volta ha rinunciato all’aplomb. “Per la guerra in Ucraina c’è ancora qualcuno che dà la colpa non all’invasore ma all’invaso. Mi domando: qualcuno ha mai incolpato gli ungheresi per l’invasione sovietica del 1956?”, ha incalzato von der Leyen, sferzante. Un colpo diretto al premier ungherese che, dopo mesi di ambiguità e strizzatine d’occhio verso Mosca.

Le parole della presidente sono risuonate come un atto d’accusa verso il tradimento dell’Europa da parte di Orbán. Un leader che gioca al sovranismo sul filo della provocazione ma che è ancora aggrappato ai vantaggi economici e politici dell’Unione. Un Orbán che, come von der Leyen ha sottolineato, fa a pezzi il Mercato Unico, imponendo barriere alle imprese europee e sovvenzionando le proprie.

Von der Leyen contro Orbán: inizia la resa dei conti

È chiaro: il dibattito di oggi non è stato solo uno scambio acceso. È stato l’inizio di una resa dei conti. Orbán ha sfidato Bruxelles ripetendo la sua solita litania anti-migranti, dipingendo un’Europa che rischia il collasso a causa della crisi migratoria e sottolineando la necessità di chiudere le frontiere. Le sue soluzioni? Costruire hotspot esterni all’Unione e ripristinare un “vero” sistema Schengen, esclusivo e selettivo.

La realtà però è ben diversa: lo stesso governo ungherese ha liberato trafficanti di esseri umani prima che scontassero la loro pena. Non ha esitato a lasciarli andare, gettando benzina sul fuoco della crisi migratoria. Von der Leyen ha colto al volo l’occasione, pungendo senza remore: “Questo non significa proteggere l’Unione, significa buttare i problemi verso i vicini”.

Lo scontro si infiamma: von der Leyen abbandona la diplomazia

Le tensioni si sono elevate ancora quando la presidente della Commissione ha ricordato che l’Ungheria, sotto la guida di Orbán, si sta allontanando dal Mercato Unico. “Come può un governo attrarre investimenti europei se impone restrizioni e colpisce arbitrariamente le imprese?”, ha domandato von der Leyen, lasciando Orbán senza replica. E non è finita qui: la presidente ha rimarcato come il Pil pro capite dell’Ungheria sia stato superato da quello dei suoi vicini dell’Europa centrale. Un chiaro affondo sul fallimento economico di un regime che si è presentato come il salvatore della nazione e del continente.

La reazione di Orbán e il cambio di equilibri nell’Ue

Ma se l’affondo di von der Leyen è stato la scossa, la reazione di Orbán non si è fatta attendere. Forte del sostegno (quasi incondizionato) del suo gruppo, ha ribadito che la presidenza ungherese del Consiglio Ue sarà il catalizzatore del cambiamento. Un cambiamento che, a suo dire, deve coinvolgere tutti i membri e riportare l’Unione a un passato (forse mai esistito) di sovranità nazionale e di rigida chiusura contro l’immigrazione.

In questo gioco delle parti, c’è stato un elemento che ha cambiato l’equilibrio. Manfred Weber, leader del Ppe, si è presentato al fianco di Peter Magyar, leader dell’opposizione ungherese, definendolo “la vera voce dell’Ungheria”. “Orbán è il passato, Magyar lo batterà”, ha dichiarato Weber, segnando un punto di rottura tra il Ppe e il Fidesz. E quando un leader come Weber arriva a fare un passo così netto, qualcosa sta davvero cambiando.

Ungheria nel mirino: finito il tempo del “laisser faire”

Sarà sufficiente? Difficile dirlo. L’Unione europea, in tutte le sue ramificazioni, ha tollerato troppo e troppo a lungo. Orbán non si è fatto scrupoli a proseguire sulla sua linea, consapevole che i richiami della Commissione spesso si traducono in poco più che dichiarazioni di principio.

Ma se la presidente della Commissione ha scelto questo momento per alzare il tiro è perché ha intuito che il tempo del “laisser-faire” è scaduto. Anche se le parole di oggi rischiano di rimanere un fuoco di paglia in questa partita Bruxelles non può permettersi di tornare indietro.

Tridico (M5S): “Da Orbán, propaganda e zero soluzioni”

Il capo delegazione a Bruxelles del M5s Pasquale Tridico spiega che “la propaganda di Orban è ormai un disco rotto”. L’eurodeputato sottolinea come Orbàn “nel suo intervento al Parlamento europeo non ha avanzato proposte, soluzioni o ricette per portare fuori l’Unione europea dal pantano in cui attualmente galleggia, incapace di imporre la pace in Ucraina e Medio Oriente, sottomessa ai giganti USA e Cina e ai loro potentati economici, miope davanti all’esigenza impellente di nuovi strumenti per combattere la stagnazione, le diseguaglianze, i tagli a sanità e istruzione”. Sulla stessa linea Nicola Zingaretti, capo delegazione eurodeputati Pd, secondo cui “Orban a Bruxelles conferma una cosa: il populismo ha slogan non soluzioni. Non ha una idea di Europa, la vuole solo distruggere”.

Insomma, è l’inizio di una guerra dialettica e politica in cui l’Unione, per una volta, sembra aver deciso di non fare più sconti a chi la tradisce dall’interno. Ma la domanda che resta è: Bruxelles avrà davvero il coraggio di spingersi fino in fondo?

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Il ministro tutto patina e distintivo

«Con la quarta rivoluzione epocale della storia delineante un’ontologia intonata alla rivoluzione permanente dell’infosfera globale, il rischio che si corre è duplice e speculare». E poi: «l’entusiasmo passivo, che rimuove i pericoli della iper-tecnologizzazione e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa, impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro intese come una minaccia». 

C’è da sperare che il testo con cui si è presentato il neo ministro alla Cultura Alessandro Giuli sia stato scritto da un suo fidato e scarso collaboratore. Avremmo almeno una spiegazione sul suo incespicare in un discorso che avrebbe voluto essere un manifesto culturale e invece si incaglia nel genere delle supercazzole. Il ministro avrebbe potuto, almeno, ripeterlo un paio di volte davanti a uno specchio nella sua camerata. Si sarebbe accorto dell’effetto tragico che fa l’ampollosità quando viene sfoderata per fingere di sapere. Si sarebbe accorto, forse, anche della citazione sbagliata su Hegel. 

Al di là del niente mischiato con il niente però Giuli ci fa sapere di essere perfettamente in linea con la premier nel neocolonialismo del cosiddetto Piano Mattei («mettere a disposizione dei Paesi africani le nostre capacità») e nel panpenalismo del Decreto Caivano («interessarsi delle periferie senza considerarle tali», dice). 

Il ministro tutto patina e distintivo è pronto per iniziare.

Buon mercoledì. 

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Il massacro dimenticato, a Gaza uccisi 167 cronisti

Eccoci qua, primo anniversario del 7 ottobre. Tutti a commemorare, piangere, gridare. Ma c’è un massacro di cui nessuno parla. Un massacro che continua, giorno dopo giorno. Silenzioso, metodico, spietato. Il “giornalisticidio” palestinese. Dietro alla parola ci sono 167 cadaveri. Giornalisti. Ammazzati come mosche da chi evidentemente ha qualcosa da nascondere. E non parliamo di “effetti collaterali della guerra”. No, qui si tratta di esecuzioni mirate. Articolo 21 ce lo racconta nero su bianco: 167 cronisti uccisi, 62 arrestati, 88 uffici distrutti. La più grande mattanza di giornalisti della storia. Sono palestinesi che cercavano di fare il loro lavoro. Li ammazzano a tavola, nel letto. Insieme alle loro famiglie. Perché evidentemente un giornalista è pericoloso pure quando dorme. E il giubbotto con su scritto “Press”? Un bersaglio, ecco cos’è diventato.

L’Occidente tace. I paladini della libertà di stampa si sono presi una vacanza. E intanto a Gaza si continua a morire. Di bombe, di fame, di sete. Ma guai a raccontarlo. Chi prova a farlo finisce sei piedi sotto terra o in galera. Perché la verità, si sa, è la prima vittima della guerra. Il Sindacato dei giornalisti palestinesi grida al mondo: “Fermate questo massacro!”. Ma il mondo ha le cuffie alle orecchie. Non sente, non vede, non parla. Così, mentre celebravamo il 7 ottobre, c’è chi festeggiava un anno di censura perfetta. Un anno di bugie non smentite, di crimini non documentati. Un anno di “giornalisticidio”. Ecco, la prossima volta che sentite parlare di libertà di stampa, ricordatevi di loro. Di quei 167 colleghi ammazzati per aver fatto il loro mestiere. Di quei 62 che marciscono in galera. Degli 88 uffici rasi al suolo.

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Migranti, schiaffo dei giudici Ue ai Paesi membri. Le donne afghane sono perseguitate, il diritto d’asilo è automatico

In una sentenza che potrebbe ridisegnare il panorama del diritto d’asilo in Europa, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha emesso il 4 ottobre 2024 una decisione cruciale riguardante lo status di rifugiate delle donne afgane. Il caso, che ha attirato l’attenzione internazionale, riguarda due donne afgane a cui l’Austria aveva negato lo status di rifugiate, concedendo loro solo la protezione sussidiaria.

La vicenda ha le sue radici nel rifiuto delle autorità austriache di riconoscere la gravità della situazione delle donne in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021. Nonostante le evidenti restrizioni imposte alle donne dal regime, l’Austria aveva sostenuto che le richiedenti asilo non fossero esposte a un rischio “effettivo e specifico” di persecuzione. 

La svolta: essere donna afgana è già persecuzione

La sentenza della Corte getta nuova luce sulla definizione di “persecuzione” ai sensi della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, particolarmente nel contesto afgano. Secondo la Corte, la somma delle misure discriminatorie adottate dai talebani contro le donne costituisce di per sé un atto di persecuzione. Queste misure, che la Corte ha dettagliatamente esaminato, vanno dalla privazione di protezione giuridica contro la violenza di genere e domestica, all’obbligo di coprirsi completamente, passando per le severe limitazioni all’accesso all’istruzione, al lavoro e alla partecipazione politica.

La Corte ha sottolineato come queste restrizioni, nel loro insieme, violino la dignità umana garantita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. È significativo notare come la sentenza stabilisca che non è necessario dimostrare un rischio individuale e specifico di persecuzione per le donne afgane. Il solo fatto di essere donna e afgana, nelle attuali condizioni del paese, è considerato sufficiente per presumere un rischio di persecuzione.

La decisione non è arrivata nel vuoto. La Corte ha basato il suo giudizio anche su rapporti autorevoli dell’Agenzia dell’Unione Europea per l’Asilo e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Questi organismi avevano già evidenziato il timore fondato di persecuzione per le donne e le ragazze afgane, suggerendo una presunzione di riconoscimento dello status di rifugiate.

La sentenza fa riferimento anche a importanti trattati internazionali come la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna e la Convenzione di Istanbul. Questi documenti sottolineano l’importanza della parità di genere e il diritto delle donne alla protezione contro ogni forma di violenza, principi che la Corte ha ritenuto fondamentali nella sua decisione.

Oltre l’Austria: le implicazioni per l’Europa

Ovviamente le implicazioni di questa sentenza vanno ben oltre i confini austriaci.  Si stabilisce un precedente significativo per l’interpretazione di cosa costituisca persecuzione nel contesto dei diritti delle donne, soprattutto in paesi dove le libertà fondamentali sono sistematicamente negate. Potrebbe portare a una revisione delle politiche di asilo in vari paesi europei, in particolare per quanto riguarda le donne provenienti da contesti dove i loro diritti sono gravemente violati.

Resta ora da vedere come l’Austria e altri Stati membri dell’Ue adatteranno le loro procedure di asilo alla luce di questa decisione. Ancora una volta il diritto pone una sfida significativa alle politiche di asilo restrittive, sottolineando la necessità di un approccio più sensibile alle questioni di genere nella valutazione delle richieste di asilo.

Non si  tratta quindi solo di una vittoria legale per le donne afgane ma un monito per tutti gli Stati membri sull’importanza di riconoscere e proteggere i diritti delle donne nel contesto del diritto d’asilo. Chissà se l’Europa che si fregia di essere patria del diritto riconoscerà il dovere di rispettarlo. 

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La Corte Ue salva la canapa (e la Cannabis Light) e manda in… fumo i piani del governo

Ancora una volta l’Europa smentisce l’Italia. La recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla coltivazione della canapa ha messo in luce un divario sempre più ampio tra le visioni progressiste di Bruxelles e l’approccio restrittivo del Belpaese.

L’Europa apre, l’Italia chiude: il paradosso della canapa

La Corte di Lussemburgo ha decretato che gli Stati membri non possono vietare la coltivazione della canapa in sistemi idroponici in ambienti chiusi, a patto che il contenuto di THC non superi lo 0,2%. Una decisione che suona come una fanfara per gli agricoltori europei ma che in Italia riecheggia come un campanello d’allarme per un governo che sembra voler tornare all’epoca del proibizionismo.

Mentre l’Ue apre le porte a nuove tecniche di coltivazione, riconoscendo i benefici dell’agricoltura idroponica per la Politica Agricola Comune (PAC), l’Italia si barrica dietro il Ddl sicurezza del governo Meloni, che ha dato uno stop alla cannabis light. Un passo indietro che fa stridere i denti non solo agli imprenditori del settore ma anche a chi crede in un’Europa unita e progressista.

La sentenza della CGUE è chiara come l’acqua di un sistema idroponico ben funzionante: la coltivazione indoor della canapa è possibile, anzi, auspicabile. Si parla di incremento della produttività, progresso tecnico, migliore impiego dei fattori di produzione. Concetti che sembrano essere incomprensibili dalla parti di Palazzo Chigi. 

Canapa, voci dal settore: un grido inascoltato per il progresso

Mattia Cusani, Presidente dell’Associazione Nazionale Canapa Sativa Italia, non usa mezzi termini: “Questa sentenza rafforza la necessità di basare le politiche nazionali su dati scientifici e sul rispetto delle normative europee”. Un invito al governo italiano a riconsiderare le misure proposte nell’Articolo 18, per evitare di danneggiare un settore che offre lavoro a circa 15 mila persone e genera un fatturato annuo di 500 milioni di euro. Numeri che, evidentemente, non fanno abbastanza rumore nei corridoi del potere.

Il governo Meloni difende la sua posizione sostenendo che le limitazioni servano per evitare il commercio illegale di infiorescenze e derivati per uso ricreativo. Un argomento che suona come una scusa mal congegnata, soprattutto alla luce della sentenza europea che sottolinea come l’unica limitazione possibile sia quella basata sull’evidenza empirica di rischi per la salute pubblica.

Le associazioni di filiera invocano una riconsiderazione dell’articolo 18 del Ddl sicurezza, chiedendo una regolamentazione basata su evidenze scientifiche e lo sviluppo sostenibile del settore. Ma le loro voci sembrano perdersi nel vuoto di una politica sorda alle istanze di modernità e progresso.

Dalla Corte Ue un segnale chiaro

La sentenza della CGUE è un monito chiaro: non sarà più possibile limitare il commercio e la coltivazione di canapa sativa L in modo arbitrario, ma solo se effettivamente sussistono rischi per la salute pubblica. Un principio che dovrebbe essere ovvio in uno stato di diritto, ma che in Italia sembra essere considerato come una provocazione.

Il contrasto tra l’approccio europeo e quello italiano sulla questione della canapa è emblematico di una divergenza più ampia. Da un lato, un’Unione europea che cerca di bilanciare innovazione, sviluppo economico e tutela della salute pubblica. Dall’altro, un’Italia che sembra voler rimanere aggrappata a vecchi pregiudizi e paure infondate.

La domanda che sorge spontanea è: quanto ancora potrà l’Italia permettersi di andare controcorrente rispetto alle direttive europee? La canapa appare essere solo la punta dell’iceberg di un disallineamento più profondo tra le politiche nazionali e quelle comunitarie. La strategia di Meloni di voler pesare in Europa facendo la sovranista in Italia è uno sgretolamento continuo a suon di sentenze. 

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Carceri, dall’Onu una doccia fredda per l’Italia: razzismo endemico dietro le sbarre

Un nuovo rapporto dell’Onu conferma le discriminazioni nel sistema carcerario italiano, evidenziando una realtà che molti fingono di ignorare: il persistente razzismo sistemico contro gli africani e le persone di origine africana. Il documento, presentato al Consiglio per i diritti umani a Ginevra, è il risultato di un’indagine condotta da tre esperti indipendenti che hanno visitato l’Italia tra il 2 e il 10 maggio, toccando le città di Roma, Milano, Catania e Napoli.

Il quadro che emerge è tutt’altro che lusinghiero per il nostro Paese. Nonostante l’esistenza di un contesto normativo che sulla carta prevede protezioni contro la discriminazione razziale la realtà dietro le sbarre racconta una storia diversa. Gli esperti dell’Onu hanno rilevato abusi delle forze dell’ordine contro gli africani e le persone di discendenza africana, frutto di un razzismo radicato e sistemico che permea non solo le carceri, ma l’intero sistema di giustizia penale.

Il volto oscuro della giustizia: discriminazione, razzismo e abusi dietro le sbarre

Il rapporto dice testualmente: “In Italia persiste in maniera significativa il razzismo sistemico contro gli africani e le persone di origine africana da parte della polizia e dei sistemi di giustizia penale”. Il “razzismo sistemico” si manifesta in molteplici forme: dalla profilazione razziale nelle forze dell’ordine, alla difficoltà per le donne di origine africana di ottenere aiuto e protezione, fino alla separazione delle donne migranti dal resto della famiglia. Un aspetto particolarmente allarmante è la mancanza di dati disaggregati su base etnica che impedisce di valutare appieno il livello di discriminazione e di sviluppare politiche adeguate per contrastarla.

Il rapporto non si limita a denunciare, ma punta il dito anche sulle condizioni di detenzione. Nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR), come quello di Milano, sono stati segnalati maltrattamenti allarmanti: “Privazione di cibo e acqua per lunghi periodi, oltre a preoccupazioni per la qualità del cibo”. A Roma, nel CPR di Ponte Galeria, gli esperti hanno notato una “visibile angoscia nei detenuti maschi”, sintomo di un sistema che sembra aver perso di vista il concetto di dignità umana.

Ma il problema non si limita ai CPR. Il rapporto cita casi eclatanti come quello di Santa Maria Capua Vetere, dove “105 agenti di polizia e funzionari del carcere sono imputati per presunte torture e altri abusi, tra cui la morte di un detenuto algerino nel 2020”. Non mancano menzioni ad altri episodi simili in diversi penitenziari italiani, da San Gimignano a Reggio Emilia, fino all’IPM “Cesare Beccaria” di Milano.

Particolarmente critica appare la situazione dei minori stranieri non accompagnati, vittime di “pratiche illegali di detenzione e refoulement che violano i loro diritti umani”. A Milano, molti di questi minori finiscono per strada, in condizioni di povertà estrema e facile preda di dinamiche di sfruttamento.

Il rapporto non risparmia critiche nemmeno al recente decreto Caivano, esprimendo preoccupazione per gli effetti negativi che potrebbe avere sui minori in conflitto con la legge, in particolare quelli di origine africana. Il timore è che queste misure possano “contribuire alla discriminazione e alla marginalizzazione sociale dei minori stranieri, favorendo l’applicazione di misure più restrittive rispetto ai loro coetanei italiani, senza considerare adeguatamente il principio del miglior interesse del minore”.

Verso il cambiamento: le raccomandazioni dell’Onu per un sistema più equo

Di fronte a queste accuse, cosa può e deve fare l’Italia Il rapporto suggerisce diverse strade: dalla raccolta sistematica di dati disaggregati per comprendere meglio l’impatto della discriminazione, all’adozione di un approccio basato sui diritti umani nell’attività di polizia. Si raccomanda inoltre la creazione di un organo di controllo indipendente per indagare sulle denunce contro le forze dell’ordine e l’adozione di misure concrete per combattere il razzismo sistemico.

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Berlusconi santo subito? La verità affoga nel Mediterraneo

Il corrispondente di Radio radicale Sergio Scandura ha il brutto vizio di avere la memoria lunga. Abituato a tenere gli occhi fissi sul Mediterraneo che in molti vorrebbero sguarnito ieri ha piantato un chiodo nella memoria dell’aberrante percorso che ci ha portato al processo Open arms contro Matteo Salvini, a Cutro e alle nefandezze giuridiche di questo governo. 

Lo spunto è la doppia manovra di Forza Italia che punta a ripassare il fondotinta liberale sul partito e contemporaneamente a santificare (per assolvere) la figura del suo fondatore Silvio Berlusconi. “Berlusconi non avrebbe commesso una brutalità” come quella di Salvini con Open Arms, ha detto in un’intervista a La Stampa Francesca Pascale.

E invece è falso. Nel 2009, ricorda Scandura, Berlusconi fu precursore dei respingimenti illegali consegnando con navi italiane 200 naufraghi tra le fauci del colonnello Gheddafi. Fu una delle nove operazioni di restituzione all’inferno che condannarono l’Italia come fiancheggiatrice degli orrori libici.

Furono senza dubbio i prodromi dei sanguinari accordi con la Libia del ministro Minniti e poi a scendere fino al sabotaggio dei salvataggi in mare. La greve situazione attuali ha molti padri e converrebbe ricordarseli tutti. C’è quel Luigi Di Maio che oggi annuncia il suo possibile ritorno in politica, colui che nel 2017 parlò di “taxi del mare”. Ci sono ministri e governi di ogni colore. Piantedosi è solo il risultato di una lunga e dolorosa involuzione politica a cui hanno partecipato diversi attori, incluso “l’amante delle libertà” Silvio Berlusconi. 

Buon martedì. 

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