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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

L’allarme del numero uno dei pediatri? Una bufala. Guarda un po’.

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Ne scrive Adriano su Fanpage:

«Insomma, messa in questi termini, la cosa sembra avere una certa rilevanza, soprattutto se contestualizzata alla discussione al Senato del ddl Cirinnà che, appunto, prevede la stepchild adoption. Il punto è che, ancora una volta, siamo di fronte a un diversivo, all’ennesima manovrina tattica per inquinare il dibattito in corso sulle unioni civili. E che ciò sia stato fatto strumentalizzando l’opinione di un pediatra, appare chiaro anche allo stesso Corsello, che in una intervista a Repubblica ha ridimensionato la portata del suo intervento:

Il mio voleva essere un contributo positivo al dibattito, non una presa di posizione pro o contro la stepchild adoption. Era solo per dire che la priorità è la salute psicologica del bambino e la legge deve considerare prima di tutto questo. Non è la stessa cosa avere due genitori eterosessuali o omosessuali e questa diversità il bambino la percepisce, o meglio la potrebbe percepire, quando si relaziona coi suoi coetanei. […] Ci tengo però a chiarire che non è sempre così, non è una posizione ideologica. È una sollecitazione a chi fa le leggi a tenere conto di ogni singola situazione

Insomma, un invito alla prudenza, peraltro da parte di uno studioso da sempre vicino al mondo “cattolico” (non che questa sia una pregiudiziale, sia chiaro). Però, ci sono davvero molte cose che non quadrano, a partire da un dato di fatto: “l’allarme” del numero uno dei pediatri è del 27 gennaio scorso, il giorno prima cioè che cominciasse la discussione parlamentare del ddl Cirinnà. Come mai sia stato ripescato dai bassifondi del web non è proprio chiarissimo (o meglio, lo è, ma per oggi abbiamo esaurito il bonus retropensieri). Come mai sia diventato solo ora il cavallo di battaglia del fronte del no alle unioni civili è un altro mistero».

Non fatevi intossicare dalla banalità del male

tossico

Un appello da studiare, stampare e appendere ai muri. Dappertutto:

Siamo un gruppo di studiosi e docenti universitari di storia, letteratura e cultura dei paesi arabi, africani e islamici, e scriviamo dopo la pubblicazione di alcuni articoli sulla stampa italiana a seguito dei fatti di Colonia. Da essi è scaturito un dibattito pubblico superficiale, incentrato sulla paura dell’Islam, dell’immigrato, dell’arabo; focalizzato, in senso lato, sulla costruzione dell’arabo-musulmano come “altro” e, in quanto tale, “pericoloso”.

Si tratta di un discorso che, come insegna uno dei testi fondanti degli studi post-coloniali (Edward Said, Orientalismo), ha radici storiche profonde, riproponendosi con recrudescenza in ogni momento di crisi.

Riteniamo importante prendere posizione contro la stampa generalista che fa della banalizzazione e della schematizzazione, antitesi di ogni forma di analisi complessa e articolata, il mezzo di un progetto di disinformazione di massa quantomeno preterintenzionale.

In particolare ci ha colpito, il 10 Gennaio scorso, l’editoriale intitolato “Da dove viene il branco di Colonia” di Maurizio Molinari, già corrispondente da Gerusalemme per La Stampa e suo neo-direttore, oltre che autore del controverso instant book Il Califfato del Terrore Varie critiche sono state subito mosse al testo, un vero e proprio pamphlet. Ad esempio, il collettivo di scrittori WuMing osserva come “nel generale squallore e servilismo”, sia tuttavia “importante segnalare passaggi di fase, salti di qualità, ulteriori salti in basso e spostamenti a destra”[1].

Concordiamo sul fatto che questo articolo sia un punto di non ritorno dell’informazione di bassa qualità che da anni sedicenti “specialisti” offrono al pubblico italiano.

Ci pare che esso condensi in maniera esemplare una serie di strategie di riduzione del pensiero, di cui riteniamo gravi le ripercussioni sulla formazione dell’opinione pubblica. Nel suo articolo, in un crescendo di affermazioni a dir poco peregrine, Molinari inventa una vera e propria “genealogia della barbarie” araba, che sarebbe, a suo dire, basata sull’ “ancestrale” e “atavico” elemento tribale.

Egli individua nel cosiddetto “senso di appartenenza tribale” la causa degli atti violenti contro le donne a Colonia. Tale sentimento (che Ibn Khaldūn, uno dei precursori della sociologia moderna nel XIV secolo, denomina asabiyyah), sarebbe stato temporaneamente “domato” dalle forme di controllo sociale esercitate dagli stati-nazione mediorientali, e sarebbe ora rinascente in seguito alla parziale disgregazione dei poteri statuali dell’area dopo le rivolte del 2011.

L’editoriale-pamphlet si distingue per i toni caricaturali, per la totale a-storicità della sua fantasiosa teoria, per il disprezzo del più basilare fact-checking, anche in relazione ai fatti di cronaca dei quali pretende di fornire un’interpretazione storica e socio-antropologica.

A fronte di questo pericoloso riduzionismo, crediamo necessario introdurre una riflessione più ampia sul significato e sugli obiettivi del tipo di narrazione mediatica proposta non solo da Molinari, ma da molti giornalisti e intellettuali italiani.

Nel testo succitato, l’autore ribadisce come le violenze sessiste di Colonia siano state causate dal riattivarsi “dell’atavico tribalismo arabo”. I problemi di questa interpretazione sono fondamentalmente due: da un lato si presuppone un “eccezionalismo arabo” che non è fondato su alcun dato empirico; dall’altro emerge una totale ignoranza delle dinamiche storiche di sviluppo sociale e politico dei mondi mediorientale e africano moderni e contemporanei.

Indubbiamente il lealismo tribale è un fenomeno sociale esistente nelle aree geografiche in cui si sono sviluppate la civiltà arabo-islamiche. D’altra parte, esso ha caratterizzato l’organizzazione dei gruppi umani in altre aree del globo le cui società tradizionali erano di tipo segmentario e basate sul concetto di parentela, così come avveniva in Europa perfino all’interno degli imperi plurinazionali ben oltre il tardo Medioevo.

Il tribalismo, quindi, non è ascrivibile specificamente al contesto semitico (pensiamo ad esempio ai clan celtici, alle gentes romane originarie, ai Baschi, alle popolazioni migranti dall’Asia centrale durante il III e IV sec. d.C….) così come pretende una cattiva divulgazione di una certa antropologia de-storificante o pseudo-folklorica intrisa di imperialismo coloniale – dalle cui scorie sarebbe necessario affrancare il discorso pubblico italiano e europeo.  Allo stesso modo, usanze come la razzia o la vendetta sono correlate con l’economia politica di società – per lo più nomadi – con una precaria disponibilità di risorse alimentari e non, come sembra ribadire il direttore della Stampa, con una supposta inferiorità culturale .

Altri usi o istituzioni citati dal giornalista, sempre a dimostrazione della primordialità, dell’atavismo e della “genetica” incompatibilità tra cultura araba e cultura occidentale, non sono esclusivi delle popolazioni arabo-musulmane (pensiamo all’uso del velo nell’antica Grecia, o a Bisanzio) e vanno invece visti come indicatori di una fase storica associabile alla sedentarizzazione e alla crescente stratificazione sociale ed economico-politica. Tali processi non avvennero certo nel deserto – che fa invece da sfondo a tutta la narrativa di Molinari – ma in ambito urbano.

L’uso del velo – indicato nel testo pretestuosamente come chador, un tipo di velo specificamente iraniano che poco ha in comune con il “branco” stigmatizzato in quanto proveniente dal Medio Oriente arabo e dal Nord Africa – o l’istituzione dell’harem, sono costruzioni sociali che vanno contestualizzate nel tempo e nello spazio, e che con alcune varianti, sono comuni a tutte le forme di patriarcato.

Nello stesso ordine di riflessioni, la questione di genere nei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa (generalmente indicati dall’acronimo MENA – Middle East and North Africa region), rappresenta un nodo molto complesso intorno al quale si articola l’evoluzione ugualitaria della società, ma è molto rischioso trattare tale argomento in modo culturalista.

Se è vero che la sessualità è un tabù in molti contesti pubblici (così come avviene, d’altronde, anche nei paesi di tradizione cattolica), affermare che i diritti delle donne nella regione MENA siano minacciati dall’Islam, inteso come entità astorica e misogina in sé, è fuorviante, perché in tal modo si trascura sia l’uso patriarcale dell’Islam a scapito di popolazioni in buona parte analfabete e in condizioni socioeconomiche precarie, sia il ruolo di primo piano svolto dalle donne nelle lotte di liberazione contro l’oppressione coloniale, sia gli sforzi di una parte delle società di quei paesi che attualmente combatte per l’affermazione e il rispetto dei diritti delle donne.

Movimenti femministi, intellettuali, accademici e militanti, di ispirazione religiosa e laica, denunciano da decenni, in varie forme, le discriminazioni di genere; chiedono riforme ai governi, sono promotori di progetti di sensibilizzazione ai diritti umani all’interno delle loro stesse società, propongono reinterpretazioni coraggiose delle Sure del Corano. Quale spazio viene concesso a questi attori sociali sui nostri media? Molto poco.

Esaminare la questione di genere nelle società a maggioranza islamica in modo culturalista significa trascurare i molteplici fattori che determinano la discriminazione e ignorare gli sforzi della società civile in favore dell’uguaglianza.

In una fase così delicata del multiculturalismo europeo e del più ampio contesto geopolitico, una simile analisi è funzionale a una rappresentazione razzista ed eurocentrica dell’Islam e delle culture arabe e dei molteplici mondi “altri” dai quali provengono gli attuali flussi migratori che si cerca di stigmatizzare in massa.

Ci appare pericoloso e irresponsabile, da parte di chi è consapevole di avere una considerevole capacità di influenzare l’opinione pubblica, diffondere rappresentazioni come quelle qui descritte, che contribuiscono non solo alla cattiva informazione, ma spesso alla determinazione degli indirizzi politici e strategici dei governi italiani.

Gran parte della stampa odierna sembra completamente ignorare che gli stati arabi moderni non sono nati attraverso il “magico” contatto con l’Occidente per mezzo di  figure come quella, ridicolamente idolatrata, di Thomas Edward Lawrence, ma da processi di cooptazione dell’autorità locale assai complessi, funzionali a specifiche pratiche amministrative proprie delle potenze coloniali (la cantonalizzazione, il mantenimento di sistemi legali multipli, nazionale e consuetudinario nelle aree tribali, per fare due semplici esempi).

La storia del Medio Oriente e dell’Africa contemporanei non è basata sulla contrapposizione di paradigmi assoluti: tradizione vs/modernità  tribù vs/ Stato.

In quelle regioni, come ovunque, la storia politica e sociale risponde ad un plasmarsi e riplasmarsi di valori simbolici e pratiche di potere, in processi indotti o maturati dall’interno, frutto di dinamiche alle quali non è estraneo il colonialismo europeo – colonialismo che ha spesso impedito l’emergere di strutture di potere alternative a quelle indotte dalle amministrazioni europee. In Africa e in Medio Oriente, cosi come ovunque nel mondo, tradizione e modernità non si configurano come opposti inconciliabili: segmenti di continuità tradizionale si alternano a fratture, in una dialettica che caratterizza tutti i processi culturali.

Tristemente, ci sembra che gli unici soggetti che appaiono impermeabili a queste dinamiche, replicando stereotipi risalenti almeno a duecento anni fa, rimangano i giornalisti e gli intellettuali mainstream, forse più attenti a costruire narrazioni avallanti pratiche securitarie e neoliberiste, che non a spiegare i processi politici in corso.

In effetti, è intellettualmente meno impegnativo accontentarsi di paradigmi interpretativi che imbrigliano la complessità entro categorie fisse e contrapposte, che cercare di restituire le intersezioni della mutevole e molteplice natura dei fenomeni sociali.

Non sono le analisi, giocate su dicotomie e logiche binarie, diffusissime sui maggiori mezzi d’informazione, che offriranno all’opinione pubblica gli strumenti necessari per comprendere il presente.

Al contrario, ora più che mai, familiarizzare con l’idea di complessità e interdipendenza è imprescindibile per evitare logiche di scontro e demonizzazione di differenze reali, e più ancora, immaginate.

Come cittadini e cittadine che da anni si dedicano allo studio del mondo arabo-islamico e delle società a maggioranza musulmana, animati da un forte senso di responsabilità civica, siamo pronti a dare il nostro contributo per svolgere un’azione di divulgazione che consideriamo essenziale nella presente congiuntura storica.

Tuttavia, notiamo con sgomento e con crescente sdegno il proliferare di un giornalismo insinuante e sciatto che strizza l’occhio al sensazionalismo e alla spettacolarizzazione, che parla di alterità culturale e complesse dinamiche storiche, sociali e politiche con disarmante banalità e ignoranza niente affatto ingenua.

Con uguale preoccupazione osserviamo che, da un lato, questo tipo di giornalismo evita sistematicamente di porre questioni critiche ai nostri governanti sulle loro responsabilità in materia di politica estera e migrazione; dall’altro, l’irresponsabilità dei nostri governanti li spinge ad attingere al giornalismo più approssimativo con l’intenzione di illustrare la complessità del mondo arabo-islamico. 

Peraltro, le nuove sfide politiche e sociali che i grandi flussi migratori ci presentano attualmente vengono raramente discusse in relazione al modo in cui le società mediorientali, africane e l’islam sono raccontate e rappresentate.

Troppo spesso tale crisi dell’informazione in Italia e altrove viene giustificata dalle leggi di un mercato in continuo cambiamento, che esige puntualità e celerità della notizia, nonché la sua spettacolarizzazione.

Se la tirannia di una notizia veloce, semplice, e capace di destare interesse pubblico porta al tramonto di analisi capaci di informare in primis, invochiamo un maggior coinvolgimento degli studiosi di queste aree nel processo di creazione dell’informazione, facendo ben attenzione a distinguere tra chi si dice “specialista” senza minimamente entrare in contatto con le società delle quali propone analisi generaliste e sommarie, e chi invece interroga queste società quanto la propria, producendo quello che in gergo si chiama un “sapere condiviso”.

Per aderire all’appello:informabene2016@libero.it

[1] Si veda anche la recensione di tutti gli editoriali comparsi sul tema realizzata dal sito “Valigia Blu”.

Primi firmatari:

Giuseppe Acconcia, Il Manifesto e Università di Londra

Anna Baldinetti, Prof.ssa associata in Storia dell’Africa mediterranea e del Medio Oriente, Università di Perugia

Marta Bellingreri, ricercatrice, reporter Medio Oriente

Erika Biagini, PhD student at Dublin City University, School of Law and Government, Ireland.

Francesca Biancani, Docente a contratto, Storia e Istituzioni del Medio Oriente, Università di Bologna

Sara Borrillo, Post-doc, Dip. Asia, Africa e Mediterraneo, Università L’Orientale di Napoli

Estella Carpi, Ricercatrice, Lebanon Support e New York University (Abu Dhabi)

Marina Calculli, Fulbright research fellow, Institute for Middle Eastern Studies, The G. Washington University

Clara Capelli, economista esperta di Medio Oriente e Nord Africa, Cooperation and Development Network- Pavia

Francesco Correale, CNRS – UMR 7324 CITERES, Tours

Luca D’Anna, Assistant Professor of Arabic, The University of Mississippi (Oxford)

Cecilia Dalla Negra, Giornalista, Vice-direttrice di Osservatorio Iraq – Medio Oriente e e Nord Africa 

Giulia Daniele, ricercatrice, Instituto Universitário de Lisboa (ISCTE-IUL)

Enrico De Angelis, American University in Cairo

Lorenzo Declich, Ricercatore indipendente in Islamistica e Islam contemporaneo

Sara de Simone, Dottoranda in Africanistica, Università degli Studi di Napoli L’Orientale

Rosita di Peri, Ricercatrice, Università di Torino

Anna Maria Di Tolla, Prof.ssa associata in Lingue e letterature dell’Africa e dell’Asia, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

Leila El Houssi, Prof.ssa a contratto di storia dei paesi islamici- Università di Padova

Sara Fani, post-Doc, Dep. of Cross-Cultural and Regional Studies, University of Copenhagen 

Ersilia Francesca, Prof.ssa Associata in Storia dei Paesi Islamici, Università L’Orientale di Napoli

Gennaro Gervasio, Lecturer in Middle East Politics, The British University in Egypt – Il Cairo

Elisa Giunchi, Università di Milano

Jolanda Guardi, Ricercatrice, Universitat Rovira i Virgili. 

Laura Guidi, Università di Napoli Federico II

Marco Lauri, Docente a contratto, letteratura e filologia araba, Università di Macerata. 

Pietro Longo, Ricercatore in Storia dei Paesi Islamici, Università L’Orientale di Napoli

Chiara Loschi, Dottoranda in Scienze Politiche Università degli Studi di Torino

Adelisa Malena, Università degli studi di Venezia Cà Foscari

Antonio Manieri, post-doc, Dip. Asia, Africa e Mediterraneo, Università di Napoli “L’Orientale”

Nicola Melis, Università di Cagliari

Beatrice Nicolini, Prof.ssa Associata di Storia e istituzioni dell’Africa, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Maria Elena Paniconi, Ricercatrice in Lingua e letteratura araba, Università di Macerata

Chiara Pavone, Università di Roma.

Nicola Perugini, Brown University

Daniela Pioppi, Prof.ssa associata, Storia contemporanea dei paesi arabi, Università degli studi di Napoli ‘L’Orientale’

Gabriele Proglio, Assistant Professor in Contemporary History and Postcolonial Studies, Università di Tunisi ‘El Manar’, Research Fellow, European University Institute.

Marco Reglia, Università di Treiste

Paola Rivetti, School of Law and Government, Dublin City University

Barbara Bonomi Romagnoli, giornalista freelance e ricercatrice indipendente

Marina Romano, Docente a contratto, Storia e Istituzioni del Mondo Musulmano, Università di Bologna

Monica Ruocco, Professore di Lingua e Letteratura Araba, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

Azzurra Sarnataro, Dottoranda Civil, Building and Environmental Engineering, Università La Sapienza di Roma

Simone Sibilio, Docente di letteratura araba Ca’ Foscari di Venezia, direttore master MiLCO

Maria Giovanna Stasolla, Prof.ssa Ordinaria di Storia dei Paesi Islamici, Università di Roma “Tor Vergata”

Serena Tolino, Post-doctoral fellow, Università di Zurigo

Emanuela Trevisan Semi, Università di Venezia Ca’ Foscari

Rossana Tufaro, dottoranda, Studi sull’Asia e sull’Africa, Università Cà Foscari, Venezia

Hamadi Zribi, collaboratore Tunisia in Red

#FamilyDay oltre ai numeri falsi hanno letto anche le parole (false) del rabbino (vero)

bugia

Tronfio il tipo è salito sul palco e ha annunciato di avere un messaggio da leggere da parte del rabbino capo di Roma Riccardo Segni. «La vostra manifestazione è importante. Perché serve a sottolineare che non venga “stravolto” il concetto di famiglia “già carente di certezze”. I bambini non sono animali da esperimento».

E potete immaginare gli applausi di quelli che incassano l’adesione di una personalità religiosa di tale caratura. E invece no: il rabbino smentisce categoricamente, nega di avere mai scritto quel messaggio e tantomeno di avere inviato presunte adesioni alla manifestazione.

Vorrebbero imporci la loro visione di etica e intanto sono dei perecottari mistificatori. Oltre ai numeri hanno falsificato anche le parole. Bravi. Avanti così.

La bugia dei “due milioni” non si ribatte e basta.

duemilioni

Come non essere d’accordo con Mantellini?

«Il punto – dicevo – è un altro. E cioé la complicità e la tendenza dei media a pubblicizzare le peggiori stronzate. L’assoluta incapacità di applicare quel filtro informativo che sarebbe l’unico valore aggiunto per distinguere le notizie dalla propaganda e dalle testimonianze da social network. Nè sara possibile accontentarsi della solita foglia di fico che i media valutano come idonea a parare il proprio culo. Nel caso di ieri la foglia di fico è stata la frasetta “Secondo gli organizzatori”.

Perché se “secondo gli organizzatori” ieri a Roma erano in 2 milioni anche solo riaffermare una simile sciocchezza, magari nei titoli, magari scritta in grande – costringe ad un giudizio molto critico sul giornale che l’ha ribattuta.

In un paese nel quale la maggioranza dei lettori legge solo i titoli dei siti web scritti in grande o le locandine di fronte alle edicole semivuote, accettare di occupare quello spazio di attenzione con una bugia, pur se protetta dal “sostiene Gandolfini” è un fallimento di vaste proporzioni».

Il suo post è qui.

‘Ndrangheta: Ferraro e Crea, presi.

114759202-f21ed38d-97f7-40f8-87a9-19abd8a4f42aSi nascondevano nel cuore di una delle colline che dalla Piana di Gioia Tauro si arrampicano verso l’Aspromonte, i due superlatitanti della ‘ndrangheta Giuseppe Ferraro e Giuseppe Crea, catturati questa mattina all’alba dagli uomini della Squadra Mobile di Reggio Calabria, agli ordini di Francesco Rattà, con il supporto  della prima sezione dello Sco, guidata da Andrea Grassi. Crea, reggente dell’omonimo clan, inseguito da quattro diversi mandati d’arresto per mafia e altri reati, era ricercato da oltre dieci anni. Ferraro, condannato definitivamente all’ergastolo per un duplice omicidio, ma sospettato anche di averne commissionati altri sei, sfuggiva agli investigatori da diciotto. Due personaggi pericolosi, che durante la latitanza non hanno esitato a commettere altri crimini, che hanno sempre dimostrato di avere familiarità con le armi e non hanno mai esitato ad usarle. Per questo, l’operazione predisposta oggi per catturarli, dopo oltre un anno di indagine – basata solo intercettazioni e pedinamenti –   è stata pianificata con la massima attenzione.

114759193-78018b33-d882-46f0-988f-7db16f3e23feUn manipolo di cinquanta uomini, ancor prima che l’alba spuntasse ha iniziato ad accerchiare la zona in cui i due sono stati individuati.  Progressivamente, in silenzio,  hanno iniziato a risalire il pendio, ma solo in dieci sono arrivati alle porte del bunker. Gli altri, rimasti indietro, si preparavano a coprire l’eventuale fuga del latitante. L’ufficiale medico, era con loro, pronto ad intervenire in caso di ferite da conflitto a fuoco. Poco prima dell’alba, è scattato il silenzio radio. Pochi minuti sembrati eterni a chi nelle retrovie temeva per i compagni incaricati dell’incursione. Rumori di una porta che viene sfondata, mobili rovesciati, urla. “Ce li abbiamo”, gridano dall’alto del pendio.  Crea e Ferraro sono stati sorpresi ancora nel sonno, senza dare loro il tempo di reagire e mettere mano ai due fucili a pompa con il colpo in canna, appesi accanto al letto a castello in cui dormivano.  Quando hanno aperto gli occhi, gli uomini della Mobile li avevano già accerchiati e immobilizzati. In silenzio, si sono fatti trascinare fuori e condurre alle auto, mentre nei 25 metri quadri in cui hanno trascorso la latitanza iniziava la perquisizione.

All’interno del bunker – piccolo, ma dotato anche di energia elettrica e tv – i due latitanti avevano tutto. Una cucina attrezzata, un frigorifero, una doccia con tanto di acqua calda, provviste fresche, ma anche un vero e proprio arsenale di armi lunghe e corte, fra cui un Ak-47,  pronte ad essere utilizzate. Fucili e pistole non nuovi che adesso si spera possano parlare. Gli uomini della Scientifica sono già al lavoro per cercare di comprendere se quelle armi abbiano sparato e contro chi. Ad attendere le storie che quelle armi possono raccontare è la famigli di Pasquale Inzitari, ex consigliere provinciale condannato per concorso esterno perché considerato uomo a disposizione del clan Mammoliti – Rugolo. Francesco, il figlio appena diciottenne  è stato  trucidato nel dicembre del 2009 con dieci colpi di pistola. Per gli inquirenti, forti anche delle dichiarazioni del pentito Bruzzese, Giuseppe Crea ha le mani sporche di quell’omicidio, ma le armi ritrovate nel bunker potrebbero aiutare a fare luce anche sui tanti delitti senza colpevoli che la storica faida fra i Ferraro Raccosta e i Mazzagatti-Bonarrigo ha fatto registrare.

“Oggi possiamo dire che  nel territorio in cui i due latitanti sono stati catturati sono state ripristinate le condizioni minime della democrazia, suturando la ferita che l’azione dei Crea aveva provocato non solo alla Calabria, ma a tutta la Repubblica”, ha detto soddisfatto il procuratore aggiunto Gaetano Paci, coordinatore delle indagini della procura antimafia nel tirrenico reggino. “Speriamo che questa nuova operazione, con cui abbiamo liberato il territorio da due pericolosissimi latitanti, sia un messaggio per i cittadini. Se qualcuno iniziasse a fornirci informazioni ed elementi le cose potrebbero davvero cambiare in questo territorio, ma i primi segnali li stiamo già registrando”.

(fonte)

Usa, Padova e il reato di essere povero

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Un’analisi di Elisabetta Grande:

«Induriti dai messaggi di egoismo sociale, gli americani non provano più compassione per i poveri di strada, che non riconoscono uguali a sé. Il sentimento collettivo è talmente incattivito nei confronti dei senzatetto e la paura del diverso talmente radicata nella gente, che diventa normale -come accade a Gainesville, in Florida- che gli abitanti del quartiere chiamino la polizia affinché arresti un homeless che dorme sotto il porticato del palazzo del Municipio.

Il messaggio di criminalizzazione ed esclusione sociale del povero ha però conseguenze anche più gravi, poiché crea un fertile bagno di coltura per i germi del razzismo, responsabili dei sempre più frequenti atti di inaudita e gratuita violenza nei confronti degli ultimi della scala sociale. E proprio loro, gli homeless, finiscono paradossalmente, ma secondo un ben studiato meccanismo psicologico, per interiorizzare quell’immagine di sé che proviene dalla società in cui vivono e, nel rispecchiarsi nello sguardo collettivo, si convincono di meritare le vessazioni a cui sono sottoposti.

Il “modello” di un diritto che non solo crea povertà, schierandosi a tutela di un ordine economico sempre più neo-liberista , ma addirittura si accanisce contro quegli stessi poveri che crea, costruendoli con successo come nemici sociali, pare stingere con rapidità anche da noi.

Il 29 settembre 2014, con modifiche intervenute il 23 aprile 2015, sotto la guida del sindaco Massimo Bitonci, il consiglio comunale di Padova ha deliberato un nuovo regolamento di polizia urbana, le cui analogie con le ordinanze cittadine anti-povero americane sono singolarmente evidenti.

Ecco alcuni dei comportamenti sanzionati amministrativamente (giacché in Italia, a differenza che negli USA, i consigli comunali non hanno ancora competenza penale) dal nuovo regolamento di Padova con una multa di 100 euro, che tuttavia possono arrivare anche 500, come nel caso di chi espleti le proprie attività fisiologiche nel posto sbagliato, perché quello giusto sarebbe il gabinetto di una casa che non ha. Si tratta dei divieti di sedersi o sdraiarsi per terra in luoghi diversi da parchi, giardini pubblici ed argini, e anche di sdraiarsi sulle panchine o utilizzarle in modo improprio o impedirne l’uso ad altre persone occupandole con oggetti o indumenti personali, o di rendere inaccessibili i luoghi destinati al pubblico passaggio o di ostruire le soglie degli ingressi agli edifici pubblici o privati (Art. 9.2.a); oppure della proibizione di soddisfare le esigenze fisiologiche fuori dai luoghi destinati allo scopo (Art. 9.2.c).

La possibilità in entrambe le tipologie di casi di sostituire la sanzione pecuniaria con il lavoro di pubblica utilità (Art. 9.5) evoca – nonostante a Padova ciò avvenga a richiesta del trasgressore – momenti bui, come quelli della Washington D.C. del 1812. Una norma entrata in vigore quell’anno prevedeva che tutti coloro che si trovavano sull’orlo della povertà, o che non avevano una dimora fissa, pagassero una cauzione ‘di buona condotta’ volta a indennizzare la città per il sostegno offerto. Chi non poteva pagare era costretto ai lavori forzati fino a un massimo di un anno. Oggi a Padova chi non abbia altro posto dove sdraiarsi per riposare che una panchina, su cui magari poggi addirittura tutti suoi miseri averi, per farsi perdonare potrà sempre lavorare gratis effettuando “dipintura, piccole riparazioni, pulizia e manutenzione di strade, di luoghi pubblici, di aree verdi e di giardini pubblici, di aule scolastiche, di locali e di aree di proprietà o in gestione al Comune o di altri Enti” (Art. 3. 9), salvo magari poi finire a cercar riposo sulla stessa panchina e così ricominciare da capo.»

Il resto è qui.

Essere ospitali con l’Iran

Appesa semi-nuda al ponte, un grande cappio al collo e la bandiera iraniana dipinta sul petto. La protesta dell'attivista Femen Sarah Constantin contro la presenza del presidente Rouhani a Parigi non lascia spazio a dubbi. Secondo Amnesty International l'Iran è tra i paesi che ricorrono più spesso alla pena di morte, secondo nel 2014 solo alla Cina. Constantin ha chiesto al presidente Francois Hollande di affrontare il tema dei diritti umani durante l'incontro con Rouhani, e di chiedere la sospensione delle impiccagioni (soprattutto quelle effettuate per motivi politici). "Benvenuto Rouhani, boia della libertà", recita lo striscione appeso alle spalle dell'attivista.
Appesa semi-nuda al ponte, un grande cappio al collo e la bandiera iraniana dipinta sul petto. La protesta dell’attivista Femen Sarah Constantin contro la presenza del presidente Rouhani a Parigi non lascia spazio a dubbi. Secondo Amnesty International l’Iran è tra i paesi che ricorrono più spesso alla pena di morte, secondo nel 2014 solo alla Cina. Constantin ha chiesto al presidente Francois Hollande di affrontare il tema dei diritti umani durante l’incontro con Rouhani, e di chiedere la sospensione delle impiccagioni (soprattutto quelle effettuate per motivi politici). “Benvenuto Rouhani, boia della libertà”, recita lo striscione appeso alle spalle dell’attivista.

Piccole differenze. Per fortuna l’umanità è varia.