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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Tutto bello e commovente, certo. Ma Lea Garofalo non è un film.

lea_garofaloDoverosa premessa: che ci sia sempre qualcuno con la voglia, lo spirito e la bravura di Marco Tullio Giordana che anche senza guanti decide di mettere le mani in mezzo all’immondizia dove ogni tanto finiscono per indifferenza storie importanti come quella di Lea Garofalo e della sua coraggiosa figlia Denise. Portare in prima serata la storia di chi si ribella alle mafie avendole in casa è meglio di qualsiasi discorso di qualsiasi presidente della Repubblica: è l’esempio dato con le scelte della vita, con le azioni e senza curarsi della retorica e delle posture. E davvero la storia di Lea è stata anche la storia del risveglio di tanti (giovani e non, lombardi e non) che hanno imparato il dovere e la bellezza di stare vicini alle persone che non hanno paura. Se dovessimo immaginare un modello di televisione etico, ecco, ieri sera sarebbe stata una buona serata per il nostro Paese.

Però Lea Garofalo, al di là del mito e dell’agiografia, è stata una donna che ha deciso di uscire dal programma di protezione perché alla fine non ci ha creduto più ad uno Stato che avrebbe dovuto proteggerla. Anche questo è coraggio: viene un momento, per le vittime o i famigliari di vittime di mafia, in cui ci si accorge che il male e il bene non è per niente così bianco e così nero come si legge su alcuni libri e in alcuni film, ma che si muore spesso per mano di mafia e con il contesto come suo alleato migliore, come direbbe Sciascia. Lea Garofalo aveva chiesto aiuto alle istituzioni in molte delle sue componenti, dalle più alte fino agli uomini che quotidianamente ne avrebbero dovuto assicurare la protezione. E Lea Garofalo, la Lea che è stata fatta potabile da una prima serata con tutti gli onori, per quelli che avevano in mano il suo destino da nascosta e sempre in fuga Lea Garofalo era spesso descritta come tossica, poco di buono e altre velenose infamità. Inseguita dalla mafia ma calunniata dallo Stato.

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Quanto valgono i terrori del mondo

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Sul numero di LEFT in edicola sabato proviamo a capire come li armano e poi li combattono.

Io mi occupo della strana morte del signor Rossi, del Monte dei Paschi di Siena, della riapertura dell’indagine sul suo conto e di un legame che non è mai stato scritto con uno strano testimone di giustizia che forse ne sa qualcosa.

Il sommario lo trovate qui. Come sempre aspetto curioso le vostre critiche, proposte e consigli.

In centro a Milano la banca la fa la camorra

182639186-6ac49f6f-6579-448d-8160-475586f6bae4-300x225“Vieni a prenderti un caffè”. Non parlavano mai di soldi al telefono, con l’esperienza tipica dei criminali scafati e del resto Vincenzo Guida e Alberto Fiorentino sono criminali a Milano da circa quarant’anni e ormai sanno bene come non lasciare indizi in giro. Vincenzo Guida è il fratello del più famoso Nunzio che dagli anni ottanta fu il proconsole della camorra in Lombardia, alla guida di una famiglia che è riuscita negli anni a stringere accordi importanti con ‘ndrangheta e Cosa Nostra in una federazione criminale che funziona a pieno ritmo.

I due avevano organizzato una vera e propria banca in grado di prestare cifre considerevoli in brevissimo tempo (un imprenditore ha ricevuto 300.000 euro) applicando prestiti usurai e intimidendo poi le vittime con “sottili metodi di stampo camorrista”. L’operazione (denominata “Risorgimento” perché proprio in piazza Risorgimento a Milano i due avevano adibito i tavolini esterni di un bar come proprio “ufficio”) ha portato anche al fermo di altri due italiani, Giuseppe Arnhold e Filippo Magnone, con l’accusa di riciclaggio, mentre per Guida e Fiorentini rimane in piedi l’accusa di esercizio di credito abusivo aggravato dall’uso di metodi mafiosi. Le prime perquisizioni hanno trovato già tre milioni di euro in contante suddivisi in mazzette pronte per il prestito nell’abitazione di Guida. E la frase “vieni a prenderti un caffè” era la formula convenuta per fissare l’incontro.

Ma è la Boccassini a tratteggiare un pezzo di Milano collaborante piuttosto che vittima dichiarando senza mezzi termini come fossero spesso gli imprenditori a bussare alla porta dei criminali, sapendo esattamente di poter trovare una liquidità che difficilmente sarebbe stata reperibile nei canali legali. Per questo l’attività “parabancaria” in realtà presume anche l’esistenza di una classe imprenditoriale “paralegale” nella gestione dei propri interessi. “C’era gente che doveva restituire fino a 75 Mila euro al mese” ha spiegato il capo della Squadra Mobile di Milano, Alessandro Giuliano. Nessuno degli imprenditori ha denunciato. Nessuno. E anche questo è un dato da annotare per tutti quelli che ancora pensano che le “mafie” siano questioni non settentrionali.

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Finalmente, arresti tra i “Fardazza” Vitale a Partitico

0Gli uomini sono in carcere e le donne assicurano la guida e gli affari della cosca. E’ quanto accertato dalla Polizia di Stato di Palermo che ha arrestato per ricettazione in concorso, aggravata dal metodo mafioso, Maria Gallina, 59 anni, e Maria Vitale, 40 anni, rispettivamente moglie e figlia del boss Leonardo Vitale, gia’ recluso in carcere per mafia. Viene, cosi’ duramente colpita, afferma la polizia, ‘una delle cosche mafiose piu’ pericolose della provincia di Palermo’. Le indagini hanno accertato che mentre i capi del clan dei ‘Fardazza’ di Partinico erano in carcere, le donne della cosca continuavano a reggerne le sorti e gli interessi.

Il palazzo degli orrori

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A Caivano, quartiere Parco Verde, emerge un palazzo degli orrori in cui le violenze su bambini si mischiano con le loro morti mai chiarite. Un buco nero dentro la città che riesce a tessere un silenzio alto quanto un condominio. E torna subito in mente la frase sullo spaventoso “silenzio degli innocenti” che permettono o colpevolmente non si accorgono di quello che succede sullo stesso pianerottolo. Il male ha bisogno del terreno giusto dove l’indifferenza e la disattenzione sono il fertilizzante perfetto. Sarebbe bello sfrugugliare lì in mezzo.

#Mafiealtrove. Un approccio culturale.

2-e1447713698786Un bel lavoro delle parole emerse durante il convegno “Fare le mafie fuori”. Lo pubblica il lavoro culturale qui.

“Come è possibile ri-conoscere un fenomeno mutevole e fortemente ancorato alle interrelazioni con i contesti locali, qual è quello mafioso? Quali caratteristiche dei nuovi contesti possono favorire le attività dei gruppi mafiosi in territori lontani da quelli di origine? In che modo, in definitiva, è possibile individuare e contrastare le attività mafiose oggi?
Studiosi, giornalisti, politici, amministratori, esponenti della società civile e magistrati si sono confrontati su questi temi durante il convegno “Fare le Mafie Fuori”, promosso dalla Fondazione Fondo Ricerca e Talenti.
Il lavoro culturale ha seguito l’evento. Ai diversi relatori abbiamo richiesto un breve intervento sui temi discussi. Ne è venuto fuori un glossario delle parole chiave emerse a Torino, curato da Vittorio Martone e Antonio Vesco. Un autore (o un gruppo di autori) per ogni voce: forme e registri diversi per restituire sguardi autorevoli sul riconoscimento (pubblico, giuridico, scientifico) delle mafie altrove.”

Li armano e poi li combattono /11

Basta andare qui.

Sembra incredibile, ma in Italia c’è chi di giorno indossa i panni del fruttivendolo e la notte gioca a fare la guerra. Un filo rosso che parte da un paesino in provincia d’Imperia e arriva fino a dentro i palazzi di Agusta Westland – Finmeccanica. Nell’inchiesta realizzata da Sigfrido Ranucci, un trafficante d’armi svela alcuni dei meccanismi con i quali le armi arrivano nei paesi africani e in Medio Oriente. Il trafficante racconta anche dell’addestramento fatto sotto copertura nello Yemen dai militari italiani, finalizzato a preparare guerriglieri arabi da utilizzare in funzione anti Isis. Finito l’addestramento, però, nel giro di poche ore i combattenti sarebbero passati nelle fila dei terroristi. Dall’inchiesta emerge soprattutto la storia di una struttura clandestina dedita all’arruolamento di contractor e all’addestramento di milizie. Una struttura formata da un ex camionista e rappresentante di aspirapolveri, coinvolto in passato in un traffico d’armi; un fruttivendolo sospettato di essere il punto di riferimento di Michele Zagaria, il più feroce dei capi del clan dei Casalesi; un colonnello dell’aeronautica in congedo; ex membri della legione straniera ed ex carabinieri. Tutti insieme, coordinati da un ex promoter della Mediolanum, avrebbero partecipato, con vari ruoli, a un progetto di addestramento di milizie su richiesta di un somalo che ha vissuto a lungo in Italia. Ufficialmente la finalità dell’addestramento sembra essere quella di formare milizie anti pirateria da utilizzare nei mari adiacenti il corno d’Africa. Ma è così? E perché il somalo utilizza una struttura clandestina invece di quelle ufficiali per realizzare il suo progetto? Sullo sfondo emerge il sospetto e il rischio che queste milizie possano confluire nelle fila delle organizzazioni terroristiche. Dall’inchiesta emerge anche che l’ex promoter della Mediolanum cercherebbe di piazzare in paesi sotto embargo elicotteri prodotti da Finmeccanica – Agusta, su incarico di Andrea Pardi, cioè del manager della società Italiana Elicotteri che si è reso protagonista circa un mese fa dell’incredibile aggressione al nostro inviato Giorgio Mottola. Pardi, per vendere a paesi in conflitto o sotto embargo, si sarebbe fatto aiutare da politici insospettabili.

Li armano e poi li combattono /10

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Il più vicino territorio italiano (l’isola di Lampedusa) dista dalla Libia 355 km in linea d’aria (mentre dista dalla Tunisia 167 km), ma per qualcuno “l’invasione” dell’ex bel paese da parte della potente armata dell’Isis (che non dispone di un esercito regolare né tanto meno di una marina o un’aviazione da guerra) è prossima, quasi imminente, così al grido di “armiamoci e partite” c’è chi sostiene l’opportunità di un intervento armato italiano in terra libica, ex colonia tricolore un tempo governata. Ma chi ci guadagna da una guerra? Al di là dell’aspetto politico (è noto da tempo che l’Arabia Saudita da un lato, la Russia dall’altra, cercano di ottenere la supremazia nell’area medio orientale, interessi che contrastano quelli di paesi come Iran, ma anche Cina, Stati Uniti e persino Francia e Gran Bretagna) una guerra va quasi sempre a impattare sui traffici legali o illegali di armi di vario genere.

L’Isis, ad esempio, ha iniziato ad essere sotto i riflettori dei media occidentali da un paio d’anni, ossia da quando ha intensificato la sua lotta in Siria e in Iraq contro il regime del presidente sciita Bashar al Assad. Ma l’Isis è legato a Abu Musab al-Zarqawi, un combattente giordano che fonti vicine alla Cia e al partito Repubblicano Usa hanno presentato sin dal 2004 come un “lupo solitario” antagonista di Osama Bin Laden (la cui famiglia aveva fin troppo imbarazzanti relazioni d’affari con la famiglia Bush) per la guida di Al Qaida. Inizialmente descritto come “protetto” dai più alti livelli del governo iraniano al-Zarqawi è stato ucciso nel 2006 da un attacco aereo congiunto giordano-stattunitense dopo aver rischiato, secondo alcune fonti, di essere consegnato proprio dall’Iran agli Usa nell’ambito di un accordo poi sfumato e mai confermato da fonti ufficiali.

Quel che appare certo è che i suoi successori (Abu Omar al-Baghdadi prima, ucciso a sua volta nel 2010, Abu Bakr al-Baghdadi autoproclamatosi “califfo” dell’Isis ora) si trovano di fatto sul fronte opposto dei loro ex protettori, visto che l’Iran al momento schiera le proprie milizie in Iraq per combattere i guerriglieri dell’Isis, mentre l’Arabia Saudita è tra i sostenitori dell’Egitto, impegnato a sua volta come la Giordania a combattere i guerriglieri dopo le ultime uccisioni di civili e militari giordani ed egiziani. Ma oltre a chi ha fornito soldi, armi e coperture all’Isis e ai suoi leader, chi è tuttora tra i suoi sostenitori?

La verità la sanno, forse, i servizi segreti militari, ma certo se il quadro delle alleanze “politiche” è a dir poco variabile e incerto, le fonti economiche del “business” dell’Isis sembrano molto più stabili. La sola vendita di petrolio estratto da una sessantina di pozzi in precedenza sotto il controllo di Siria e Iraq avrebbe permesso lo scorso anno di incassare una cifra che Issam al-Chalabi, già ministro del Petrolio iracheno ai tempi di Saddam Hussein stimò attorno ai 150 milioni di dollari, pur trattandosi di petrolio venduto a “forte sconto” (30-40 dollari al barile quando le quotazioni ufficiali erano ancora attorno ai 100 dollari al barile).
Ai prezzi attuali è tuttavia ipotizzabile che tali ricavi si siano dimezzati o ridotti a un terzo. Ci sarebbero poi i saccheggi compiuti nei territori conquistati: l’assalto alla sola banca centrale di Mossul, città caduta in mano all’Isis nel giugno dello scorso anno, avrebbe fruttato qualcosa come 430 milioni di dollari. Cifre, va ribadito, estremamente difficili da verificare, come non è facile verificare di quali forze disponga nel concreto l’Isis. Nel giugno dello scorso anno secondo Charles Lister il totale dei miliziani era di circa 8 mila uomini mentre secondo Michael Pregent e Michael Weiss, in gran parte dotati di fucili AK-47 come armamento individuale. Sempre dopo la caduta di Mossul l’Isis avrebbe messo le mani su una trentina di carri armati M1 Abram di fabbricazione americana, più varie armi anche pesanti di fabbricazione russa.

Altre fonti hanno indicato la disponibilità di 10-20 carri armati T-54/55, 20-30T-62 e una mezza dozzina di T-72, più alcune decine di missili a medio raggio SA-6 Gainful (utilizzato come sistema antiaereo e con una gittata utile di 24 km massimi, quindi del tutto incapace di colpire obiettivi italiani anche se fosse sparato dalla punta estrema della Tunisia, oltre che dalla ben più lontana Libia). Numerosi anche i missili anticarro, i lanciarazzi (montati su Suv) i lanciagranate e una serie di obici e cannoni anticarro e antiaereo, anche di produzione cinese (ma pure statunitense come nel caso dei missili Stinger), con gettate dai 900 metri ai 27 km massimi. Non è chiaro tuttavia in che misura tale arsenale sia mantenuto in efficienza ed eventualmente da chi. Escluso che possano essere forniti aiuti militari ufficiali, rifornimenti e parti di ricambio potrebbero giungere attraverso canali illegali o comunque non ufficiali.

Da parte sua l’Italia, che dall’intervento armato in Libia voluto dalla Francia ha finora avuto più problemi che benefici, perdendo tra l’altro varie commesse che erano state concesse dal precedente regime libico a imprese italiane in particolare nel settore petrolifero e delle costruzioni e opere civili, oltre che nei trasporti e nella meccanica, con gruppi come Eni, Terna, Finmeccanica, Prysmian o Trevi che hanno visto svanire investimenti pluriennali per decine di miliardi di euro, rischia ora di subire la perdita, nel caso di totale destabilizzazione della Libia, delle forniture di gas (quello del giacimento libico di Bahr Essalam, ma anche quello tunisino di Wafa) che raggiungono il nostro paese attraverso il gasdotto Greenstream, il più grande del Mediterraneo che collega Mellitah, in Libia, con Gela, in Sicilia.

Greenstream, che ha già subito temporanee chiusure nel 2011 e nel 2013, può trasportare sino a 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno e per la sua realizzazione Eni, con la francese Total la più esposta tra le major petrolifere occidentali in Libia, ha investito 7 miliardi di euro, ossia poco meno di un anno di interscambio import-export tra Italia e Libia, interscambio che dal 2011, quando è iniziata la rivolta contro il regime di Geddafi si è sensibilmente ridotto e che gli scontri tra varie fazioni libiche, anche prima della minaccia dell’Isis, ha ulteriormente fatto calare, tanto che dai 10,942 miliardi del 2013 (pari a poco più della metà rispetto ai 20,054 miliardi segnati nel 2008), nei primi sei mesi del 2014 si erano fermati a 4,786 miliardi.

Di questi 1,732 miliardi erano rappresentati da esportazioni italiane verso la Libia e 3,054 miliardi da importazioni italiane dalla Libia. Per difendere questi interessi, vale la pena di scatenare una guerra contro un esercito fantasma, consci dei fallimenti di almeno 15 anni di politica occidentale in Medio Oriente? O non è forse meglio provare altre strade, affiancando ad una sorveglianza di tipo militare, che pure ha i suoi costi (Mare Nostrum, l’operazione di pattugliamento marittimo durata un anno, è costata 9,5 milioni al mese per complessivi 114 milioni di euro, Triton, successiva operazione tuttora in essere, costa 3,5 milioni), la cui copertura finanziaria andrebbe trovata verosimilmente con ulteriori tasse o addizionali sulle accise e che peraltro sarebbero di gran lunga inferiori a quelle di una nuova missione militare in terra straniera (per fare un esempio, quella in Afghanistan costa oltre 130 milioni di euro a trimestre, quella in Libano una quarantina, quella in Kossovo oltre 22 milioni), una maggiore cooperazione con forze locali che si oppongono all’Isis?

(fonte)

Li armano e poi li combattono /8

 di Davide Mancino per Wired)
Schermata 2015-11-16 alle 21.47.54“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controverse internazionali.” Facile a dirsi, lo prevede la Costituzione – articolo 11. Ma la realtà è molto diversa: basta guardare in Siria. Secondo i documenti ufficiali dell’Unione Europea e i dati resi disponibili dal Campaign Against Arms Trade (Caat), l’ Italia è il primo partner europeo per le spese militari del regime di Assad. Dal 2001 la Siria ha acquistato in licenza armi nel vecchio continente per 27 milioni e 700mila euro. Di questi, quasi 17 arrivano dal nostro Paese.Il Regno Unito, al secondo posto, supera appena i due milioni e mezzo; segue l’ Austria che ha fornito veicoli terrestri per altri due milioni, poi Francia Germania, e infine Grecia Repubblica Ceca, con poco più di un milione di euro. Dai dati ufficiali si scopre che Parigi e Atene hanno ceduto soprattutto aerei droni, mentre mancano all’appello armi per altri cinque milioni di euro, non dichiarate.

E l’ Italia, invece, cosa ha venduto esattamente? Non sappiamo con precisione quali armi abbiamo esportato, ma qualche indizio ci viene dalla Rete, guardando uno dei tanti video in cui si vedono carri armati siriani fare fuoco – anche sui civili. In quei fotogrammi si distingue il sistema Turms: un visore termico e laser che consente ai carri di sparare con altissima precisione anche in movimento, commercializzato da Selex Es. Ovvero un’impresa del gruppo Finmeccanica – a partecipazione pubblica – firmataria nel 1998 di una mega-commessa da 229 milioni di dollari durante i governi Prodi-D’Alema.

Equipaggiamenti che non sono stati certo fermi: nel 2003 – con Silvio Berlusconi in carica – le consegne raggiungono il loro picco, per poi proseguire fino al 2009. Nel mezzo, però, c’è l’ invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti. Proprio nel 2003, dopo un’inchiesta del Los Angelese Times, il segretario alla difesa Donald Rumsfeld accusava il regime di Assad di aver fornito armi a Saddam Hussein aggirando l’embargo militare imposto all’Iraq. Gli equipaggiamenti forniti da Damasco sarebbero visori per il puntamento notturno dei carri armati: proprio come quelli venduti dal nostro Paese.

Il dubbio, che successive indagini non hanno mai confermato né smentito, è che a beneficiare dei sistemi prodotti da Selex sia stato proprio l’ esercito iracheno. Non proprio un colpo di genio per la politica estera italiana, chiamata poco più avanti a partecipare alla stabilizzazione del Paese con un proprio contingente.

La storia continua fino ai giorni nostri, quando la guerra civile sconvolge la Siria e spinge Assad a schierare il proprio esercito. I carri armati che sparano sui ribelli – ma anche su semplici civili – hanno la mira più accurata, una precisione garantita dalla migliore tecnologia italiana.

Ma la Siria non è quasi più una nazione che possa definirsi tale: il livello del conflitto è tale che persino l’esercito non ha più il controllo delle proprie armi. Anche i ribelli sono entrati in possesso di carri armati catturati o consegnati da ufficiali disertori, in un crescendo che rende la possibilità (o la necessità) di un intervento militare straniero sempre più incerta e confusa.

Abbiamo ricostruito la storia delle vendite di armi italiane in Siria in una visualizzazione interattiva che vi proponiamo qui di seguito. Per andare avanti nella lettura basta cliccare sulla freccia a destra sulla vostra tastiera oppure a schermo. Per un risultato migliore vi consigliamo di ingrandire la finestra a schermo intero.


(Credit per la foto: LaPresse)