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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Lombardia: l’ombra della ‘ndrangheta (e una condanna) sull’ex consigliere regionale leghista. E nessuno se n’è accorto.

BS05F1_3085144F1_18493_20121214214247_HE10_20121215-042Per fortuna a Brescia ci sono i ragazzi della Rete Antimafia di Brescia. Per fortuna, davvero. Perché un ex consigliere regionale della Lega Nord, Enio Moretti, suo fratello e i fratelli Rocco e Vincenzo Natale (che compaiono in più di un documento investigativo come vicini ad ambienti ‘ndranghetisti) sono stati condannati per un sistema illegale basato sull’emissione di fatture gonfiate (milionarie) e crediti d’imposta inesistenti utilizzati da una galassia di società satellite per pagare in modo illecito i contributi dei dipendenti tramite compensazione. E però l’hanno scritto in pochi. Tranne loro. Eppure sarebbe facile chiedere all’antimafioso Maroni e all’integerrimo Salvini come mai ancora una volta la Lega si ritrova vicino alla ‘ndrangheta così lontana dalla Padania che ci raccontano.

Come scrive bene la Rete Antimafia nel suo sito:

Nel più totale silenzio da parte dei media cittadini proseguono le udienze del processo nato dall’indagine “Lupo” e che vede alla sbarra l’ex Consigliere Regionale leghista Enio Moretti, suo fratello e, fra gli altri, i fratelli calabresi Rocco e Vincenzo Natale.
Un processo che sta mettendo in luce un intricato intreccio di rapporti tra l’ esponente della Lega Nord bresciana ed i due fratelli Natale, già noti alle cronache per le loro frequentazioni nel mondo della criminalità organizzata calabrese.
Molto interessante l’udienza odierna, durante la quale abbiamo potuto ascoltare le parole del Luogotenente della compagnia di Chiari della GdF Antonio Romano, coordinatore delle indagini.
Per un approfondimento sul dibattimento vi rimandiamo alla prossima edizione del settimanale “Chiari Week” (unico organo di stampa presente oggi in Aula) in edicola venerdì, quello su cui invece vogliamo focalizzarci ora è la totale mancanza di attenzione da parte dei media bresciani.
Fa specie, molta specie, constatare come un processo che vede coimputati un esponente di livello della Lega (oltre che ex Consigliere Regionale Moretti era il segretario della sezione clarense e membro dello Staff dell’ex Senatore ed ex Sindaco di Chiari Sandro Mazzatorta) e due fratelli calabresi in odore di ndrangheta non desti interesse nelle redazioni dei quotidiani cittadini.
Non possiamo non essere critici nei confronti di un’informazione che non informa, perchè questa carenza, ormai cronica, è stata in parte responsabile dell’avvento silenzioso della criminalità organizzata sul nostro territorio.
Per combattere la mafia è necessaria una presa di coscienza da parte dei nostri concittadini, ed in questo i media hanno un ruolo fondamentale: se non funzionano loro non possiamo funzionare neanche noi.
Per questo motivo auspichiamo che il processo venga seguito con interesse ed attenzione da tutti i giornali cittadini.

Il bambino con il gelato blindato

411EUaV-LbL._SY300_La storia è uscita nei giorni scorsi, qualche quotidiano ne ha scritto ma è rimasta comunque sotto traccia. Una storia in cui la delicatezza e l’umanità ci chiedono di non fare nomi e nemmeno luoghi ma che anche scritta senza troppe indicazioni è dolorosa come una manciata di sale sul cuore: un bambino di nove anni, figlio di un magistrato antimafia, si ritrova sotto scorta insieme alla madre e alla sorella. L’obiettivo è lui: il bimbo. Il figlio maschio di un magistrato di cui (secondo le parole intercettate dal boss) “non deve rimanere nemmeno il seme”.

Provate a spiegare ad un bambino in compagnia del suo gelato blindato che la mafia non è un’emergenza prioritaria di questo Paese. Ai professionisti dell’antiantimafia consiglio di provare a convincere lui.

Sgominata la cosca Iannazzo: la ‘ndrangheta che si fa borghesia

Oltre 40 arresti e la cosca Iannazzo di Lamezia Terme è stata stroncata. Il blitz dell’operazione “Andromeda” è scattato poco prima delle 4. In manette sono finiti anche esponenti della famiglia mafiose Cannizzaro-Daponte. La squadra mobile di Catanzaro, guidata dal Rodolfo Ruperti, ha arrestato i tre boss Vincenzo Iannazzo, suo fratello Giovannino e Antonio Davoli. Assieme a loro anche i killer dell’organizzazione criminale e alcuni imprenditori tra i quali Francesco Perri, proprietario dei “Due Mari”, uno dei più grossi centri commerciali della Calabria.

Stanto alle risultanze investigative, Perri si avvaleva della cosca Iannazzo per avere dei vantaggi. In cambio, le imprese del clan hanno realizzato il centro commerciale riuscendo ad accaparrarsi anche diversi appalti. L’imprenditore avrebbe, inoltre, tentato di fare gambizzare il fratello Marcello per questioni di eredità. Nel 2003, il padre di Perri era stato ucciso all’interno di un supermercato da alcuni killer fatti venire apposta dalla Locride. Un omicidio che, all’epoca, aveva scosso Lamezia Terme anche perché la bara dell’uomo era stata rubata e restituita solo dopo l’intervento degli Iannazzo, una famiglia storica alla quale fino ad oggi, in sede processuale, non era mai stata contestata l’associazione mafiosa.

Le indagini sono la naturale prosecuzione dell’inchiesta “Perseo” che, due anni fa, ha colpito la cosca Giampà uscente dalla faida con la famiglia mafiosa Torcasio. Associazione mafiosa, estorsioni, omicidi e intestazioni fittizia di beni. Sono questi i reati inseriti nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Catanzaro su richiesta del procuratore Vincenzo Antonio Lombardo e del sostituto della Dda Elio Romano.

Le attività investigative, coordinate dalla Distrettuale Antimafia, hanno permesso di accertare la responsabilità degli indagati in ordine a numerosi episodi estorsivi a carico di imprenditori. Alcune vittime del clan hanno collaborato raccontando alla squadra mobile come venivano taglieggiati. Oltre alle intercettazioni telefoniche, i pm si sono avvalsi delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia come Angelo Torcasio e Giuseppe Giampà, figlio del boss Francesco conosciuto con il soprannome di “Professore”.

Secondo i pentiti, la famiglia Iannazzo è un livello superiore rispetto alla manovalanza delle altre cosche. La sensazione è che si tratta della “borghesia mafiosa” del comprensorio di Lamezia Terme. Gli investigatori della Mobile sono riusciti a ricostruire verie e propri “summit mafiosi”, tra la cosca Iannazzo e i Giampà che si sono spartiti i proventi del racket, secondo un collaudato sistema operativo.

In provincia di Alessandria è stato arrestato Gennaro Pulice, ritenuto dagli inquirenti uno dei killer più spietati. Pulice è accusato di avere ucciso nel 2003 il boss Antonio Torcasio proprio davanti al Commissariato di Lamezia dove il capocosca si recava quotidianamente per l’obbligo firma.

(clic)

Palestina: anche il Vaticano ci batte in laicità

Lo spiega bene IlPost:

Mercoledì il Vaticano ha riconosciuto ufficialmente lo stato palestinese, nominandolo per la prima volta in un trattato bilaterale. Il Vaticano aveva già aderito alla decisione presa nel 2012 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in cui si promuoveva la Palestina da “entità non statuale” a “stato osservatore non membro”. Il trattato di oggi è comunque il primo documento legale in cui il Vaticano parla di “Stato di Palestina” anziché di “Organizzazione per la Liberazione della Palestina” (OLP): si tratta di fatto di un riconoscimento ufficiale. Domenica prossima il presidente palestinese Mahmoud Abbas e Papa Francesco si incontreranno in Vaticano, prima della messa di canonizzazione di due suore nate in Palestina nell’Ottocento.

Sulla Palestina il Parlamento italiano balbetta e il Vaticano decide. Altro che Dan Brown.

 

Marco Biagi è morto? no: prescritto

Nel Paese delle scorte baldanzose, rilasciate per qualche amicizia giusta con un trovarobe di qualche Prefettura oppure usate nel fare compere per l’amante del potente di turno, in questo Paese qui dove basta avere avuto una settimana di scorta per diventare sacerdoti del coraggio, Marco Biagi invece, pur temendo per la propria vita mentre collaborava con il Governo per una delicata riforma del lavoro, è stato ucciso e non scortato. Niente. Anzi: per il Ministro e il Capo della Polizia di quel tempo (Scajola, sotto processo per avere aiutato la latitanza del mafioso Matacena e il sempre presente De Gennaro) Marco Biagi era “un rompicoglioni”, uno che frignava perché avrebbe voluto la scorta, un mitomane, insomma.

La storia (che non ha tempo per seguire gli alterchi tra potenti) ci ha consegnato il cadavere di Marco Biagi e oggi anche la prescrizione per i responsabili della sua sicurezza, Scajola e De Gennaro. Quindi Biagi è morto ma è morto troppo tempo fa, insomma. E forse davvero come mi diceva un famigliare di una vittima di un incidente aereo (ho le sue parole tatuate a mente): “dove non ci sono i colpevoli allora i colpevoli sono i morti”. Chissà che allenamenti con la propria coscienza, per esercitarla alla prescrizione.

Il luogo dell'omicidio

 

Che splendore il coraggio di essere buoni (e gentili)

10903292_582351018575768_1196153856_nQuando ne avevo scritto ieri (qui) era già qualche giorno che pensavo a com’è triste un Paese che trova fuori moda essere buoni e, giustamente mi hanno fatto notare, anche essere gentili. L’esplosione di risposte nei commenti e che mi sono arrivate via mail conferma comunque che ci vuole coraggio oggi ad essere buoni perché significa essere controcorrente. E questa corrente (quindi cattiva) noi l’abbiamo lasciata scavare per anni senza nemmeno accorgerci che si ingrossava ogni anno di più, ad ogni alzata di tono dei politici, ad ogni sparata di pseudointelletuali e dopo ogni risultato di pubblico per la rivisitazione (culturalmente pericolosissima) di eroi negativi, sì, ma meravigliosamente negativi. E come mi scriveva qualcuno di voi non stupisce vedere quanto alcuni temi (come l’immigrazione ma non solo) risultino comodi a chi piuttosto che preoccuparsi della propria inumanità si è impegnato a scovare una buona scusa che ovviamente gli è stata servita su un vassoio d’argento da politici avvoltoi.

Eppure la forza delle persone buone (che come giustamente mi hanno  segnalato vengono scambiate per “sprovvedute”) è la vera rivoluzione culturale e politica (nel senso più ampio) che potrebbe segnare un significativo cambio di passo per questo Paese.

Ma come hanno seminato il culto della cattiveria? Certamente lavorandoci ai fianchi per renderci il più possibile acritici e quindi malleabili (e la scuola, la scuola, la scuola ha un ruolo fondamentale in questo percorso); inoltre una qualità che sempre più spesso è valutata solo sui risultati (e quindi quantità e qualità diventano solo confuse sorelle omozigoti) ha trasformato la meritocrazia in “quanticrazia”, in produttività a tutti i costi: è stato quindi facile incensare gli eticamente “spericolati” e duri che spremono risultati migliori.

E hanno ragione quelli che mi scrivono che oggi alla fine buono è un sinonimo di buonista. Anzi: difficilmente si scrive dell’essere buono quanto piuttosto ci si accusa di “fare” i buoni. Essere buoni non è un opzione praticabile. E l’argomento secondo me è ricco, ricchissimo e per questo vi sto leggendo tutti e ad uno ad uno sto rispondendo alle vostre mail. Potete rispondere nei commenti o scrivendomi qui.

Chissà che non ne venga fuori qualcosa. Credo proprio di sì.

PS Siamo in dirittura d’arrivo del nostro crowdfunding per il mio prossimo spettacolo e libro. Se volete darci una mano potete farlo qui. E passatene parola. Se potete e se volete. Grazie.

Anche la ‘ndrangheta ha le sue vacche sacre

41b223d2-f7fb-11e4-821b-143ba0c0ef75La Calabria riprova a sbarazzarsi delle sue «vacche sacre» e a spezzare una sudditanza rurale e malavitosa che prosegue indisturbata da decenni. Il prefetto di Reggio Calabria Claudio Sammartino ha disposto infatti con un’ordinanza l’abbattimento di tutti i capi bovini che vagano indisturbati per i campi, le strade, le proprietà private della provincia ma che nessuno osa toccare perché quegli animali appartengono a boss locali della ‘ndrangheta. E chi fatica a credere che non si tratti di una leggenda popolare priva di fondamento può ripescare le cronache degli anni passati: lì si racconta che ogni tentativo di arginare il fenomeno degli animali vaganti e riportarlo nel perimetro della legalità è fino ad oggi sempre fallito e in alcuni casi è addirittura sfociato i gravissimi fatti di sangue.

L’ordinanza del prefetto Sammartino firmata l’otto maggio scorso dispone che le «vacche sacre» siano catturate e abbattute «nel caso in cui dovessero creare situazioni di pericolo concreto per l’incolumità delle popolazioni e per la sicurezza della circolazione sia stradale che ferroviaria». Non una caccia indiscriminata, insomma, ma interventi mirati solo nei casi in cui il pascolo anarchico delle mucche metta repentaglio la vita e le proprietà altrui. Il dato più ingombrante e immediato è infatti questo: questi animali «intoccabili», che invadono all’improvviso le strade o i binari della ferrovia, sono spesso all’origine di gravi incidenti. C’è poi l’aspetto economico, rappresentato dai danni che le «vacche sacre» lasciano invadendo campi coltivati o giardini. Il provvedimento prefettizio incarica le forze di polizia, a partire dal Corpo Forestale, della cattura e dell’abbattimento dei bovini, dettaglio che dovrebbe scongiurare quanto avvenuto in passato, quando non si trovarono ditte private disposte a portare a termine la medesima incombenza. Ultimo particolare»: Sammartino a specificato che le carni delle bestie abbattute dovranno essere donate ad associazioni di volontariato e mense per indigenti.

Il prefetto reggino non è il primo che tenta di porre fine all’omertosa usanza. Un suo predecessore, Goffredo Sottile, firmò un provvedimento analogo nel 2003 senza grandi risultati, visto che gli esemplari che vagabondano per la piana o sull’Aspromonte sono ancora oggi circa 2mila. Nel 2005, un oculista dell’ospedale di Locri, Fortunato La Rosa, fu ammazzato proprio perché, stabilirono le indagini, aveva ripetutamente allontanato decine di «vacche sacre» dai suoi possedimenti di campagna. Più indietro nel tempo, i primi tentativi di opporsi al fenomeno risalgono all’inizio degli anni ‘90: il sindaco di Cittanova, appena eletto, invocò un provvedimento ad hoc da parte del governo, investendo della questione anche l’allora presidente della commissione antimafia Luciano Violante. In quegli stessi anni venne organizzata una battuta su vasta scala per la cattura dei bovini ma alla fine si riuscì ad abbatterne appena 26: tutti gli altri furono fatti fuggire nottetempo dai recinti predisposti dalla Forestale in località – in teoria – segrete.

Sull’origine del rispetto verso la «vacche sacre» di Reggio Calabria, i racconti si sprecano. Il più accreditato data l’inizio del fenomeno al 1971, quando nei paesi della piana reggina si scatenò una crudele faida tra due clan opposti, i Facchineri e i Raso. Vuoi per gli arresti, vuoi perché costretti a rimanere al riparo, i componenti delle due famiglie non ebbero più tempo di badare al bestiame di loro proprietà, con il risultato che i capi ricominciarono a vivere allo stato brado, senza che però nessuno si azzardasse a disturbarli. Per timore di ritorsioni da parte dei riveriti proprietari.

(fonte)

Come NON costruire la sinistra in dieci mosse. 1: i maestri di pensiero

Barbara-Spinelli-1024x608-1431354838Per favore, davvero, se ci riuscite, basta affidarsi alle cariatidi (in gamba, per carità) che da decenni ci convincono di essere i detentori unici dell’intellighenzia sinistra. Ad esempio evitare “candidature di bandiera” che poi in nome di chissà cosa decidono di andare in Parlamento Europeo (smentendosi) e che credono che la pubblica assemblea serva solo quando deve confermare ed applaudire i propri pensieri. Barbara Spinelli ha fatto esattamente così e oltre a non essere stata cacciata ora ha deciso di andarsene. Lei. Perché, ha detto:

“Bisogna puntare a un elettorato non esclusivamente di sinistra”

Amen.

A Platì dove abdica la politica

Platì, Calabria, Italia. Paese di ‘ndrangheta, qui comandano gli uomini del clan Barbaro nonostante molti di loro abbiano base nella lombardissima Buccinasco. A Platì le elezioni non si terranno: nessun candidato a sindaco. La politica abdica nei suoi territori più bui. Come si chiama: resa. Si dice resa. Ed è roba da omuncoli.

 La politica, a queste latitudini, non c’è. I partiti non esistono se non quando devono chiedere i voti per le regionali. La legge è quella della famiglia Barbaro e delle altre cosche mafiose. Il 27 marzo 1985 la ‘ndrangheta ha ucciso il sindaco Domenico Demaio. Da allora non è cambiato nulla. Le amministrazioni comunali vengono sciolte per mafia. Negli ultimi 12 anni per tre volte la prefettura ha inviato i commissari che gestiscono l’ordinario. Passano diciotto mesi e si ritorna a votare. Poco dopo, di nuovo la prefettura segnala che i boss condizionano l’attività dell’amministrazione comunale e chiedono lo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Questa volta però è diverso. A fine maggio a Platì non si voterà. Non è stata presentata nessuna lista per le prossime elezioni comunali. La polemica riguarda il centrosinistra calabrese e, soprattutto, il Partito democratico di Renzi che, alle ultime regionali, è stato il più votato. La coalizione che ha sostenuto il governatore Mario Oliverio è arrivata al 77% dei voti mentre solo il Pd ha superato il 22%. Numeri che, in un Paese normale, avrebbero obbligato un partito a scendere in campo per dare un’alternativa a una cittadina dove i commissariamenti non hanno funzionato, una cittadina che non ha futuro se lasciata in mano a trafficanti di cocaina e famiglie mafiose.


(Fonte)