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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Omicidi, mafia e cocaina: a Milano c’è un maxi processo

Emanuele Tatone
Emanuele Tatone

Gli occhiali spessi, il baffo imbiancato, il fisico esile, lo sguardo acceso. Si alza, poi si risiede. Davanti sul tavolo carte, migliaia di carte, altre stanno sul carrello accanto. Marcello Musso, piemontese e come dice lui “contadino nell’animo”, il pubblico ministero lo fa da una vita. In Sicilia rischiò indagando Cosa nostra. A Milano si portò metodi, mentalità, sapienza investigativa. Tacche sulla toga ne ha molte: dal terrorismo islamico ai corleonesi che volevano prendersi la Madonnina fino ai banditi che hanno conquistato le periferie. Al quarto piano della procura, blindato nel suo studio, tra migliaia di intercettazioni e troppo sigarette, scrisse e fece condannare Toto Riina. Riscrisse omicidi clamorosi, dando volti e nomi ai mandanti. E ora, che il suo posto all’antimafia milanese è stato preso da altri, continua a indagare con la voracità di sempre. Il suo pallino è la droga che invade Milano.

Dal 2009 a oggi Musso ha messo assieme quattro poderose inchieste. Nome: Pavone. Uno, due, tre, quattro. Come i capitoli di una saga o di un libro. Romanzo criminale. Centinaia di indagati, imputati e condannati. Eccolo allora lì al banco dell’accusa, piccolo piccolo nell’aula bunker di San Vittore. Bunker uno, pareti verdi chiaro, gradinate per i parenti, ai lati i gabbioni che in passato hanno ospitato mafiosi e terroristi. Oggi quei gabbioni sono tornati a riempirsi, mentre ai banchi siedono decine di avvocati. L’ultimo grande maxi processo milanese si presenta così. Merito di questo magistrato per bene. Suo il merito di aver portato alla sbarra buona parte della nuova mala milanese. Non tutta, ci mancherebbe. Ma certamente quella che conta, quella che uccide e traffica in grande stile, quella che occupa la città e le sue periferie, le minaccia e le assedia. Quella, infine, che si tiene in tasca i rapporti che contano con boss di prima grandezza. Come Biagio Crisafulli, detto Dentino, siciliano di nascita, re nero di Quarto Oggiaro, regno ventennale il suo, fino all’arresto definitivo. Trafficava e comandava Dentino. Tanto influente da accomodarsi ai tavoli riservati della Mafia spa in Lombardia. Tra gli amici, il clan Papalia e le batterie armate del boss Coco Trovato.

Poco più in là nel gabbione, rispetto a Dentino, c’è Alex Crisafulli, fratello minore del boss. Il terzo, Franco, cadde ucciso ai tavolini del bar Quinto in via Pascarella a Quarto Oggiaro. Era il 2009. Alex sta nella gabbia, ma lui, dice, questa vita non vuole più farla. Crisafulli vuole pentirsi e collaborare. L’intento lo svela nell’agosto 2014 davanti al pm che lo interroga. “Da sei anni a questa parte io con le istituzioni mi sento alleato (…) Le ho detto che mi sono arreso” e “cazzo, sono venuto qua come collaboratore io (…) perché la galera non è più il mio posto. Non posso stare ancora vent’anni in galera”. Parole in pausa. Nessuno, alla procura di Milano, ha chiesto di sentirlo. Alex tornerà a parlare oggi all’aula bunker. Come lo farà, dipenderà da cosa deciderà il giudice Giuseppe Gennari sulla richiesta del pm di cambiare il capo d’imputazione aggiungendo l’articolo 7, ovvero l’aggravante del metodo mafioso.

I fratelli Crisafulli finiscono nella rete di Musso dopo ore di intercettazioni nella cella comune al carcere di Opera. Emerge, ragiona l’accusa, la loro regia nella gestione di tutta la droga che passa per Quarto Oggiaro. Oggi come in passato comanda Dentino. E oggi, si legge nelle carte del processo, lo fa grazie al lavoro del clan Tatone. Clan di famiglia, salito a Milano negli anni Cinquanta, con loro la madre, Rosa Femiano che presto si guadagna il nomignolo di nonna eroina. Sul banco degli imputati c’è anche Nicola Tatone, fratello sopravvissuto alla mattanza. Era l’inverno del 2013 quando per le strade di Quarto Oggiaro Antonino Benfante sterminò parte della famiglia Tatone. Caddero i fratelli Emanuele e Pasquale. Nicola sopravvisse, perché in carcere. Sopravvisse anche Mario, il più vecchio. Libero all’epoca, libero oggi ma imputato nel processo istruito da Musso. Benfante, detto Nino Palermo, uccise per la droga. Per guadagnarsi dello spazio sul marciapiede o forse per qualcosa di più grande. Ipotesi al vaglio. Altra storia. Si vedrà.

Restiamo in aula. Perché qui la storia c’è già. La scrive Musso, la interpretano personaggi come Diego Tripepi, trafficante di medio livello, calabrese di Seminara. Come Crisafulli anche lui ad agosto decide di collaborare. Alle domande di Musso risponde con decine di nomi. Ne fa tanti e fa anche quelli del clan Muscatello, ‘ndrangheta di spessore residente a Mariano Comense, locale storico, influente perché detentore del “Crimine”, la struttura di governo dei clan lombardi. Tripepi, però, in aula ci ripensa e dice: “In merito alle dichiarazioni rilasciate nel mese di agosto in presenza del Pubblico Ministero dottor Musso,vorrei dire che le persone da me citate sono state da me ingiustamente infangate, ho dichiarato il falso solo perché ero certo di ottenere almeno un mio ricovero in un centro clinico carcerario”. Clamoroso. Una cosa mai vista. Tripepi aggiunge: “Quindi chiunque è citato da me in tale verbale ha il diritto a farmi querela contro la mia persona per diffamazione”. Tra le persone citate c’è Giuseppe Muscatello, boss e figlio del vecchio padrino Salvatore, coinvolto nell’indagine Infinito, scarcerato per malattia e riarrestato nel novembre 2014 dal Ros di Milano.

Omicidi e pentiti. Dopo Crisafulli e Tripepi, sempre davanti a Musso decide di collaborare Luciano Nocera, trafficante e non solo, mafioso con dote della Santa. Nocera nelle ultime settimane è stato interrogato da ben quattro pm della Dda di Milano coordinata dalla dottoressa Ilda Boccassini. Tanti capitoli, dunque. Dal broker della coca Orazio Desiderato, agli spacciatori che studiano da boss e infiltrano la politica locale, al trafficante che invece di finire in galera finirà sotto due metri di terra, scannato dai boss. C’è di tutto nel maxi-processo alla nuova male. Milano alla rovescia, dunque. Non città vetrina in vista di Expo, ma terreno di conquista. Terreno dove la droga resta il volano degli affari sporchi. E dopo la droga, il business si fa più complesso,perché il confine tra legale e illegale si assottiglia. Il pm prosegue, indaga, scopre, scrive, collega. Terra di sopra e terra di sotto. A Milano come a Roma.

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A Baghdad la prima “libreria” gestita da una donna.

Ruqaya-Fawziya-640x361Mentre in Iraq si piange ancora la biblioteca di Mosulsaccheggiata e incendiata dai militanti dell’Isis  e ci si trova a fare i conti sempre con gli stessi militanti che nelle scorse settimane hanno arrestato un libraio “infedele”, “colpevole” di vendere libri cristiani nella sua bancarella, nella capitale Baghdad, in Al-Mutanabbi Street, centro intellettuale della città nell’ottavo secolo e oggi via costellata da bancarelle-librerie, apre la prima gestita da una donna, la 22enne Ruqaya Fawziya.

Al-Mutanabbi Street, va ricordato, è anche tristemente famosa per l’attentato del 2007, che ha coinvolto 27 persone, rimaste uccise. In seguito, è partito il progetto “Al Mutanabbi Street Starts Here”, su iniziativa di un libraio californiano che, per mostrare la propria solidarietà ai librai e ai lettori di Baghdad, ha raccolto “pubblicazioni” di 260 artisti da tutto il mondo, dando vita a una mostra itinerante.

Ma torniamo alla nostra libraia. Come dichiarato dalla stessa ragazza, la sua famiglia e le persone a cui raccontava l’idea di vendere libri per strada, hanno iniziato a sostenerla solo una volta intrapreso il progetto; quanto ai passanti e ai clienti, invece (come racconta jl sito bookpatrol.net, da cui sono tratte le immagini), la libraia racconta: “Non ho affrontato molestie di alcun genere dalle persone che visitano Al-Mutanabi Street; ma, a volte, la gente mi guarda con sorpresa, forse perché non ha familiarità con una donna che vende libri. Ma ci sono anche molte persone che, al contrario, mi incoraggiano”.

La famosa strada di Baghdad ha portato fortuna a Ruqaya: durante la manifestazione “Sono un iracheno, leggo”, ha incontrato il suo attuale marito, che ha sposato con una dote di 500 libri donati immediatamente e 1000 da donare in caso di divorzio…

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Vergogna Pedemontana: ne parla anche Cantone

211150747-18f9f127-c7a0-4d1c-ab22-5e402ef0450aL’Autorità nazionale anticorruzione boccia la gara d’appalto per l’assegnazione dei lavori della tratta A della Pedemontana, del primo lotto della tangenziale di Varese e di quello di Como. La prima, lunga 15 chilometri, collega da Lomazzo e Cassano Magnago le autostrade A8 e A9 ed è stata inaugurata a gennaio dal governatore lombarde Roberto Maroni. Le altre due dovrebbero essere pronte, rispettivamente, ad aprile e a luglio, per un totale di circa otto chilometri. L’appalto è stato vinto nel 2007 dal gruppo RTI Impregilo per l’importo di 629 milioni 644mila 723,77 euro. Di cui 579 milioni 91mila 163 per lavori.

La relazione ispettiva dell’autorità presieduta da Raffaele Cantone, però, contesta che i costi sono saliti del 47 per cento dell’importo contrattuale. Falsando di fatto la gara ai danni degli altri concorrenti. L’aumento, pari a 296 milioni 108mila 351,26 euro, è stato dovuto a due variazioni e ha portato il costo complessivo a 925 milioni 773mila 75,02. Nel rapporto ispettivo – inviato fra gli altri all’ufficio vigilanza dei lavori, al capo della Struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture, alla Corte dei conti, al Cipe e alla Procura – si legge che «la fattispecie riscontrata, in virtù del principio di invarianza delle condizioni negoziali, si traduce in una oggettiva alterazione della parità di condizione dei concorrenti e viola il principio di certezza delle situazioni giuridiche sotteso alla immodificabilità della lex specialis; contrariamente il bando di gara perderebbe la sua forza cogente per i soggetti partecipanti, ai quali non è dato interpretare e precisare il senso e la portata di quei parametri di gara la cui immutabilità è posta a garanzia di tutti indistintamente i partecipanti».

Inoltre l’Autorità nazionale anticorruzione fa notare che «la fattispecie riscontrata viola il principio della immodificabilità dell’offerta, teso a garantire, da un lato, la par condicio fra i concorrenti, e dall’altro, l’affidabilità del contraente». La durata dell’appalto era prevista in 2.480 giorni decorrenti dalla data di aggiudicazione. Mentre nel rapporto ispettivo firmato da Cantone si dice che «l’opera è in ritardo e solo con i successivi atti aggiuntivi hanno riportato il tutto entro l’anno 2014», dato che il completamento dei lavori e la messa in esercizio delle opere autostradali in questione «era stata assicurata entro il tempo utile per Expo 2015».

Il documento dell’Autorità anticorruzione si conclude con un’accusa pesante. Rileva che la gestione del procedimento di esecuzione dell’appalto relativo alla realizzazione del primo lotto della tangenziale di Como, del primo lotto della tangenziale di Varese e della tratta della Pedemontana che collega le autostrade A8 e A9 «non appare in linea» con i principi della legge 162 del 2006. Perché «attraverso gli accordi ratificati in corso di esecuzione sono state formulate clausole che variano sostanzialmente sia l’offerta del partecipante sia il contratto principale di appalto con conseguente aumento dei costi di esecuzione e di slittamento nel tempo della conclusione dei lavori, e ciò a danno dell’interesse pubblico e della collettività». Una nuova tegola che arriva sul vertice di Pedemontana in scadenza. Al quale si aggiunge l’audit firmato dal presidente dell’organismo di vigilanza della società autostradale Rodolfo Mecarelli, che suona come un atto di accusa verso l’amministratore delegato di Pedemontana, Marzio Agnoloni, già finito nella bufera per una vicenda di assunzioni e consulenze.

Nel rapporto dell’organismo di vigilanza, che prende in considerazione il periodo dal febbraio 2014 al gennaio di quest’anno, è scritto che «l’intuitu personae è stato considerato come presupposto esclusivo per la scelta dei consulenti». Che «non è dato conoscere se è stato elaborato nel tempo un elenco dei consulenti di fiducia da cui scegliere, a rotazione, quelli in possesso delle professionalità occorrenti di volta in volta alla missione aziendale». Mentre «nei fogli autorizzativi, che attestano l’effettività della prestazione, mancano le causali che dovrebbero coincidere con gli oggetti delle fatture e, a volte, manca il gestore del contratto». Per non parlare del fatto che «gli importi delle prestazioni non sono definiti, ma aperti e fatturati a consuntivo, successivamente; le lettere di incarico fanno rinvio alle precedenti e in un solo caso è emersa una richiesta di più offerte».

Infine l’audit rimarca «la mancata tracciabilità predeterminata delle trasmissioni delle fatture da parte degli studi (a volte a mano, con la posta elettronica, con quella ordinaria)». Anche se dà atto che a ottobre 2015 è stata diffusa una nuova procedura che prevede la richiesta di tre preventivi. Fermo restando la possibilità di selezionare i consulenti solo sul rapporto fiduciario. Equitalia ha inoltre notificato nel 2013 a Agnoloni un atto di pignoramento perché gli contesta un debito nei confronti della società di cui è amministratore delegato di 602mila 880,40 euro.

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Impuniti e sfacciati

formigoni-lupi-ape10È stato immortalato quando, da presidente della Lombardia, morbidamente si abbronzava a bordo dello yacht dell’amico imprenditore, casualmente in affari con la Regione, ma oggi Roberto Formigoni è un uomo nuovo, anzi antico e con dedizione democristiana gestisce il mercato dei ministeri. Sentitelo mentre soppesa dicasteri e poltrone con la stessa oculatezza della brava massaia che alle prese con peperoni e melanzane bada a non farsi fregare: “Ci va restituito il ministero delle Infrastrutture oppure uno di pari peso politico oppure tre ministeri di grado inferiore: con Affari regionali, Pari opportunità e Università potremmo chiudere”.

Ovvio che se avanza un cavolfiore, anche senza portafoglio, se lo pappa lui. Questi Ncd sono davvero impagabili (nel senso letterale) per la tenacia con cui non mollano l’osso. L’ex ministro Lupi non ha ancora finito di traslocare dai Lavori Pubblici con i Rolex e gli abiti di sartoria gentilmente offerti da zio Frank Cavallo e subito mandano avanti il Celeste a battere cassa, manuale Cencelli alla mano. Per essi la reputazione non vale un sottosegretario e del resto non devono difenderla perché non l’hanno mai avuta.

Pensano che sia tutta roba loro e infatti ne pretendono la ‘restituzione’. Nell’andare all’incasso non hanno preferenze perché dalle regioni agli atenei sono all’oscuro di tutto purché gli vengano assicurata una segreteria, un capitolo di bilancio e un paio di auto blu. Parlano come mangiano: “Non ci accontenteremo delle briciole”, dice non a caso Quagliariello, che è l’intellettuale del gruppo.

(Antonio Padellaro, Da ‘Stoccata e Fuga’, il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2015)

Il figlio di Provenzano si inventa cicerone della mafia per i turisti. Che schifo.

ALTRI02FLASHA_3306450F1_3026_20121204213214_HE10_20121205Un singolare tour turistico. Da mesi decine di turisti americani incontrano settimanalmente il figlio del capomafia Bernardo Provenzano, Angelo. I meeting avvengono durante la tappa palermitana di un viaggio organizzato da un tour operator di Boston. Nel corso degli incontri Angelo Provenzano, 39 anni, racconta ai turisti la sua vita e il rapporto col padre, Bernardo, celebre capo dei capi di Cosa Nostra.

Gli interventi sono preceduti da una breve introduzione sulla storia della mafia fatta da uno degli organizzatori. Dopo una prima fase «sperimentale» gli incontri sono diventati tappa fissa del tour: enorme l’interesse suscitato nei turisti dai racconti del primogenito del boss. Al termine dei meeting gli «spettatori» – generalmente professionisti e intellettuali che arrivano da ogni parte degli Stati Uniti – rivolgono a Provenzano una serie di domande sulla figura del padre, ma anche sulle difficoltà che nascono dal portare un cognome tanto «ingombrante». Gli incontri sono partiti a settembre scorso e nel periodo estivo, quello di maggiore flusso turistico, arriveranno a due a settimana.

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Il “diversamente” carcere di Nicola Cosentino

nicola-cosentino-638x425La perquisizione in cella è scattata a sorpresa nel fine settimana. E dopo il ritrovamento di materiale ritenuto sospetto, l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, detenuto da un anno perché in attesa di giudizio con l’accusa di essere stato il «referente politico nazionale del clan dei Casalesi», è stato trasferito rapidamente dal carcere napoletano di Secondigliano su indicazione dell’autorità giudiziaria. Ora è recluso in un istituto fuori dalla regione Campania.

La decisione è maturata nell’ambito di una delicata indagine del pool antimafia che vede al momento sotto inchiesta, con l’accusa di corruzione, un agente penitenziario fino a qualche giorno fa in servizio proprio a Secondigliano. Cosentino non è indagato, ma nel fine settimana, per ordine del pm Fabrizio Vanorio e del procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, sono scattate alcune perquisizioni, una delle quali nella cella dove fino a ieri era rinchiuso l’ex sottosegretario.

Nel corso dell’accertamento è stato rinvenuto anche materiale che, ipotizzano gli inquirenti, il detenuto non poteva custodire. La difesa potrà eventualmente proporre ricorso al Riesame per ottenerne la restituzione. Il quadro dell’indagine è ancora fluido. Il sospetto della Procura è che, in questi oltre undici mesi di detenzione di Cosentino, la rete di conoscenze e relazioni intrecciata dall’ex parlamentare in tanti anni di attività sul territorio non sia rimasta con le mani in mano, ma anzi si sia mossa allo scopo di non abbandonare il leader ormai caduto in disgrazia.

Ed è questa pista che i magistrati intendono verificare. Il primo passo è stato rappresentato dalle perquisizioni, il cui esito ha suggerito il trasferimento dell’imputato in un carcere lontano dal territorio. Una nuova tegola, per “Nick ‘o mericano”, già alle prese con ben tre processi in corso nei quali vengono ipotizzati, a diverso titolo, profondi rapporti con l’organizzazione camorristica di Gomorra. Giudizi nei quali i difensori di Cosentino, gli avvocati Stefano Montone e Agostino De Caro, si stanno battendo per dimostrare l’infondatezza delle accuse contestate al loro assistito.

All’udienza di ieri, alla quale come già in passato l’ex sottosegretario aveva rinunciato a presenziare, gli avvocati hanno incalzato con un fuoco di fila di domande l’ex presidente del consorzio dei rifiuti Ce4, Giuseppe Valente, un manager che da alcuni mesi collabora con la giustizia. A molte domande della difesa, il pm Alessandro Milita si è opposto. Dopo alcuni scontri, il clima è tornato tranquillo. Ma c’è una nuova inchiesta, adesso, ad agitare le acque.

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#Lefti in edicola da oggi: cosa ci abbiamo messo dentro

20150328_Left_N112015-800x500Questa settimana si va in  piazza e si cerca di capire come può far bene Maurizio Landini, unico a tentare con la sua “colazione sociale” una reazione alle riforme del governo Renzi che ha smantellato lo statuto dei lavoratori e ora marcia alla volta della legge elettorale.

Emanuele Ferragina e Alessandro Arrigoni (autori de La maggioranza invisibile), spiegano su Left chi compone la maggioranza invisibile del nostro Paese, uomini e donne resi invisibili da una politica cieca e da un sindacato vecchio incapace di rappresentarli da  anni. Neet, precari, disoccupati, pensionati non abbienti, giovani donne. Reddito minimo, redistribuzione, welfare state universale e molto altro, leggerete le loro proposte per Landini.

Ma non solo, Felice Casson, candidato del centrosinistra, intervistato da Tiziana Barillà vi racconterà i suoi progetti per Venezia; Ilaria Giupponi vi spiegherà che la nuova legge sul divorzio non ha toccato il divorzio (!) ma semplicemente i tempi della separazione.  Ma a volte serve fuggire dall’Italia per scoprire per esempio che in Cina, nelle periferie di Pechino, artisti ed operai si incontrano e fanno arte insieme, come accade nel sobborgo di Hei Qiao; e in Paraguay dai rifiuti si costruiscono strumenti musicali per orchestre meravigliose come quella di Cateura e il suo maestro Favio Chavez.

Ma anche che Ayman Odeh è forse la novità più importante delle elezioni israeliane. Giovane avvocato arabo di sinistra ha ottenuto con la sua Lista araba unita un risultato eccezionale. Imperdibile in cultura l’intervista di Giacomo Zandonini a Femi Kuti, al grande musicista nigeriano che racconta del suo Paese e dell’eredità lasciatagli da suo padre il grande Fela Kuti, inventore dell’afrobeat.

Il numero di questa settimana chiude con un pezzo titolato “E davanti il mondo”. È lo splendido racconto che Giorgia Furlan vi propone per raccontarvi di uno strano webdoc. La storia di una storia, come dice l’autrice. La storia di un gruppo di ragazzi  convinti di fare davvero la cosa giusta. Buona lettura.

L’articolo 18 come “benefit”

Tra le notizie di oggi c’è n’è una piccolina che dovrebbe fare riflettere, la riporta Dagospia:

8b3ea39893a280297f014abc0a02ab8a548076f711b00Ieri mattina il premier spaccone non stava più nella pelle all’idea di poter finalmente annunciare un dato positivo sul lavoro. Nei primi due mesi del 2015, rispetto agli stessi mesi del 2014, ci sono stati 79.000 nuovi contratti a tempo indeterminato. Festa grande nei telegiornali e Renzi che dichiara: “E’ il segnale che l’Italia riparte, sono dati sorprendenti. Ci hanno accusato di voler rendere la nostra generazione per sempre precaria. E’ vero esattamente il contrario”.

In realtà tutti gli esperti sottolineano che non è detto che quei 79.000 nuovi contratti siano tutti nuovi posti di lavoro: si dovrebbe trattare per lo più di trasformazioni dal tempo determinato per effetto degli sgravi previsti nell’ultima legge di Stabilità. In ogni caso è una buona notizia e bisogna darne atto al governo.

Però oggi c’è anche un’altra notizia, davvero sorprendente. Il gigante Novartis ha appena assunto 13 lavoratori nella sua sede di Varese e a tutti ha offerto l’articolo 18 come fosse un benefit. Una vittoria notevole per lavoratori, ingegneri e informatici, alcuni anche altamente specializzati come racconta Repubblica, che dà la notizia (p. 14). Insomma, alla Novartis hanno superato il Jobs Act e sono tornati alla Fornero. Anche su questo l’ottimo Renzi dovrebbe fare una riflessione, a meno di pensare che in Novartis siano bolscevichi o autolesionisti.