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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Mafiosi e imbecilli: si ustionano per bruciare un negozio

Bagheria-ustionati-dopo-attentato-Arrestati-autori-di-intimidazione-6c64f4288f774c671778ad5bd6bd1e45Le complesse indagini, che hanno portato agli arresti di Salvatore Benigno e Gianluca Califano entrambi ventiduenni bagheresi, sono cominciate nello scorso mese di luglio dopo due attentanti incendiari ai danni del medesimo commerciante.

Benzina, saracinesche incendiate in due distinti episodi, insomma il più classico degli scenari di estorsione di tipo mafioso. Il titolare dell’esercizio commerciale, vittima degli attentanti ha negato in un primo momento di essere stato oggetto di richieste estorsive di alcun tipo.

L’attività investigativa dei militari dell’arma è partita dalle analisi dei video di alcune telecamere di sorveglianza che hanno consentito di ricostruire l’esatta dinamica degli incendi e di identificare i soggetti ritenuti colpevoli che sono stati anche oggetto di perquisizione domestica, proseguono invece le indagini per individuare i mandanti dell’intimidazione.

Il caso è stato trasferito alla DDA di Palermo perché è emerso che il commerciante in vittima degli attentati in realtà era stato avvicinato da una persona riconducibile alla locale famiglia mafiosa.

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A Carini arrestate le donne del boss

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I carabinieri di Carini hanno eseguito un’ordinanza emessa dal gip del Tribunale di Palermo, Lorenzo Jannelli, che ha dato un altro colpo alla mafia e al clan di Pipitone: in manette 5 persone dopo le indagini condotte dai magistrati della Dda palermitana.

Per il boss Angelo Antonino Pipitone Angelo, 72 anni, già al carcere Pagliarelli dallo scorso 25 settembre, è in atto una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere. Disposti gli arresti anche per la moglie Franca Pellerito, 66 anni, e le figlie Epifania di 35 e Graziella di 44 anni, e anche per Angela Conigliaro di 45 anni, già finita sotto arresto a settembre per essere intestataria di un’azienda riconducibile al boss di Carini.

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Il numero di Left in edicola domani: cosa ci abbiamo messo dentro

La presentazione del prossimo numero con le parole di Ilaria Bonaccorsi:

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Se sopravvivono e riescono a sbarcare vivi, li chiudiamo nei Cie. E se qualcuno di quei sopravvissuti capita nel Cie di Ponte Galeria a Roma è sfortunato il doppio. Perché oltre ad essere contenuto fisicamente dentro delle mura lo è anche farmacologicamente.

Questa settimana Left vi racconta come l’uso di psicofarmaci (antipsicotici, neurolettici, antidepressivi, benzodiazepine fino al metadone) in questa struttura sia  fuori controllo. Il risultato? Spesso “gli ospiti” escono con nuove dipendenze. Farmacologiche.

Uno di loro, un invisibile, come si definisce Sunjai, ha scritto uno splendido diario mentre era lì e ci ha permesso di pubblicarne ampli stralci che troverete su questo numero insieme al nostro primo monologo di carta. Primo di tanti, questa settimana Giulio Cavalli insieme a Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, ha scritto “L’isola che c’è” e così ogni volta tenteremo di affrontare con la letteratura, il teatro, la poesia, fatti di attualità. Per trovare un’altra chiave, un altro modo  di raccontarvi ciò che accade.

Come troverete, il primo editoriale, di molti, di Emanuele Ferragina, autore di uno dei libri più interessanti del 2014 (La maggioranza invisibile) e poi lunghi e approfonditi servizi su l’Expo di Milano, la comunità araba in Italia che tutto vuole fare meno che  “invadere”, il fronte libico e l’Italia che scalda i motori, e quello ucraino.

L’intervento di Giulio Marcon (indipendente di Sel) che ci parla dell’art. 78 della nostra Costituzione. E sei pagine, per cercare di capire genesi e crescita della nuova sinistra spagnola di Podemos. Uno ad uno l’analisi dei riferimenti culturali del movimento e la mappa dei nuovi circoli che stanno nascendo in tutta Europa.

E poi tanta cultura, le commedie di Shakespeare e un ricordo di Elsa Morante. La scienza di Pietro Greco e tutto quello che avreste voluto fare questo fine settimana secondo noi! Buona lettura.

Studente e trafficante: a Parma spadroneggia il figlio del boss

Giuseppe Avignone
Giuseppe Avignone

Studente fuori sede e trafficante di droga. Nell’ambito della maxioperazione “Gufo” della Guardia di Finanza di Firenze contro il traffico di cocaina gestito dalla ‘ndrangheta è stato arrestato a Parma un 26enne, Giuseppe Avignone, accusato associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di droga, con l’aggravante del nesso mafioso.

Il giovane, nato a Reggio Calabria e domiciliato a Parma nei pressi di via Saffi, è il figlio di Guerino Avignone, considerato il capo del clan degli Avignone di Taurianova, una ‘ndrina definita “protagonista di faide sanguinarie” nell’ordinanza di custodia cautelare. Il boss è detenuto all’ergastolo in regime di massima sicurezza a Sulmona. Il ragazzo, attualmente iscritto alla facoltà di Economia dell’Università di Parma, avrebbe avuto un ruolo di spicco nell’organizzazione insieme agli zii Salvatore e Domenico Avignone (poi assolto con formula piena nel 2016).

I complici nelle intercettazioni lo chiamavano “dottore” perché frequentava l’università. Nel settembre 2013 nella casa del giovane a Parma si è tenuta una riunione “d’affari” tra gli Avignone e altri trafficanti. Dalle indagini è emerso che Giuseppe, pur avendo dichiarato un reddito per il 2013 di soli 2.400 euro come assicuratore, conduceva in realtà un tenore di vita altissimo tra viaggi, terme, uscite serali e bei vestiti.

In mattinata gli uomini del Gruppo investigativo criminalità organizzata hanno eseguito in tutta Italia 16 ordinanze di custodia cautelare in carcere tra Reggio Calabria, Bologna, Alessandria, Palermo, Modena, Parma, Genova, Milano e Pavia, al termine di un’indagine durata tre anni. Tra gli arrestati Giuseppe Avignone, raggiunto dalle Fiamme Gialle di Parma e condotto in via Burla, è accusato di diversi episodi di traffico di stupefacenti: nel 2011, a Lucca, avrebbe venduto una partita di tre chili di marjuana; in seguito, nei primi mesi del 2013 in concorso con complici, avrebbe organizzato l’importazione in Italia oltre 50 chili di cocaina tramite un container contenente capi d’abbigliamento preveniente dal Perù; tra agosto e ottobre dello stesso anno il gruppo ha fatto arrivare 10 chili di coca nascosti tra lastroni di marmo provenienti da Santo Domingo.

L’associazione criminale, secondo le accuse, si occupava in seguito dello smistamento e della commercializzazione dello stupefacente. Nel corso dell’operazione sono stati sequestrati ben 280 chili di cocaina per un valore di 43 milioni di euro. La droga veniva occultata all’interno di doppifondi ricavati in container con carichi di copertura (banane) o nascosta in blocchi di marmo. Le “merci”, imbarcate nei porti di Callao in Perù e di Guayaquil in Ecuador, giungevano ai porti Italiani di Genova e Gioia Tauro.

L’ordine di custodia cautelare in carcere è stato emesso dal Gip del Tribunale di Firenze Erminia Bagnoli, su richiesta della procura diretta
da Giuseppe Creazzo. Sottoposti a sequestro anche beni immobili e mobili tra cui cinque fabbricati, cinque autoveicoli, un motociclo, due ditte individuali e diverse partecipazioni societarie nella disponibilità degli arrestati per complessivi 2 milioni di euro. Sequestrata anche la Golf di Giuseppe Avignone, intestata a una “testa di legno” che nelle intercettazioni si lamenta con lo zio del giovane perché il ragazzo guida spesso in zona Ztl e lui riceve le multe.

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Peppino Impastato, Ponteranica: buone notizie

Dopo le mobilitazioni degli anni scorsi per l’infelice tentativo di rimozione della memoria di Peppino Impastato (trovate il nostro appello qui) finalmente arriva una buona notizia:

impastatoPonteranica non dimentica. Non dimentica Peppino Impastato e la battaglia antimafia. Così, sei anni dopo la polemica con l’allora sindaco Cristiano Aldegani, sei anni dopo le manifestazioni, sei anni dopo essere balzata agli onori delle cronache per la rimozione della targa dalla biblioteca, targa dedicata al simbolo dell’impegno per la legalità… torna sul luogo del “delitto”.

E lo fa con la decisione di intitolare a Peppino Impastato e a tutte le vittime della mafia il Centro Vivace, quello spazio di aggregazione in cui si ritrovano i giovani della zona per fare e ascoltare musica e che ha rischiato qualche mese fa di essere demolito.

L’annuncio della decisione arriva da Carlo Colombi, consigliere della maggioranza: “Dopo una fase di ascolto e riflessione comune la scelta di una nuova intitolazione a ‘Peppino Impastato e a tutte le vittime delle mafie’ è ricaduta sul Centro Vivace”.

La cerimonia di intitolazione è prevista per il 6 giugno con la “festa della legalità” e sarà accompagnata da una serie di eventi che iniziano sabato 21 febbraio (ore 20.30) con il gruppo Amici della Valle del Marro che presenta: “Storie di mafia e antimafia dal sud al Nord” e “Resistere alle mafie è possibile!”.

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Narrazione politica e disimpegno intellettuale

Un attualissimo pezzo di Giuseppe Mazza:

Durante le trattative che hanno portato all’elezione di Mattarella, la stampa ha riportato una frase di Renzi: “Il nuovo presidente deve essere una storia raccontabile”. Che frase perfetta per “La politica nell’era dello storytelling” di Christian Salmon. Libro sui politici moderni, i quali secondo l’autore mistificano le loro azioni in narrazioni facilmente comunicabili, inscenando una sorta di reality show perenne. Gli esempi renziani sono noti – la rottamazione o i gufi contrari al cambiamento – ma per Salmon il fenomeno riguarda tutti gli “uomini di Stato di nuova generazione”. Più che un saggio, è un involontario libro di narrativa. Più che di un’analisi, si tratta di paure camuffate da tesi. Il tema è per l’appunto lo storytelling politico, la sua mitizzazione. E i personaggi fondamentali sono due: il sistema dei media e il nuovo leader politico. Una storia però parla anche di chi la racconta. In questo senso, Salmon, ha firmato suo malgrado una perfetta descrizione della marginalità della classe intellettuale odierna.

Leggendo il suo libro appare chiaro quanto tuttora i colti non accettino altra traduzione del mondo della comunicazione che non sia un qualche invito a disperare. Con Salmon è tutto un narcisistico “ormai”, una sdegnata presa d’atto. Il suo obiettivo è il sistema dei media, colpevole sembra di capire d’aver compromesso il racconto di Stato. Nella babele moderna, secondo l’autore, le narrazioni dei leader si aggrovigliano e perdono la linearità indiscussa che fu del discorso di Re Giorgio, il quale parlava alla radio, nel silenzio, per tutti.

Salmon deplora questa perdita di centralità così come potrebbe farlo un funzionario dell’ENA, la celebre scuola dei manager pubblici d’oltralpe: “Se la vita politica si dà da leggere come un intrigante feuilleton che punta a catturare l’attenzione – scrive – il potere non dispone più del monopolio della narrazione”. Davvero una doglianza francese: non a caso Mosse fa risalire la nascita dello Stato narratore proprio alla Francia post-rivoluzionaria, alla retorica dei volontari caduti in battaglia e ai martiri come Marat.

Andrebbe ricordato di quali atrocità fu capace, quella narrazione centralizzata. L’invenzione del Milite Ignoto dopo la prima guerra mondiale, per esempio, non fu puro storytelling di Stato? In Italia avvenne nel 1921 con raggelante cerimoniale: i militari portano la madre di un disperso davanti a dei caduti ormai irriconoscibili, le chiedono di indicarne uno. Quando la donna si accascia, sconvolta, è prescelta la bara a lei più vicina. Segue il lento viaggio in treno del cadavere, da Aquileia fino all’Altare della Patria di Roma, in processione di paese in paese, su un vagone abbigliato con festoni di fiori, accompagnato da retoriche sanguinarie. Va detto: davanti alla violenza di quelle narrazioni, il sistema dei media attuale appare infinitamente più umano.

L’altro personaggio del libro è il leader moderno. Con le sue parole. “Siamo governati dagli aneddoti”, altrove denunciava lo scrittore. Eppure questi ultimi sembrano piacergli parecchio: egli assegna grande importanza, se non valore di prova, a semplici battute e ovvie dichiarazioni d’intenti dei politici e dei loro entourage. Il solo fatto che essi proclamino di voler tradurre la politica in storie raccontabili, ai suoi occhi dimostra che la manipolazione è in atto ed è incontrastata. Qui il problema di Salmon diventa le sue fonti. Citare quelle frasi, infatti, è come riportare i testuali di una brochure promozionale.

È evidente, i raccontatori hanno tutto l’interesse a dipingersi come infallibili artefici dell’opinione pubblica. Né s’è mai visto un narratore che inviti a diffidare della propria storia. Nel mondo della comunicazione in tanti giurano d’essere alla guida della modernità. Ma, semplicemente, questo fa parte della vendita. Donald Draper, il pubblicitario di Mad Men, in un episodio della serie sostiene persino che l’amore romantico è un’invenzione dell’advertising. Il fatto è che la realtà è più ampia delle loro narrazioni. A proposito: a quale trucco narrativo avrebbe fatto ricorso Mattarella per essere eletto?
Arriviamo alla fine del libro. Il leader storyteller è atteso da un finale tragico: il suo abuso dei mass media secondo l’autore ne ha distrutto la credibilità di narratore, come uno “spettro rischiarato da quelle stesse fiamme che si accingono a divorarlo”. Cosa però dovrebbe aspettarci dopo questo falò non è precisato. Probabilmente, un altro preoccupatissimo libro di Salmon.

Mitizzare lo storytelling politico gratifica i suoi protagonisti quanto i suoi detrattori. I primi ne escono come piccole potenze culturali, i secondi come eroici combattenti letterari. Così la critica e la pratica si ricongiungono, avvolte nella stessa narrazione. Attaccare o sbandierare il potere dello storytelling è in entrambi i casi un modo per riconoscerne la divinità. Persino il fatto che Renzi nei giorni scorsi abbia pubblicamente acquistato il libro di Salmon può essere visto come un gesto autoreferenziale: qui leggo le mie imprese.

Questo tipo d’interpretazione dei media sta aggiornando in chiave pop un’idea elitista del potere, fatto di talento più che di competenze, di guru più che di conflitti. Un mondo del quale sembra impossibile poter rientrare in possesso, riservato a doti magiche.

L’enfasi negativa di Salmon non è apocalittica: è pura narrazione al servizio del disimpegno intellettuale. Il suo libro racconta in fin dei conti come per i colti occidentali il mondo della comunicazione sia una sorta di natura maligna e immodificabile, invece che un habitat vivo. In realtà, per vivere meglio tra i mass media un sapere servirebbe eccome. Temo però che ci sarebbe un po’ meno da raccontare e un po’ più da studiare.

Ci saranno morti, molti morti

Mimmo Càndito racconta molto bene cosa potrebbe significare una guerra per l’Italia, oggi:

Sento parole di guerra, per la Libia. Vedo politici che alzano al vento del consenso proclami di impegno militare, muscoli in rodaggio, campagne africane sul bel suol d’amore. Calma, calma. Nessuna spedizione militare è possibile se, prima, non si definisce un obiettivo politico, e se una strategia militare non abbia il supporto di una coerenza di forze in campo.

1) Si dice che ormai non vi sia altra possibilità di soluzione che l’invio di una spedizione militare. A voler essere chiari, questo vuol dire non soltanto raid aerei ma anche, e soprattutto, invio di truppe combattenti sul terreno. E truppe sul terreno significa morti e feriti, e non in piccola quantità poiché si tratta di azioni che si spalmeranno in varie località: il conflitto non avrebbe un fronte unico, ma si torcerebbe negli scontri drammaticamente letali della guerriglia urbana, dove una eventuale supremazia tecnologica conta poco o niente e le trappole e le insidie inevitabili del battersi casa per casa hanno mostrato già in Somalia o in Cecenia quanto pesante sia il costo del guadagnarsi il controllo del territorio.

2) Si parla di creare una operazione di peace keeping. Ma, come le parole in inglese dicono in modo inequivocabile, queste operazioni si fanno quando la pace c’è già, e l’obiettivo è di mantenerla. Se invece la pace non c’è, come in Libia, allora bisogna avere la forza di dire che si fa una guerra vera e propria, o comunque, se si vuol tenere ancora il solito velo dell ipocrisia, che l’operazione è comunque di peace enforcement, cioè di strutturazione e consolidamento di un processo di pace tutto da realizzare. La diversità non è affatto nominalistica. C’è anzitutto il costo di vite umane, che nel PK è statisticamente assai meno elevato che nel PE; e questo conta parecchio, specie per il rapporto tra scelte politiche e consenso dell’opinione pubblica. E poi c’è il problema delle regole di ingaggio, molto più rigide e costrittive per i combattenti del PE: insomma, si fa una guerra e non una operazione più o meno di polizia.

3) Si dice guerra all’Is. Non c’è dubbio che sul terreno oggi l’Is si proponga come la formazione più operativa, con una dinamica di espansione molto accentuata. Ma la Libia postgheddafiana è nel caos attuale perché è mancata finora una forza (militare, non soltanto politica) capace di realizzare una credibile forza centrale, e lo stesso scontro continuo tra miliziani islamisti e miliziani diciamo laici è una definizione di comodo che non riesce a rappresentare la frammentazione estrema dei gruppi armati, migliaia più che centinaia, con identificazioni localistiche, tribali, claniche, gangsteristiche, e di settarismi d’ogni tipo.

4) Come hanno drammaticamente dimostrato la guerra in Afghanistan e quella in Iraq, la definizione di un nation building è fondamentale quanto la vittoria militare. Occorre cioè avere un piano preciso di politiche capaci di realizzare il “dopoguerra”: dunque, individuare le forze politiche e sociali che guideranno il tempo successivo alla fine della guerra, individuare il sistema istituzionale da impiantare, individuare i soggetti con cui relazionarsi già ora perché venga cancellata dall’operazione qualsiasi ombra di un atto di occupazione.

5) Chi guiderà l’operazione, e con quale identità. Posta la latitanza del Consiglio di sicurezza dellOnu, e poste le gelosie e anche gli interessi che sono coinvolti (gli stessi che portarono francesi, e poi inglesi, a lanciare l’attacco a Gheddafi), non appare facile dire quali saranno le forze militari chiamate a partecipare all’attacco e chi ne avrà il comando operativo. L’Italia ha già rivendicato a se’ la leadership, ma l’anticipo non è garanzia sufficiente.

Su questi cinque punti c’è finora il massimo della confusione e dell imbroglio nominalistico. Ma poiché si tratta di lanciare una guerra vera e propria, e poiché ci saranno morti, molti morti, è opportuno che si proceda con chiarezza, e che l’opinione pubblica venga informata di tutto e su tutto

Riforme di notte

Il Costituzionalista Andrea Pertici racconta (e analizza) queste “riforme” a notte fonda:

Senza metodo costituzionale. Decisamente.

Contingentamento dei tempi di discussione, seduta fiume e “Aventino” si sono concentrati nella faticosissima approvazione degli articoli di riforma della parte seconda della Costituzione.

Una riforma che non ha mai avuto un’ampia condivisione – va detto – nonostante si poggiasse sull’accorso dei leader di Pd e FI (con molte perplessità e resistenze anche nei loro gruppi parlamentari).

E infatti l’approvazione in Senato, avvenuta l’8 agosto, era stata il frutto di una forte strozzatura del dibattito e aveva visto il voto favorevole di 183 senatori, pari al 57%. Tutt’altro che un’ampia condivisione: basti ricordare che la Costituzione fu approvata con il voto favorevole di circa l’88% dei componenti l’Assemblea.

La ragione è semplice: alla Costituente il testo fu costruito nel confronto tra le diverse forze politiche, cercando su ogni aspetto la maggiore condivisone possibile. Non si votò certo su un testo presentato dal Governo, per di più con la pretesa di modificare poco e nulla di ciò che lo stesso, arbitrariamente, individuava come essenziale. Ma torniamo ad oggi. Dobbiamo registrare che, dopo le forzature del Senato per “blindare il testo”, la Camera ha fatto di più.

Mentre ancora vigeva il “Patto del Nazareno”, che consentiva alla Camera una maggioranza particolarmente ampia (seppure grazie a un premio dichiarato incostituzionale), è stato già disposto il contingentamento dei tempi. In base al quale – per dirla in due parole – si può discutere solo entro ristretti limiti. Si tratta di una tecnica per evitare l’ostruzionismo e che quindi tradisce come il testo non sia (e non voglia essere) condiviso (salvo che per adesione al pacchetto già confezionato). Possiamo immaginare un dibattito alla Costituente con il contingentamento? No di certo. Non ci sarebbero neppure gli atti dell’Assemblea costituente spesso essenziali per una migliore comprensione del testo.

Fatto sta che il “Patto del Nazareno” non ha retto – sembra – all’elezione del Presidente della Repubblica. Così la maggioranza delle riforme, senza Forza Italia, è venuta a coincidere con la maggioranza di governo. La conseguenza è che anche se questa riforma costituzionale fosse approvata sarebbe di nuovo votata dalla sola maggioranza di governo, come quella del 2001 (definita un pasticcio dallo stesso centrosinistra che la votò) e quella del 2006 (che gli italiani bocciarono nel referendum).

In ogni caso, è diventato evidente che il percorso delle riforme diventava difficile. E allora è stata aggiunta un’altra tecnica antiostruzionistica che – come ricordano i manuali di diritto parlamentare (si veda Martines-Silvestri-Decaro-Lippolis-Moretti, Diritto parlamentare, ed. 2011, p. 180) – è divenuta molto insolita (per un periodo essendo addirittura scomparsa) proprio a seguito del contingentamento. E soprattutto non è mai stata utilizzata prima per una riforma costituzionale.

La sua applicazione, non disciplinata dal regolamento, ma prevista solo in via di prassi, in effetti, è stata consentita – lo ripetiamo, per la prima volta (a proposito di prassi…) – soltanto in virtù del fatto che per la prima lettura delle riforme costituzionali sono applicate le previsioni del procedimento legislativo ordinario. Non è stata considerata l’assenza di qualunque ragione per imporre una così forte accelerazione. Non sono stati considerati gli atti disponibilità dell’opposizione che, ad un certo punto, ha perfino ritirato una consistente parte di subemendamenti. Non è stata considerata – soprattutto – la necessità di approvare la riforma costituzionale discutendo lucidamente di giorno (alcuni quotidiani hanno pubblicato fotografie che indicano lo stato in cui i parlamentari hanno votato nottetempo queste riforme).

Ma non è finita qui. Ad un certo punto, cercando di fermare un modo di procedere ormai totalmente caotico, le opposizioni – tutte unite – hanno deciso di abbandonare l’aula. Gesto estremo, noto – si sa – con il nome di “Aventino”. Ma anche a fronte di questo, la maggioranza (con l’eccezione di singoli parlamentari che hanno abbandonato i lavori: Civati, Fassina, Pastorino) non ha ritenuto di cercare nessuna reale via alternativa.

Così, la riforma costituzionale è stata votata nottetempo in una Camera mezza vuota o, se preferiamo, mezza piena di parlamentari stravolti (si vedano ancora le documentazioni fotografiche). Anzi, neppure mezza piena, perché i presenti, in molte votazioni risultano meno della metà (311 in quelle sugli articoli 39 e 41, 309 in quella sull’articolo 40, fino addirittura ai 298 sull’articolo 12 e ai 299 sull’articolo 11 e così andando) e il numero legale è garantito dal fatto che i parlamentari in missione (di venerdì notte) sono tra i 40 e i 50Ben 9 sono gli articoli votati alla presenza di meno della metà dei componenti della Camera, e addirittura 26 quelli che hanno avuto il voto favorevole soltanto di meno della metà dei componenti la Camera (solo in 270 hanno votato di sopprimere l’elezione del Senato a suffragio universale diretto). Quest’ultima circostanza è accaduto già per precedenti poco fortunate – e molto divisive – riforme, alla cui votazione era però sempre stata almeno presente ben più della metà dei componenti.

Manca ancora il voto finale a questa prima lettura della Camera, cui dovrà seguire un’altra prima lettura del Senato (perché qualcosa – seppur poco – è stato modificato) e poi chissà. Semmai – è bene ricordarlo – le seconde letture richiedono la maggioranza assoluta dei favorevoli (quella ottenuta per ora da meno della metà degli articoli).

La Costituzione è quindi ancora lungi da essere modificata. Certamente è già stata lacerata.

(fonte)

Alzare la mano per salvare un bambino: quanto costa la cura.

Simona Ravizza (giornalista sempre puntuale e attenta sulla sanità lombarda) scrive un pezzo che ancora volta apre uno squarcio sulla regione Lombardia, ciellina e dal cattolicesimo ostentato ma incapace di prendersi cura in senso costituzionale e cristiano del termine:

TOURNOI_ROULETTE_RUSSE_DESSINEUn’alzata di mano per decidere se ricoverare un bimbo in rianimazione. Succede anche questo nella Sanità sempre più a corto di soldi. E accade in uno dei più importanti ospedali pubblici per bambini, con sede nel cuore di Milano.

Un ricovero potenzialmente da 50mila euro

Mancano pochi giorni a Natale e alla clinica pediatrica De Marchi sono tempi difficili. Gli Uffici del Controllo di gestione e programmazione si sono appena raccomandati di non sforare il bilancio. È fine anno e per i vertici degli ospedali è fondamentale chiudere con i conti in pareggio. I direttori generali, nominati dalla Regione, vengono giudicati anche – e soprattutto – sulla capacità di evitare buchi. A cascata, le pressioni per non andare in rosso coinvolgono tutti.
Poche ore dopo il richiamo a spese più attente, arriva alla De Marchi la richiesta di ricoverare un bambino egiziano di quasi un anno. Ha una grave malattia, un’immunodeficienza ereditaria, con enormi rischi di non riuscire a sopravvivere anche alla più banale infezione. I medici capiscono bene che per il piccolo paziente servono cure particolarmente costose. Ci sono da spendere oltre 50 mila euro e l’esito delle terapie è tutt’altro che scontato. E c’è il pericolo di un reale accanimento terapeutico. Il reparto che lo deve prendere in carico ha già superato il budget di spesa annuale, lo sforamento è di quasi 100 mila euro.

I medici di fronte a una scelta difficile

I pediatri si interrogano. Il ricovero del bimbo va accettato? Il piccolo paziente è destinato a un trapianto di midollo in un altro ospedale ed è in arrivo alla De Marchi dopo essere già stato ricoverato in altre due strutture. Entrambe si sono scontrate con i medesimi problemi economici della De Marchi: si sono già prestate alle costose cure, ma ora chiedono aiuto altrove.
Per prendere la decisione si susseguono riunioni. L’ultima, la decisiva, avviene in reparto per alzata di mano. Ai presenti – una decina – viene chiesto di esprimersi attraverso una votazione. Si decide di ricoverare il bimbo. Ma l’alzata di mano lascia un segno tra i presenti che ora – con il bambino miracolosamente migliorato – si domandano: «Possibile che nel servizio sanitario un medico debba trovarsi a fare scelte di questo tipo? Pesare la vita di un bimbo in relazione alle spese per salvarlo?».

La situazione dei contri nella sanità

Questione di soldi. La clinica pediatrica De Marchi è una costola del Policlinico di Milano, ospedale universitario che è un punto di riferimento nazionale per oltre 200 malattie rare. Per queste patologie le terapie sono onerose perché, essendo poco diffuse, i farmaci sono particolarmente cari. Il problema dei conti in ordine è una lotta quotidiana. E con i tagli al bilancio della Sanità degli ultimi anni la situazione in Italia è sempre più precaria. Secondo le stime delle Regioni nel 2012 sono arrivati complessivamente 3 miliardi di euro in meno e nel 2013 ben 5 miliardi e mezzo.
È di questi giorni, inoltre, la discussione sull’ennesima riduzione di finanziamenti per una cifra di 2,450 miliardi di euro. Eppure già oggi in Italia la spesa sanitaria è solo il 9,2% del Pil, assai inferiore a quella degli Stati Uniti (16,9%) e di Paesi europei come la Francia (11,6%) e la Germania (11,1%). Il minore trasferimento di soldi colpisce con un effetto domino le Regioni, gli ospedali e i singoli reparti.

Ora il bambino sta meglio

Dopo aver votato, i pediatri si sono rivolti alla direzione di presidio. «Sono al corrente di quanto accaduto e ho sostenuto i medici nella decisione dando la copertura sanitaria richiesta – spiega il direttore Basilio Tiso -. Il bambino è stato curato e sta meglio. Nei prossimi giorni ci sarà il trapianto di midollo».
È andata bene, fa intendere Tiso, ma è difficile andare avanti così: «Con lo sforzo di tutti, amministratori, direzione strategica dell’ospedale, medici e infermieri, questa situazione si sta risolvendo. Ma se i fondi continueranno a diminuire – sottolinea – è indispensabile una profonda riforma del sistema sanitario. Occorre diminuire il peso dell’apparato amministrativo, burocratico e politico sulla Sanità, in modo da sbloccare risorse in favore degli operatori medici e infermieristici, delle tecnologie più all’avanguardia e dei nuovi farmaci». Un medico non può e non deve fermarsi a riflettere sul costo di una cura.