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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Alexis il greco. La politica. Appunto.

L’intervista di Matteo Nucci  ad Alexis Tsipras, leader della sinistra greca )l’unica concessa a un giornalista italiano alla vigilia delle elezioni politiche che si tengono in Grecia oggi, 25 gennaio) – è stata pubblicata dal Venerdì di Repubblica, ed è un evento che difficilmente si propone qui in Italia: parla di “politica”. Appunto.

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ATENE. Dietro alla scrivania dove Alexis Tsipras lavora, all’ultimo piano di un palazzo immerso nel centro più multiculturale di Atene, campeggia una grande tela. Su uno sfondo a tinte rosso fuoco, due tori selvaggi si osservano pronti alla carica. “Sono i negoziati fra noi e la Troika” dice lui e scoppia a ridere. “Scherzo, davvero scherzo” scuote la testa “Scherzo perché l’artista lì ha richiamato altre storie, fra cui quella di Europa rapita da Zeus nelle sembianze di un toro. Ma soprattutto, vede, se noi vinceremo le elezioni e riceveremo un mandato di governo chiaro, non ci sarà nessun negoziato con la Troika. Perché dovrei sedermi a un tavolo con questi funzionari a discutere del nostro futuro? Non si tratta di un’istituzione europea, che io sappia. Non ha ricevuto nessuna legittimazione dall’Europa. Io chiederò di incontrare i partner degli altri ventisette paesi dell’Unione, discuterò nelle sedi appropriate, presenterò il mio progetto e ascolterò quello che ciascuno ha da dire. Ma con la Troika no”.

È probabile che, se quel giorno verrà, come tutti i sondaggi sembrano anticipare, gli altri ventisette leader (fra cui una sola unità – Tsipras lo ha sempre ripetuto – una sola su ventotto è rappresentata da Frau Merkel) non saranno impreparati. Quel che Syriza – il partito della sinistra radicale di cui Tsipras è presidente – chiede, del resto, è noto da tempo e gira principalmente attorno a due mosse: la cancellazione della maggior parte del debito greco, esattamente come si fece per la Germania prostrata dalla guerra con la Conferenza di Londra del 1953, e una “clausola di sviluppo” per pagare la restante parte non indebitandosi ulteriormente ma in relazione alle entrate prodotte dalla crescita economica del Paese. È difficile immaginare oggi come potrebbero andare quei negoziati. Una cosa è certa: Alexis Tsipras non ha limitato la portata delle sue richieste a quella che potrebbe sembrare la mossa più semplice e vantaggiosa per il proprio Paese che, sessant’anni dopo la Germania, è a sua volta prostrato da cinque anni di austerità che assomigliano a una guerra. La sua idea si inscrive in un progetto ben più ampio, in cui – ne è sicuro – rientra il destino dell’Europa tutta, della sua autonomia, della sua esistenza come idea fin dalle origini. Perché sarà in quel momento, in quegli incontri da cui i funzionari della Troika saranno tenuti lontani, che sarà possibile capire se l’Europa ha un futuro, se si vuole continuare con “l’estremismo dell’austerità” o si vuole costruire un’unione fondata sulla solidarietà, la democrazia, la coesione sociale. Tsipras sembra avere pochi dubbi. Come chi sente di avere in mano il suo stesso destino.

“La parola “crisi” in cinese ha due facce” dice e forse è fiero di non ricorrere all’etimologia greca antica del termine “Da una parte c’è il pericolo, dall’altra la possibilità, la speranza. Finora abbiamo vissuto la crisi come un pericolo. Direi che è arrivato, per tutti, il momento della speranza. Dico per tutti e intendo per tutti in Europa. Perché è chiaro che fino al 2012 si è guardato alla crisi come un fenomeno soprattutto greco, ma poi è diventato evidente che la questione riguardava l’Europa in generale. Ora, la teoria economica prevede tre modi per affrontare la crisi del debito pubblico. Il primo è l’austerità e dopo quattro anni possiamo constatare che la medicina ha peggiorato la malattia del paziente: avevamo un debito del 120 per cento sul PIL e oggi è cresciuto fino a sfiorare il 180 per cento. Sarebbe grottesco continuare su questa strada. Il secondo è il contrario del primo e prevede una politica di espansione, di aumento della spesa pubblica. Il terzo è il taglio del debito. Ossia quel che proponiamo noi, ma attenzione: i risultati non li vedrà solo la Grecia o solo l’Italia che ha un debito del 132 per cento del PIL ma di gran lunga maggiore quantitativamente rispetto al nostro. Dei risultati godrà tutta l’Europa. Da qui infatti partirà finalmente l’effetto contagio che si è sempre temuto, ma il contagio stavolta andrà inteso in termini positivi, il famoso effetto domino, certo, ma che non porta caduta, al contrario. Quello di cui c’è bisogno infatti è fiducia, sviluppo, un nuovo clima anche sui mercati”. Gli avversari politici di Tsipras liquidano le sue parole come ingenuità, illusioni, vaneggiamenti che porteranno soltanto disastro. Lui non si lascia scalfire dalle accuse e le giudica alla stregua di reazioni disordinate e quasi disperate. Da una parte perché percepisce la fiducia che si è creata attorno a lui anche da parte di un elettorato che tradizionalmente gli era avverso e che – dice – “ha provato sulla sua pelle le menzogne di chi li ha governati in questi anni”. Dall’altra perché sta ricevendo dall’estero un sostegno più ampio di quanto si prevedesse. Giornali per natura lontani come il Financial Times non sembrano avere nessuna paura di un suo prossimo governo. Economisti più tradizionalmente vicini, come Thomas Piketty, autore del bestseller Il capitale nel XXI secolo, approvano, chiedendosi dove sarebbe andata a finire la Germania se invece di vedere il suo debito tagliato dal 200 al 30 per cento del PIL nel 1953 fosse stata costretta alle politiche di austerità che pretende di imporre ora.

“La paura” ripete oggi Alexis Tsipras “non è più dalla nostra parte. Nel 2012, una campagna selvaggia di ricatto aveva spinto la maggioranza dei Greci a credere al fantasma del cosiddetto Grexit, l’uscita della Grecia dall’euro. Merkel e gli altri leader che intervennero pesantemente nella nostra campagna elettorale volevano che diventasse premier Samaras, uno su cui potevano contare perché erano certi che non avrebbe ostacolato le loro politiche. La paura sparsa a arte fu un’arma letale. Oggi questa paura ha cambiato fronte: è passata dalla loro parte. Perché sanno che noi non ne abbiamo più. E sanno che il giorno dopo le elezioni, quando sarà evidente che la nostra vittoria non porta terremoti né scenari apocalittici, un’onda positiva si libererà sui mercati e il cambiamento avrà inizio. Di quel cambiamento hanno paura. Perché, come ho già detto, le cose sono destinate a trasformarsi in tutta Europa”.

In Grecia, se Tsipras riuscisse a vincere e a conquistare una maggioranza salda (l’ipotesi più difficile da prevedere perché la legge elettorale qui è un complicato gioco di numeri), i primi passi del suo governo sono stabiliti da un programma presentato a Salonicco ben prima che l’ipotesi di andare al voto diventasse concreta. È un programma d’impatto, teso innanzitutto a cercare di porre rimedio al dramma umanitario che la Grecia sta vivendo. Di questi giorni è la notizia che tre famiglie su dieci vivono sotto la soglia di povertà, dove si intendono famiglie da due a quattro membri con meno di diecimila euro all’anno (gli altri dati che certificano il dramma greco a fine pagina). Elettricità, casa, buoni pasto, assistenza medica, trasporto pubblico, riscaldamento per i più colpiti dalle misure di austerità sono fra i primi punti del programma (dettagliatamente riportato nei libri di Synghellakis e Deliolanes in uscita in questi giorni), un programma che si estende poi ai primi investimenti per il rilancio dell’economia e dell’occupazione e si chiude sulla riforma della politica.

“Quello di cui abbiamo bisogno è una vera e propria rinascita” spiega Tsipras “E soprattutto la ricostruzione di un ponte ormai in macerie che unisca i cittadini e il sistema politico. Perché, vede, la Troika ha imposto tante riforme ma nessuna ha cercato di colpire, per esempio, i grandi evasori fiscali o chi porta i soldi in Svizzera. La Troika non ha mai cercato di spezzare quello che io chiamo “il triangolo del peccato”, ossia quel circolo vizioso che in Grecia ha portato rovina: il potere politico (lo stesso da quarant’anni, i due partiti che si sono alternati al governo: i socialisti del Pasok e i conservatori di Nea Demokratia), i banchieri (sempre gli stessi anche dopo la bancarotta), i massmedia. Con i politici che davano soldi ai banchieri e i banchieri che li davano ai media i quali a loro volta offrivano supporto a politici e bancarottieri. Questo triangolo la Troika non ha mai voluto spezzarlo. Ma ci penseremo noi. Per avere meritocrazia, giustizia, diritti democratici per tutti. È evidente che questo non ci distinguerà in nessun modo da Paesi in cui prevalgono politiche liberiste. Ma è necessario che le condizioni del nostro Paese tornino in uno stato di normalità per avviare la ricostruzione dei diritti del lavoratore, calpestati in questi ultimi anni, una ricostruzione che porteremo avanti all’interno delle organizzazioni europee per i diritti del lavoro. La Grecia non diventerà un soviet, insomma”.

Di strada ne ha fatta, Alexis Tsipras, quarantenne ateniese, ingegnere, da quando sei anni fa divenne Presidente di quella che era nata come l’alleanza di molte sigle della sinistra radicale e che faticava a superare la soglia di sbarramento fissata dalla legge elettorale al tre per cento. Le stanze dove nel 2009 lo incontrai per il Venerdì erano disseminate di scatoloni zeppi di volantini. Giovani si aggiravano frenetici interrompendolo in ogni momento e lui con pazienza già mi spiegava come le socialdemocrazie europee si stessero dissolvendo nel liberismo, mentre le élites politiche avevano perso il polso della realtà, rinchiudendosi in una vita asettica lontana dalla strada. Nessuno però dentro Syriza avrebbe mai pensato che il governo potesse diventare una prospettiva realistica in così pochi anni. Certi di un eterno lavoro di opposizione, si divertivano a leggere sondaggi che assegnavano al loro giovanissimo leader un consenso già allora strabiliante. Poi venne la crisi e con essa le politiche di austerità, la troika, un “protettorato che non siamo in nessun modo disposti a sopportare”. Oggi quelle stanze sono cambiate, ma il partito è sempre immerso nel turbinio di migranti che popolano piazza Koumoundourou, anche detta Piazza Eleftherias, ossia della Libertà.

Di nazionalizzazioni non si parla più, qui, ma quello su cui Tsipras è irremovibile è che le privatizzazioni devono finire: “Certi beni, come l’acqua e l’energia devono restare nelle mani dello Stato, senonaltro per garantire la sicurezza e la difesa dei cittadini. Dell’Ente voluto dalla Troika per vendere beni statali invece posso dire soltanto che è servito a un esperimento neoliberale estremo ma che faremo fallire: privare completamente un Paese delle sue proprietà pubbliche”. La vendita di isole, spiagge, litorali incontaminati che ha sconvolto l’opinione pubblica, sarà interrotta. “Anche perché finora non ha portato soldi ma solo svendite, semplici cambi dei titoli delle proprietà: da pubbliche a private. Come per l’immensa area di Ellinikò (il vecchio aeroporto cittadino dismesso) la cui vendita è stata trattata per quattro volte meno del prezzo di mercato”.

Quanto a mantenersi in contatto con la società civile, Syriza non può cambiare. Non ci si può rinchiudere nelle stanze di partito. C’è una dimensione personale e spirituale che non si deve mai abbandonare. Tsipras è reticente a parlarne. Le polemiche della campagna elettorale greca hanno puntato spesso il dito sul suo ateismo, lui che non è sposato e ha due figli non battezzati di cui uno di secondo nome fa addirittura Ernesto… Ma non c’è molto da rispondere a polemiche del genere, secondo lui. I fatti parlano da sé. E i fatti raccontano che in questi giorni in giro per la Grecia, Tispras ogni sera torna nel suo semplice appartamento del quartiere popolare di Kypseli, dalla sua famiglia. Su religione e spiritualità non si specula. “Innanzitutto perché in questi tempi in cui assistiamo a un’escalation di volenza del fondamentalismo è necessario un sereno confronto fra forze politiche e esponenti religiosi. Eppoi perché io ho i miei principi e il mio modo di vivere la spiritualità ma non lo metto sul tavolo della propaganda politica”. Gli sarebbe facile. È stato uno dei primi politici a incontrare il Papa, ha visitato il Monte Athos dove per tre giorni si è adeguato alla vita monastica e conosce molto bene l’attivismo della Chiesa che in Grecia, in questi anni, ha contribuito in maniera speciale a erigere un argine contro il dramma umanitario. “In periodi di crisi così acuta, la sinistra e la Chiesa inevitabilmente si incontrano e cooperano per essere vicini a chi soffre e per strutturare la solidarietà. Con Papa Francesco abbiamo parlato proprio di questo”. Di più, Tsipras non vuole dire. Insisto: “Ho letto che dopo il vostro incontro il Papa ha commentato: “le sue parole sono una melodia di speranza”. Tsipras apre le mani e solleva le sopracciglia in un gesto tipicamente greco, poi ripete: “Prevaleva la paura nel 2012. Adesso c’è solo la speranza. La speranza vincerà la paura. I problemi saranno enormi e difficili da affrontare, inutile negarlo, i numeri lo dicono chiaramente. Ma cambierà l’atteggiamento psicologico in Grecia eppoi cambierà anche in Europa. E quello che pochi vogliono ricordarsi è che l’economia per metà è psicologia. Dunque anche l’economia riceverà i frutti salutari di questo straordinario cambio di atteggiamento”.

NOTA:

2010-2015: I numeri della Grecia dall’inizio degli “aiuti” della Troika:

-Il debito pubblico è passato dal 124% al 175% del PIL.
-Il PIL è sceso del 20%.
-La disoccupazione è passata dal 15 al 27% (tra i giovani è al 62%).
-240.000 piccole e medie imprese hanno chiuso (erano 745.677).
-I senzatetto di Atene erano circa 3000. Ora sono circa 35000.
-La spesa sanitaria è scesa del 25% (3 milioni – sui quasi 11 milioni di abitanti – sono privi di copertura sanitaria).
-330.000 sono le case senza elettricità.
-150.000 i giovani che hanno lasciato il paese.
-I suicidi sono cresciuti del 43%.

“Chi delegittima i magistrati indebolisce la tutela dei diritti”

“Forse chi promuove le campagne di delegittimazione dei magistrati, o si lascia andare a infelici battute ad effetto sulla loro produttività, non si rende conto di indebolire complessivamente la tutela dei diritti. E mi chiedo se certi atteggiamenti siano davvero utili a chi nutre la sacrosanta ambizione di aprire una stagione di riforme”. Non usa mezzi termini il presidente della Commissione Riforme del Csm, Piergiorgio Morosini, che è intervenuto stamattina al palazzo di giustizia di Palermo alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario.

“Da componente del Csm -ha detto- nel rivendicare la piena autonomia dalla politica, penso non si debba mai rinunciare a un dialogo franco ed equilibrato con Parlamento eGoverno. E sono consapevole del compito non facile del legislatore, perché non sfugge che nelle attuali società plurastiche multiculturali, con un quadro politico spesso frammentario, è difficile individuare valori condivisi. Ma di riforme organiche c’è grande bisogno sia nel civile sia nel penale.

Morosini, ha poi parlato di “darwinismo giudiziario”, riferendosi a quanti “provvisti di particolari risorse economiche e psicologiche”, possono superare il lunghissimo percorso a ostacoli di un processo. “La sproporzione di scala tra attese e realtà è il cuore della ‘questione Giustizia‘, qualcosa che riguarda la credibilità della giurisdizione di cui ogni attore istituzionale dotato di senso di responsabilità si deve fare carico, perché si tratta di un insidioso agente corrosivo delle basi democratiche del Paese, sopratutto in latitudini dove la presenza mafiosa fa sentire tutto il suo peso”.

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Quindi alla fine niente Palestina

Dopo mesi di silenzio e attese sembra ormai sicuro che Premier e Ministro della Difesa siano contrari al riconoscimento dello Stato della Palestina. E quindi alla fine a chi si vuole disegnare innovatore e coraggioso manca il coraggio base dei diritti umani. Ma costano parecchio, si sa, i diritti della Palestina. Soprattuto per la protervia degli ostili.

cosa è cambiato in meno di un anno?

Il Sole24Ore (tipico quotidiano comunista, eh) ripercorre i passaggi dal Governo Letta al Governo Renzi. E le domande che ci poniamo anche noi:

Quasi un anno fa la stessa minoranza che oggi fa la guerra a Renzi sull’Italicum e sul Colle, votava in una direzione del Pd un documento per sfiduciare Enrico Letta e portare a Palazzo Chigi l’attuale premier. In meno di un anno l’ennesima virata.

Era il 14 febbraio di un anno fa quando Enrico Letta si dimise da premier dopo una direzione del Pd che lo aveva sfiduciato. Furono 136 i voti a favore dell’arrivo a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, una staffetta – si disse – per avviare una nuova fase del Governo e del partito e affrontare le europee di maggio. In quella direzione Pd, di fatto, a favorire il cambio di premier fu la stessa minoranza che oggi fa la guerra a Matteo Renzi sull’Italicum e sul Quirinale. Tra quei 136 voti c’era tutta la minoranza bersaniana, cuperliana e dei giovani turchi, solo i 16 di Civati votarono contro e in due si astennero, Stefano Fassina e la bindiana Margherita Miotto. Insomma, la stessa corrente che contribuì alla fine dell’Esecutivo Letta e all’arrivo di Renzi oggi lo accusa di essere anti-democratico sull’Italicum, di fare patti oscuri con Berlusconi, di aver varato provvedimenti economici di destra come il Jobs act. Ma allora perché ne favorirono l’ascesa a Palazzo Chigi senza nemmeno passare per le urne?

Non si può usare l’argomento di un cambiamento di personalità del segretario Pd in questi ultimi mesi: le bordate alla Cgil le aveva lanciate durante le primarie, i primi provvedimenti sul lavoro li ha fatti prima delle europee, la rottamazione l’aveva compiutamente spiegata e applicata e il patto del Nazareno era già nato quasi un mese prima di quella direzione di febbraio. Dunque, non c’era nulla che non si sapesse di Renzi, neppure l’accordo con l’ex Cavaliere è stata una sorpresa.

La domanda resta: cosa è cambiato in meno di un anno? E a questa se ne affianca una più profonda che non ha a che fare solo con il premier ma con il Pd nel suo complesso. E cioè un partito di maggioranza relativa – quale è oggi il Pd – si può permettere di fare inversione di marcia ogni nove, dodici mesi? Si può permettere un’assenza di strategia a medio termine e continuare a bruciare leader e Governi come se niente fosse? Perché non è solo Renzi che è finito nel tritacarne. Prima di lui è toccato a Pierluigi Bersani, poi a Letta e ora a lui. In meno di due anni il Partito democratico, il più votato dagli italiani, ha messo alla graticola tre leader ma quello che è più grave è l’improvvisazione con cui crea e distrugge posizioni politiche. Il Pd, minoranza inclusa, ha votato il pareggio di bilancio e poi l’ha messo all’indice, dal 2011 al 2012 ha votato insieme a Berlusconi il Governo Monti e poi lo ha rinnegato. E soprattutto nella primavera 2013 ha votato le larghe intese insieme al Pdl di Berlusconi – che era nella maggioranza di Governo – mentre ora vuole stracciare il patto del Nazareno che è sulle riforme. Il risultato è la confusione, una assenza totale di criteri politici che vivano più di sei mesi. Una continua navigazione a vista.

La questione non è solo come andrà a finire sull’Italicum e, la prossima settimana, sul Quirinale. Non è la sopravvivenza o no di Renzi ma se il partito di maggioranza relativa, il Pd, non cominci a essere la vera mina vagante per le istituzioni e per il Paese. Una mina non solo vagante ma incomprensibile. Questo continuo cambiare giudizio su punti strategici di una legislatura sta portando il Pd a trasformarsi da partito a “movida”. Senza una bussola e con identità multiple. Altro che primarie, il problema è a Roma e in Parlamento.

‘Ndrangheta a Reggio Emilia: 10 milioni sequestrati

La Guardia di finanza di Reggio Emilia ha sequestrato beni per oltre 10 milioni di euro a un imprenditore residente a Montecchio che si ritiene legato alla cosca della ‘ndrangheta dei Grande Aracri. Terreni, fabbricati, aziende, auto e conti corrente che dal cuore dell’Emilia arrivano fino al profondo sud della Calabria, tutti di proprietà di Palmo Vertinelli e della sua famiglia, anche se il 54enne di origine cutrese residente a Montecchio, nel reggiano, dichiarava redditi sulla soglia dell’indigenza. Il provvedimento, emesso ai sensi della normativa antimafia dal Tribunale di Reggio su proposta del procuratore capo Giorgio Grandinetti, riguarda l’imprenditore e i suoi famigliari. Dalle prime ore di mercoledì 21 gennaio i finanzieri del nucleo di polizia tributaria delle Fiamme gialle stanno mettendo sotto sequestro beni riconducibili all’uomo, che sono collocati nel territorio reggiano, parmense, e nella zona di Crotone.

Il sequestro è scattato dopo un’approfondita attività di indagine su Vertinelli da parte degli uomini della Guardia di Finanza, che hanno riscontrato una “conoscenza interessata” di ambienti associativi criminali. Il nome dell’imprenditore era già noto agli inquirenti per la sua vicinanza al clan dei Grande Aracri. Il 54enne era apparso in un’inchiesta antimafia nel 2003, anche se allora venne escluso un suo coinvolgimento con le organizzazioni criminali. A suo carico ci fu anche una denuncia per dichiarazione fraudolenta per un giro di false fatture e infine venne colpito da un’interdittiva della prefettura di Reggio per le sue frequentazioni con la famiglia Grande Aracri, ma anche con altri pericolosi esponenti di Cutro e di Isola di Capo Rizzuto.

Dagli accertamenti della Guardia di finanza è emerso come l’imprenditore dichiarasse redditi molto bassi, quasi sulla soglia dell’indigenza, che gli investigatori hanno definito “neppure sufficienti a coprire la spesa media annua individuata dall’Istat e quindi di far fronte alle normali necessità di sostentamento”, a fronte di un patrimonio personale che è risultato essere molto cospicuo. Da qui la decisione di far scattare il provvedimento. I finanzieri hanno sequestrato quote societarie dell’Impresa Venturelli srl, Edilizia Costruzioni Generali srl, Mille Fiori srl, Bar Tangenziale Nord-Est Sas. Numerosi anche i beni immobili sotto sequestro, tra cui un complesso immobiliare costituito da nove appartamenti e un’autorimessa a Isola di Capo Rizzuto, un terreno a Crotone. A Montecchio (Reggio Emilia) sono stati sequestrati un complesso immobiliare da dieci appartamenti, due autorimesse e un magazzino, due appartamenti e un complesso immobiliare di otto appartamenti e tre autorimesse. Sempre nel reggiano, a Gattatico, è stato posto sotto sequestro un complesso immobiliare costituito tra tre appartamenti e tre autorimesse. Altri sequestri hanno riguardato anche il parmense, dove i sigilli sono stati messi a un complesso immobiliare di tre appartamenti e tre autorimesse e un terreno a Montechiarugolo, a un complesso immobiliare costituito da un appartamento e tre autorimesse a Soragna, e a un appartamento a Busseto.

‘Ndrnagheta: preso Natale Trimboli

Trimboli-Natale-600x400Non ha opposto alcuna resistenza e si è fatto arrestare dai carabinieri ai quali aveva dato prima un nome falso. Dopo 5 anni finisce così, in un appartamento di Molochio nella Piana di Gioia Tauro, la latitanza del boss Natale Trimboli originario di Platì ma ritenuto un “santista” di Volpiano in provincia di Torino. Inserito nell’elenco del Ministero dell’Interno sui ricercati più pericolosi in ambito internazionale, Natale Trimboli aveva un ruolo di primo piano nella cosca Trimboli-Marando di Platì. “Era un personaggio di peso nella criminalità organizzata – ha spiegato il colonnello Falferi – Era l’uomo di collegamento tra le cosche della Locride e il nord Italia”.

Oltre a numerosi anni di carcere per traffico di droga e associazione mafiosa, sulla testa di Natale Trimboli pesa una condanna all’ergastolo per gli omicidi di Antonio e Antonino Stefanelli e Franco Mancuso, trucidati a Torino in un regolamento di conti durante una faida tra famiglie ‘ndranghetiste per il controllo del territorio e del traffico di stupefacenti e di cui non sono mai stati ritrovati i corpi. Casi di lupara bianca sui quali è stata fatta luce grazie alle dichiarazioni del collaboratore Rocco Marando il quale aveva raccontato ai pm come sono state uccise le vittime in risposta all’omicidio di Francesco Marando: “Mio fratello Rosario e Trimboli Natale – è scritto nel verbale – sparano dei colpi di pistola con il silenziatore a Mancuso e al nipote Stefanelli Nino: li colpirono alla schiena. Poi, lo zio Stefanelli Antonino, visto che i due suoi familiari erano stati uccisi, chiedeva pietà e diceva che ad uccidere Francesco era stato suo nipote Nino e Mancuso, dicendo ‘io non c’entro niente’”.

Coinvolto nell’inchiesta “Minotauro” della Dda di Torino, Trimboli da tempo si nascondeva in Calabria. Con lui sono stati arrestati anche tre fiancheggiatori: Natale Altomonte, Santo Surace e Carmine Luci. Quest’ultimo, che ha precedenti di polizia per associazione a delinquere e armi, aveva la disponibilità dell’appartamento dove è stato scovato il latitante. Un appartamento che doveva essere abitato ma i carabinieri da alcuni giorni avevano notato alcuni movimenti all’interno. Insospettiti hanno proceduto a un normale controllo scovando il latitante Natale Trimboli. Fratello dei narcos Saverio e Rocco Trimboli, al momento dell’arresto il ricercato non era armato e il materiale rinvenuto all’interno dell’abitazione ora è al vaglio dei carabinieriche stanno cercando di ricostruire la rete di favoreggiatori che ha consentito al latitante di sfuggire alla giustizia.

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Don Inzoli è innocente, indagato, condannato, ora sì, ora no

corriereinzoliPer fortuna c’è qualcuno che ha scritto con chiarezza sulla presenza di Don Inzoli (e soprattutto su Don Inzoli) al convegno organizzato da Regione Lombardia:

Dunque don Inzoli è stato scoperto tra gli spettatori del convegno omofobo patrocinato dalla Regione Lombardia, il che risulta imbarazzante per organizzatori e patrocinatori del convegno, perché don Inzoli è stato accusato di pedofilia. Tutto chiaro? No, non proprio.

Da un punto di vista mediatico, non c’è dubbio che l’identificazione di don Inzoli sia un grosso colpo per chi quel convegno lo stava osteggiando. Si tratta però di un’arma impropria che avrei pudore di impugnare: Inzoli è un privato cittadino che ha il diritto di andare dove vuole. E cosa significa che è “accusato di pedofilia”, come molti organi di stampa hanno scritto il giorno dopo? Lo status di “accusato” non esiste in giurisprudenza, né dovrebbe essere ammesso dal buonsenso, specie quando l’accusa è così grave e infamante. Si è pedofili o non lo si è. Si è pedofili se si è stati indagati, processati, condannati: altrimenti no.

Tra il bianco e il nero è ammessa una sola sfumatura: si può essere indagati per pedofilia. È il caso appunto di don Inzoli, ma chi conduce l’indagine in questione finora è stato talmente discreto che fino a qualche giorno non ero riuscito a trovarne notizia on line (ringrazio chi mi ha aiutato). In questo caso però non solo dovremmo ricordare che siamo tutti innocenti fino a prova contraria, ma che indagini di questo tipo spesso si sono concluse con un nulla di fatto: se a molti probabilmente non dice più nulla il nome di don Giorgio Govoni, morto condannato e in seguito riabilitato, i casi di Brescia o Rignano Flaminio dovrebbero essere a portata di memoria collettiva. Si può essere indagati per tante cose, ma si è innocenti fino a prova contraria: e fino a prova contraria si è liberi di andare ai convegni; non si capisce nemmeno chi ci dovrebbe tenere fuori. Tutto chiaro ora?

No, nemmeno ora.

Il caso di don Inzoli è ancora più complicato. Dichiarandolo “accusato di pedofilia”, i giornalisti semplificano per necessità una questione abbastanza spinosa. Inzoli in effetti è sia innocente che colpevole, una situazione in cui in Italia si può trovare soltanto un sacerdote. Innocente per lo Stato, Inzoli è colpevole per la Chiesa cattolica. La Congregazione della Fede si è già pronunciata sul suo caso non una ma due volte: nel 2012 e poi, dopo un ricorso, nel 2014, con una “sentenza definitiva” in cui si mette nero su bianco la formula “abuso di minori”.

“In considerazione della gravità dei comportamenti – si legge nel documento a firma del cardinale Muller – e del conseguente scandalo, provocato da abusi su minori, don Inzoli è invitato a una vita di preghiera e di umile riservatezza, come segni di conversione e di penitenza”.

L'”umile riservatezza” prescritta dalla Congregazione prevede che Inzoli non possa più celebrare messe in pubblico (può però consacrare l’eucarestia in privato, quindi è ancora un sacerdote). Non può risiedere nella diocesi di Crema e nemmeno “entrarvi”, quasi che ai confini ci fosse ancora una guardia vescovile in grado di respingerlo. Non può attendere ad attività ricreative o pastorali che coinvolgano minori – una norma di buon senso – e deve intraprendere “per almeno cinque anni, un’adeguata psicoterapia”, il che costituisce secondo me una notizia in sé (per la Chiesa la psicoterapia funziona! Chissà se gli psicoterapeuti sono tutti d’accordo).

Quindi, per questa grande e rilevante e autorevole comunità che è la Chiesa cattolica, don Inzoli non è “indagato”, e nemmeno “accusato”, ma è colpevole di gravi comportamenti e responsabile di uno scandalo provocato da abusi su minori. Per questo motivo non può più dir messa, circolare a Crema, e deve fare psicoterapia. Tutto qui? Tutto qui.

Ora i casi sono due: o ci fidiamo della Chiesa, o no. Chi tende a non seguire le sue direttive in materia di etica e sessualità forse dovrebbe prendere con le pinze anche le sue sentenze, che sono tutto quello che sappiamo: non conosciamo le motivazioni, gli atti, nulla. Solo una sentenza nel buio. Se capita ai tribunali della repubblica di condannare preti e laici e poi riabilitarli dopo anni, può succedere anche a questa Congregazione di cui non si sa poi molto.

Se invece ci fidiamo di quello che la Chiesa ci dice su don Inzoli, a questo punto vorremmo capire perché i suoi prudenti pastori, dopo averlo trovato colpevole di tanto scandalo, lo hanno lasciato libero di andare per le strade del mondo, purché fuori dalla diocesi di Crema: senza darsi pena di denunciarlo alle autorità dello Stato in cui vive: uno Stato che ha una sensibilità fortissima per gli abusi di questo tipo, e li sanziona con pene ben più pesanti di un ciclo di terapia. E infatti l’indagine della procura di Crema, quella di cui si sa così poco, è ferma alla fase della rogatoria internazionale. Per conoscere le prove che hanno portato la Congregazione a sospendere don Inzoli, i giudici di Crema hanno dovuto inoltrare una rogatoria in Vaticano. Tutto chiaro? Un prete commette abusi a Crema, un cardinale a Roma lo trova colpevole, un giudice a Cremona deve fare una rogatoria internazionale per scoprire il perché.

Se era un sistema per mettere a tacere la cosa, ha funzionato fino a un certo punto. Certo è impressionante quanto poco si sia parlato, fuori Cremona, di uno scandalo che ha coinvolto un prete già tanto potente e chiacchierato (in questo come in tanti altri casi Mazzetta resta un punto di riferimento prezioso e ormai unico). Allo stesso tempo, imprimere un segno indelebile di colpevolezza su un uomo e poi lasciarlo libero di intrufolarsi ai convegni poteva risultate alla lunga controproducente per la Chiesa che ancora rappresenta, e infatti così è stato. A tutti coloro che combattono quotidianamente contro le ingerenze del Vaticano suggerisco di desistere dal seguire a ruota ogni battutina di papa Francesco – le sta azzeccando tutte, fidatevi – e porre qualche semplice domanda: se un prete è innocente, perché non può più mettere piede in una diocesi? Perché non può più frequentare gli oratori? Se invece è colpevole, e di una cosa tanto grave, perché non lo avete denunciato a un tribunale vero?

Postilla: chiunque condividesse le idee di quel convegno, e ne avesse avuto a cuore la riuscita, e fosse stato presente, e abbastanza intimo con don Inzoli per chiedergli di andarsene per favore, lo avrebbe fatto. Se Formigoni non lo ha fatto, o non era così preoccupato della buona riuscita del convegno, o non è più in grado di farsi ascoltare nemmeno da un suo ex sodale caduto in disgrazia.

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“Con una stella d’oro in fronte”: come giura la ‘ndragheta a Roma

E’ un documento straordinario quelle nelle mani degli inquirenti della Capitale. Del codice di San Luca si era parlato in occasione degli arresti dei killer di Vincenzo Femia, quanto il pentito Gianni Cretarola aveva iniziato a vuotare il sacco. Un codice criptato utilissimo alle inchieste di Polizia e Guardia di Finanza che hanno messo sotto scacco l’intera organizzazioni della ‘ndrangheta che a Roma aveva messo radici profonde. “Una bella mattina di sabato Santo, allo spuntare e non spuntare del sole, passeggiando sulla riva del mare vitti una barca con tre vecchi marinai, che mi domandarono cosa stavo cercando…”. Si legge nel codice tradotto dagli investigatori. A testimonianza che le cosche calabresi hanno fatto della Capitale una base operativa importante, trapiantando in blocco piombo, sangue, tradizioni e riti. Cretarola, saltando il fosso ed è andato a ingrossare le fila dei collaboratori di giustizia. A casa sua gli agenti di Renato Cortese sequestrarono nei mesi scorsi, tra l’altro, tre fogli scritti a mano in un alfabeto che sembrava un mix di cirillico e arabo. Il pentito su quegli strani geroglifici aveva fatto spallucce e i poliziotti avevano dato il compito di tradurli a due colleghi appassionati di enigmistica. Niente programmi software di lettura incrociata, niente consulenti d’alto livello, solo olio di gomito, passione e un po’ di intuito. Così è saltato fuori il senso di quei disegni incomprensibili. Ad esempio: “Come si riconosce un giovane d’onore? Con una stella d’oro in fronte, una croce da cavaliere sul petto e una palma d’oro in mano. E come mai avete queste belle cose che non si vedono? Perché le porto in carne, pelle e ossa”. Parole che affondano le radici nel mito dei tre vecchi, fondatori della tre mafie: Osso, Malosso e Carcagnosso. A quel punto il collaboratore di giustizia si è aperto ed ha iniziato a raccontare nei dettagli l’affiliazione alla cosca, avvenuta nella calzoleria del carcere di Sulmona e che l’avrebbe portato a occupare un ruolo stabile nella gerarchia della ‘ndrangheta. Prima picciotto, poi sgarrista, e via via santista, vangelista, quartino, trequartino, padrino e capobastone. Nella ‘ndrangheta si entra per nascita o per battesimo e anche i figli dei boss, fino a 14 anni, sono “mezzi fuori e mezzi dentro”. Nell’ordinanza che lo accusa di aver partecipato all’omicidio di Femia si legge: “Per il battesimo ci vogliono cinque persone, non di più non di meno ma nella calzoleria ce n’erano solo due, oltre a me. Gli altri erano rappresentati da fazzoletti annodati”. E ancora: “Il primo passo è la formazione del locale, una sorta di consacrazione che, alla fine del rito, verrà rifatta al contrario”. Quindi il rito: “Se prima questo era un luogo di transito e passaggio da questo momento in poi è un luogo sacro, santo e inviolabile”. A quel punto il solito “tributo simbolico di sangue”. In mancanza di un coltello, in carcere, il “puntaiolo” impugna un punteruolo da calzolaio. È il novizio che deve pungersi da solo, se non ci riesce al terzo tentativo, l’auspicio è pessimo e bisogna rinviare di sei mesi. Cretarola ci riuscì, successivamente le formule: “A nome dei nostri tre vecchi antenati, io battezzo il locale e formo società come battezzavano e formavano i nostri tre vecchi antenati, se loro battezzavano con ferri, catene e camicie di forza io battezzo e formo con ferri, catene e camicie di forza, se loro formavano e battezzavano con fiori di rosa e gelsomini in mano io battezzo e formo…”. Il picciotto è fatto, e anche il suo destino, che lo ha portato dritto dietro le sbarre.

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‘Ndrangheta: “allarmante potenza di fuoco”. A Roma.

Un gruppo criminale autonomo, ma con radici solide nel cuore della ‘ndrangheta, San Luca. Una rete di ‘ndrine, che si incrociano con gli alberi genealogici delle cosche più conosciute e potenti, pronta a prendersi la capitale d’Italia. E una strategia ben chiara: “Stare sotto traccia e non mischiarsi con nessuno”. L’organizzazione colpita oggi dalla Squadra mobile di Roma e dal Gico della Guardia di finanza è la conferma della centralità di Roma nella geografia criminale italiana. Accanto alla Lombardia, alla Liguria, all’Emilia Romagna – regioni dove la presenza della ‘ndrangheta è ormai confermata da moltissimi atti giudiziari – ecco apparire nella sua chiarezza la cosca capitale. Autonoma, invisibile, ma obbediente alle formule più antiche e tradizionali. Con riti di affiliazione celebrati nelle carceri laziali o nelle periferie romane, a pochi passi dagli antichi santuari e dal Raccordi anulare.

Svelati almeno tre gruppi di ‘ndrangheta
I trenta arresti nascono da due inchieste che si sono coordinate negli ultimi due anni. La prima – condotta dalla Mobile guidata da Renato Cortese – aveva messo a fuoco l’omicidio di Vincenzo Femia, ‘ndranghetista di peso ucciso dalle parti del Divino Amore il 24 gennaio 2013. La seconda inchiesta – in mano al Gico della Guardia di Finanza, diretto dal colonnello Gerardo Mastrodomenico – era partita da una sofisticata intercettazione di una rete segreta di BlackBerry, usata da un gruppo criminale per movimentare centinaia di chili di cocaina. Un sistema pensato per essere impenetrabile, bucato grazie ad un pin code finito nella mani dei finanzieri.

Indagini, queste, che hanno portato alla luce almeno tre gruppi di ‘ndrangheta ormai radicati e attivi nel cuore di Roma: i Pizzata-Pelle-Crisafi (formato da Giovanni Pizzata, Bruno Crisafi, Massimiliano Sestito, Gianni Cretarola, Francesco Pizzata, Antonio Pizzata, Antonio Angelo Pelle, Andrea Gusinu, Salvatore Manca, Stefano Massimo Fontolan, Mario Longo), i Crisafi-Martelli (organizzazione finalizzata alla gestione della rete del narcotraffico ramificata in Italia, Colombia, Spagna, Olanda e Marocco, costituita da Bruno e Vincenzo Crisafi, Luigi Martelli, Renato Marino, Adamo Castello) e i Rollero (costituita da Marco Torello e Andrea Rollero, Giuseppe D’Alessandri, Giuseppe Langella, Roberta D’annibale).

Il codice San Luca
Vincenzo Femia era considerato il referente dei Nirta di San Luca nella capitale. Attivo nel traffico della cocaina, commette un errore imperdonabile: staccarsi troppo dalla casa madre, quasi una replica della scelta che era costata la vita a Carmelo Novella, il boss ucciso in un bar di San Vittore Olona nel 2008. Il 24 gennaio 2013 il suo corpo viene ritrovato nella campagna a sud di Roma, a pochi passi dal santuario del Divino amore. Subito fu chiaro che quello era un omicidio più che eccellente.

A luglio, dopo pochi mesi, arriva la prima svolta nelle indagini, con l’arresto di Gianni Cretarola. Il suo è un profilo di ‘ndranghetista di peso, con alle spalle una lunga serie di reati commessi in Liguria, regione dove era cresciuto. Bastano pochi giorni di carcere e inizia a collaborare.  Poco dopo l’arresto, nella sua abitazione la Polizia sequestra un documento in codice, una serie di segni apparentemente indecifrabili. Cretarola – durante uno dei primi interrogatori – prende la penna e un foglio: “ecco la chiave”, la matrice per leggere quello che verrà ribattezzato “il codice di San Luca”. “Una bella mattina di sabato Santo – era l’incipit del documento – allo spuntare e non spuntare del sole passeggiando sulla riva del mare vitti una barca dove stavano tre vecchi marinai che mi domandarono cosa stavo cercando. Io gli risposi sangue e onore Mi dissero di seguirli che l’avrei trovato Navigammo tre giorni e tre notti fino ad arrivare nel ventre del isola della Favignana”. In altre parole un estratto della mitologia ‘ndranghetista, ad uso e consumo degli affiliati.

L’affiliazione nel cuore della capitale
Cretarola racconta tutto, legami, riti, affari. Ma, soprattutto, riferisce che “la caratteristica del gruppo era la forza militare”. Tantissime le armi a disposizione, un arsenale che in parte è stato sequestrato durante le indagini e le perquisizioni scattate dopo gli arresti del 20 gennaio. Disegna, poi, l’organigramma preciso della ‘ndrina: “Giovanni Pizzata era “capo società”, Massimiliano Sestito “contabile”, e lui il “mastro di giornata”. Recita a memoria – nei suoi interrogatori – la formula di affiliazione che ha imparato nel carcere di Sulmona, dove è formalmente entrato nell’organizzazione: “Buon vespro, siete conformi?…a battezzare il locale e formare società”), quindi battezzò il nuovo affiliato (“se loro battezzavano co’ ferri, catene e camicie di forza io battezzo co’ ferri, catene e camicie di forza. Se loro battezzavano co’ gelsomini e fiori di rose in mano io battezzo con gelsomini e fiori di rose”. Rito che ricalca alla perfezione le formule raccontate in centinaia d’inchieste calabresi. Accanto alla potenza di fuoco, ecco dunque apparire – nel cuore della capitale d’Italia – l’essenza stessa della ‘ndrangheta, il patto di sangue, l’affiliazione con l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo. Il legame con San Luca, ovvero la mafia calabrese che fattura miliardi di euro, superando di gran lunga le principali aziende italiane.

Il killer di Femia affiliato in carcere a Sulmona
Cretarola ha spiegato poi ai magistrati che il suo ingresso nella ‘ndrangheta ha avuto la particolarità di vedere tre padrini di tre diverse province, dandogli un lasciapassare riservato a pochi. Quando il pm gli ha chiesto se era stato “affiliato formalmentealla ‘ndrangheta?” Cretarola dice: “Certo, certo, certo”. Affiliazione avvenuta “in carcere a Sulmona nel 2008 da Massimo Sestito, Fedele Rocco e Bono Michele”. Alla domanda del pm sulla provenienza Cretarola risponde: “di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Rocco Fedeli e Serra San Bruno – Bono Michele e Massimo Sestito – Gagliato, fa riferimento a Gagliato nonostante è nato a Milano. La conclusione degli inquirenti che si stratta di “tre famiglie, addirittura di tre zone diverse“. Sì, “per avere la possibilità di muoversi in tutte le province ed essere riconosciute in tutte le province” la spiegazione.

Il gip che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare non ha dubbi: a Roma agiva un “nucleo operativo e direzionale convergente, “rappresentato da soggetti di elevatissimo spessore criminale di ascendenza ‘ndranghetistica, stabilmente dediti al traffico internazionale di stupefacenti ai massimi livelli, e caratterizzato, nel contempo, oltre che dal qualificato contesto criminale di appartenenza, dalla disponibilità di armi e da allarmante potenza di fuoco”. Benvenuti a Roma, provincia di San Luca.

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