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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

“Il successo del terrorismo dipende dalle conseguenze che innesca”

L’editoriale particolarmente ispirato dell’amico Lorenzo Fazio:

No, non siamo in guerra, non siamo in guerra con nessuno. Invece, dopo quanto successo a Parigi, sembra che tutti diano per scontato che l’esercito della libertà e della democrazia sia già schierato  contro l’esercito del fondamentalismo sanguinario islamico. Siamo caduti in trappola. La parola guerra scappa di bocca a tutti, dal difensore più disciplinato dell’ordine occidentale all’opinionista più illuminato e aperto. Persino comici, vignettisti, attori, e chi con la libertà ci lavora, non rinuncia  a evocare quella parola. La guerra è data per inevitabile e necessaria, “fermare la barbarie” è l’unica missione per le nuove generazioni chiamate a “conquistare la pace”.

La circolare inviata dall’assessore all’istruzione della regione Veneto, Elena Donazzan, ai presidi delle scuole in cui si chiede ai musulmani di condannare i fatti di Parigi e di aderire ai valori occidentali, rivela il clima in cui siamo precipitati. Tutti gli stranieri sono potenziali nemici, devono dimostrare di non esserlo. In spregio a qualsiasi principio liberale.

Come editore che da diversi anni si batte contro le verità del potere e come tutti coloro che hanno a cuore la parola e il pensiero, credo che bisogna spezzare questo discorso sulla “guerra necessaria” in nome della libertà. Un contro senso che poggia sull’idea che solo noi siamo i buoni e che gli altri, loro, sono i cattivi, dimenticando tutti gli orrori e i morti che abbiamo provocato.  Se non riusciamo a sradicare questo pregiudizio andremo incontro a nuove tragedie. Il compito di noi editori che operiamo nel settore dell’informazione è cercare di smascherare tutte le falsità che ogni guerra comporta (ricordate i finti arsenali di Saddam?) e difendere a ogni costo la nostra libertà di critica, sempre, soprattutto  quando, in nome della sicurezza, lo Stato, attraverso la polizia, aumenta il suo potere repressivo, come accade dopo ogni evento terroristico.

Quanto accaduto a Parigi è un episodio e come tale va valutato, un episodio che poteva essere previsto, e che si somma ad altri episodi avvenuti in varie parti del mondo sempre a opera di integralisti islamici contro islamici non integralisti.  Non è una guerra. Non facciamoci vincere dall’isteria. Anche gli islamici sono vittime dei fondamentalisti, aiutiamoli, stiamogli vicino, non alimentiamo noi stessi il loro odio nei nostri confronti. Il bambino che sta per lanciare la bomba contro gli americani a Falluja, ritratto nel film American sniper di Clint Eastwood, nella vita reale potrebbe diventare un terrorista pronto a uccidere in nome di Allah.

Se seguiamo la strada della guerra ovunque nel mondo, aiuteremo solo i fabbricatori di armi, l’equilibrio fondato sul terrore e la paura, che porta a più repressione, all’innalzamento di nuove barriere e a minori libertà. Il dissenso è difficile da gestire, per il partito unico del capitale qualsiasi occasione è buona per limitarlo.  Già si parla di ristabilire le frontiere in Europa, Le Pen propone la pena di morte in Francia, Salvini approfitta per criminalizzare tutti gli islamici in Italia. Il partito della paura è il più forte di tutti, nessuno rinuncia ad arruolarvisi. Chi rimane fuori rimane solo. Bersaglio facile come Charlie Hebdo.

“Il successo del terrorismo dipende dalle conseguenze che innesca” scrive Simon Jenkins su “The Guardian”.  I terroristi non vogliono altro che questo: che diventiamo come loro. Che vinca la violenza e l’odio, in nome della libertà. Un paradosso atroce.

D’altra parte siamo campioni nel proclamare la libertà e negarla appena c’è qualcuno che la usa contro di noi. Non è un caso che la satira in Italia non esista quasi più. In casa nostra non c’è bisogno di fondamentalisti, la libertà ce la togliamo da soli.

direttore editoriale di Chiarelettere e membro del cda del Fatto quotidiano

Cantiere in corso: “L’amico degli eroi”

Artwork_A3_L'amico_degli_Eroi_CMYKlightIl progetto di spettacolo (e libro) L’amico degli eroi sta prendendo corpo e in questi giorni trova la sua (quasi) forma finale: oltre alla parte prettamente teatrale (quella di narrazione pura di cui ho parlato anche con gli amici de L’Ora Quotidiano qui) stiamo concludendo il montaggio degli spezzoni video che saranno le fondamenta della parte “documentale”. Non che ci sia molto da aggiungere agli atti processuali (che credo, ancora una volta, avrebbero procurato un terremoto politico in un Paese normale con un muscolo della curiosità non atrofizzato) ma quello che mi interessa, che ci in teressa è cogliere in Marcello Dell’Utri (e Vittorio Mangano e ovviamente il loro padrone) una formula di servilismo che non dista troppo dall’Arlecchino servitore di due padroni di goldoniana memoria: anche il fine di Marcello è quello di mangiare a sazietà.

Dopo l’anteprima stiamo anche cominciando a preparare la distribuzione dello spettacolo che, come tutti i nostri lavori ultimi, seguirà poco i canoni ufficiali del malandato teatro canonicamente inteso quanto piuttosto le molte associazioni di cittadini che ritengono la memoria un esercizio quotidiano fondamentale per l’ecologia democratica. Mi sorprende tra l’altro (anzi no, non mi sorprende per niente) che nessuno dei miei “colleghi” teatranti o comunque generalmente “operatori culturali” sottolinei la distribuzione sociale come il vero grande ritorno di questi anni di crisi della cultura: come già ci insegnò il maestro Dario Fo esiste un teatro che per argomenti e modi può continuare a vivere senza bisogno di istituzionalizzarsi e questa non può che essere una buona notizia (a proposito: tutti zitti sulla distribuzione sociale anche del film di Sabina “La trattativa”, che non si sappia che il pubblico desidera un film di più di quanto lo dovrebbe desiderare la “grande distribuzione”).

Stiamo cercando di parlare e far parlare anche del crowdfunding (io continuo a preferire “produzione sociale”) che ci permette di completare la produzione dello spettacolo e la stampa e distribuzione dei libri. Se ci credete anche voi aiutateci a spargere la voce. Le donazioni si raccolgono qui.

Buona lavoro. A noi e a voi.

La parole (chiare) di Claudio Fava sul caso Manca

attilio-manca1Non usa mezzi termini Claudio Fava dopo la convocazione a Palazzo San Macuto dei magistrati di Viterbo titolari dell’inchiesta sulla morte dell’urologo Attilio Manca: il vicepresidente dell’Antimafia parla di “sciatterie giudiziarie”, di “superficialità”, e di “pregiudizi negativi” nei confronti della vittima, ma non vuole immaginare complotti, almeno ufficialmente, “per evitare di allontanarci dalla verità”. Stiamo ai fatti, dice Fava. “Ci sono due certezze: la prima è che questa inchiesta è stata fatta male, la seconda è che a Barcellona Pozzo di Gotto (città di origine di Attilio Manca, ndr.) qualcuno mente”.

Qual è l’impressione finale dopo aver ascoltato i magistrati?

“Non è una magnifica impressione. Questa inchiesta è stata gestita con eccessiva sufficienza. Non è un caso che buona parte delle attività istruttorie siano state ripetute, o siano state fatte per la prima volta soltanto su sollecitazione del Gip. Mi è sembrato (e questa la cosa più preoccupante) che ci fosse un pregiudizio negativo addirittura nei confronti della vittima, nel senso che non si riescono ad immaginare ipotesi diverse dalla morte accidentale per overdose. Di fronte ad ogni evidenza, l’atteggiamento di questi magistrati è stato quello di spazzare via il beneficio del dubbio con sufficienza, come per dire: era un tossicodipendente occasionale, ma no, forse era un consumatore frequente, il naso si è fracassato cadendo sul letto, probabilmente perché è stato in posizione supina per molte ore, insomma molte cose di fronte alle quali chiunque si sarebbe fermato un attimo a ragionare”.

Crede che dietro alla morte di Attilio Manca ci sia qualcosa di grosso?

“Attilio Manca non è morto per un’overdose accidentale. E’ un omicidio organizzato con pignola attenzione anche nei dettagli. Credo che Manca si sia trovato coinvolto, consapevolmente o inconsapevolmente, in una vicenda che ha riguardato l’operazione e le cure post operatorie prestate a Provenzano per il tumore alla prostata, e che per questa ragione sia stato ucciso”.

Non è eccessivo che i magistrati di Viterbo – durante l’audizione in Commissione antimafia – abbiano bollato Attilio Manca come un drogato, attribuendo questo termine alla madre che, cinque giorni dopo la morte del figlio, dichiarò a verbale che Attilio, negli anni del liceo, ‘’si era fatto qualche canna’’? La Polizia, invece di scrivere marijuana, scrisse “stupefacenti”, creando da quel momento l’equivoco che Attilio Manca fosse un tossico…

“In Commissione i magistrati hanno citato la deposizione della madre, che ovviamente si riferiva a un periodo studentesco in cui il ragazzo si sarà fatto qualche spinello. Però dicono pure di avere ascoltato alcuni amici d’infanzia di Barcellona, che Attilio Manca avrebbe continuato a frequentare. Secondo costoro, quando il medico scendeva in Sicilia, si ritrovava con loro anche per fare uso di eroina. Tutto questo, però, non ha avuto alcun riscontro. I colleghi laziali di Manca, sentiti sul punto, hanno smentito tutto. Peraltro è praticamente impossibile che un chirurgo possa fare uso di eroina e al tempo stesso entrare in sala operatoria con la stessa abilità di Manca”.

A proposito dei quattro ex “amici” barcellonesi che accusano Attilio Manca di essere un drogato: appartengono al contesto del circolo paramassonico “Corda fratres”, di cui fanno parte, fra gli altri, i boss Rosario Cattafi, uomo di Santapaola e dei servizi segreti deviati, e Giuseppe Gullotti, colui che recapitò a Giovanni Brusca il telecomando della strage di Capaci e che è stato ritenuto dalla Cassazione il mandante dell’assassinio del giornalista Beppe Alfano. Fra questi ex “amici” c’è anche il cugino dell’urologo, tale Ugo Manca (coinvolto in questa storia, la cui posizione è stata archiviata a Viterbo), che risulta vicino alla mafia di Barcellona e al tempo stesso intimo amico dei Colletti bianchi della città.

“In questa indagine non è stato approfondito neanche il contesto criminale di Barcellona. Che vede insieme, in un’unica filiera, Provenzano (che trascorre periodi della sua latitanza proprio in quella città) e Cattafi (che lo ospita), legato a sua volta a Ugo Manca. Non è stata considerata la possibilità di intervenire su quel tessuto di amicizie locali, pilotandole in certe direzioni”.

In che senso?

“La donna romana, considerata dai magistrati di Viterbo come la presunta fornitrice di eroina di Attilio Manca, conduce anche lei a Barcellona. C’è un rapporto dei Ros che mette insieme Provenzano, Barcellona e Cattafi, il quale, ripeto, frequentava Ugo Manca. La cosa sbalorditiva è che i magistrati di Viterbo dicono di non conoscere neanche questo rapporto. Stessa cosa della permanenza di Provenzano a Barcellona. L’unica cosa che dicono di sapere è che Provenzano non può essere stato operato da Manca perché l’intervento non sarebbe stato eseguito in laparoscopia, tecnica nella quale era specializzato Attilio. La cosa impressionante è che sono apparsi informatissimi su alcuni dettagli e particolarmente disinformati sulla dimensione criminale di Provenzano in relazione a Barcellona”.

La famiglia Manca, in tutti questi anni, neanche è stata ascoltata dai magistrati laziali.

“Trovo davvero singolare che la famiglia non sia stata ammessa neanche come parte civile al processo, così come trovo singolare che non siano stati sentiti il padre, la madre e il fratello di Attilio. Ci si è affidati a qualche interrogatorio a distanza, condotto al Commissariato di Barcellona. Penso che sia naturale, in casi del genere, per un pubblico ministero ascoltare un genitore. Non è stato fatto neanche questo”.

(fonte)

‘Ndrangheta a Perugia: i fatti e i nomi

La droga arrivava su dalla Calabria fino a Perugia occultata nei trolley a bordo di autobus di linea privati. Ogni due settimane fino a dieci chili della polvere magica che poi immessa sul mercato umbro fruttava ai calabresi centinaia di migliaia di euro. A finire in manette nell’operazione condotta dagli uomini del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, un gruppo di ‘ndranghetisti crotonesi impiantanti a Perugia, tutti ritenuti appartenenti alla cosca dei Farao-Marincola di Cirò, operante da tempo sul territorio umbro. Un traffico di stupefacenti sul quale gli uomini del Ros sono riusciti a mettere le mani partendo dalle carte del processo a carico di Gregorio Procopio, attualmente in attesa della sentenza di Cassazione, il cui imputato è ritenuto responsabile dell’omicidio di Roberto Provenzano, muratore 37enne originario di Maida, in provincia di Catanzaro, ucciso da un colpo di pistola alla tempia la notte tra il 28 e il 29 maggio del 2005 e ritrovato in un lago di sangue nel bagno della sua abitazione di Ponte Felcino alle porte di Perugia. Secondo quanto illustrato dal Pm della Dda di Perugia Antonella Duchini le intercettazioni già oggetto del dibattimento processuale, sono state rilette e rivisitate, incrociate con le carte dell’inchiesta ”Acroterium”, anche alla luce di nuove tecniche investigative, grazie alle tecniche di filtraggio operate dalRIS dei Carabinieri di Roma, hanno portato all’individuazione degli altri presunti responsabili, convincendo il Gip ad emettere la nuova ordinanza cautelare per altre sei persone. A finire in manette in relazione all’omicidio sono stati Antonio Procopio, Elia Francesco e Platon Guasi, indicati come esecutori materiali, e Salvatore Papaianni, Vincenzo Bartolo e Giuseppe Affatato, che avrebbero invece ordinato il delitto. Soggetti ritenuti appartenenti al gruppo criminale dei calabresi che teneva praticamente il monopolio del traffico di cocaina nel perugino. Secondo quanto emerso dalle indagini, una volta giunta in Umbria, la coca veniva venduta sul mercato locale attraverso una fitta rete di spacciatori. “Dobbiamo andare dal dottore“, “sono pronte le patate rosse“: queste le parole d’ordine che servivano a pusher e ganci per capire che la droga era arrivata a Perugia ed era pronta per essere spacciata. L’asse Calabria-Umbria garantiva una fiorente attività di narcotraffico, attraverso la distribuzione di ingenti partite di cocaina nelle province di Perugia e Terni. Venivano poi stabiliti i compensi per le attività illecite: spezzare le gambe o appiccare un incendio costava circa 7 o 8 mila euro. Un gruppo criminale che, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, costituisce la naturale prosecuzione della locale di ‘ndrangheta, già capeggiata dai pregiudicati Salvatore Papainni, Vincenzo Bartolo ed Francesco Elia, che nei primi anni 2000 gestiva il traffico di sostanze stupefacenti nel capoluogo umbro e che aveva ordinato l’omicidio di Roberto Provenzano. Circostanza, quest’ultima, ricostruita anche grazie alle dichiarazioni del testimone di giustizia Giuseppe Affatato, uno dei mandanti dell’omicidio, che nel settembre del 2013 aveva ricordato ai complici che eventuali “sgarri” nei pagamenti della droga avrebbero comportato “un colpo in fronte”, esattamente come avvenuto era avvenuto per Provenzano.

(clic)

“Ammazzalo”: a Perugia la mafia non esiste


Anche una condanna a morte pronunciata dal boss nelle intercettazioni finite nell’inchiesta che ha colpito a Perugia un gruppo criminale collegato alla cosca di ‘Ndrangheta dei Farao-Marincola, capeggiato dai pregiudicati Salvatore Papaianni, Vincenzo Bartolo e Francesco Elia. Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia perugina, hanno fatto luce su un traffico di cocaina dalla Calabria al capoluogo umbro, ma hanno anche permesso di individuare mandanti, organizzatori ed esecutori materiali di un omicidio avvenuto nel maggio del 2005: Roberto Provenzano fu ucciso con un colpo di pistola alla testa per uno “sgarro” nei pagamenti della droga. Le ordinanze cautelari eseguite dai carabinieri del Ros hanno riguardato 20 persone, non solo in Umbria, ma anche nelle province di Catanzaro, Crotone, Terni, Prato e Roma. I carabinieri hanno diffuso alcune delle conversazioni tra gli indagati che sono state intercettate.

Quelli che sì, ma…

img1024-700_dettaglio2_Copertina-del-Charlie-Hebdo-dopo-lattentato-ReutersIn questi anni ci siamo sentiti un po’ soli nel tentativo di respingere a colpi di matita gli insulti e le sottigliezze pseudo-intellettuali scagliate contro di noi e contro i nostri amici che difendevano la laicità: islamofobi, cristianofobi, provocatori, irresponsabili, attizzatori di fiamme, ve-la-siete-cercata… Sì, condanniamo il terrorismo, ma. Sì, minacciare i vignettisti di morte non va bene, ma. Sì, dare fuoco a un giornale è brutto, ma. Ne abbiamo sentite di tutti i colori. Spesso abbiamo cercato di riderci su, visto che è la cosa che ci riesce meglio. Adesso però ci piacerebbe molto ridere di altro. Perché stanno già ricominciando.

(Gerard Biard, Charlie Hebdo)

 

L’intelligenza sta (forse) nel dubbio: “Nous sommes Charlie ma noi siamo anche i genitori dei tre assassini”.

Mai come in questi ultimi giorni ho imparato quanto siano pericolose le persone senza dubbi: fedeli a se stessi riescono a vivere i propri luoghi comuni come un dogma incrollabile. La categorizzazione di questi giorni, ad esempio, propone dei tipi umani costruiti banalmente sull’educazione religiosa come se non esistessero le mille sfumature di una socialità umana che si perde in mille rivoli. Per questo credo che valga la pena leggere la lettera tradotta da Claudia Vago che pone (per chi ama coltivare dubbi e farsi domande non accomodanti) quesiti interessanti:

Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso. Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere. Questo discorso ci rassicura, a causa della sua ipotetica coerenza razionale, e il nostro status sociale lo legittima. Quelli di Charlie Hebdo ci facevano ridere; condividevamo i loro valori. In questo, l’attentato ci colpisce. Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti. Noi siamo Charlie per questo.

Ma facciamo lo sforzo di un cambio di punto di vista, e proviamo a guardarci come ci guardano i nostri studenti. Siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, siamo al di là di quelle contingenze materiali che fanno sì che noi non sbaviamo sugli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri studenti: se non li possediamo è forse anche perché potremmo avere i mezzi per possederli. Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte. Consideriamo un dato acquisito che La libertà che guida il popolo e Candido fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ci direte che l’universale è di diritto e non di fatto e che molti abitanti del pianeta non conoscono Voltaire? Che banda di ignoranti… E’ tempo che entrino nella Storia: il discorso di Dakar ha già spiegato loro. Per quanto riguarda coloro che vengono da altrove e vivono tra noi, che tacciano e obbediscano.

Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia. Questi due assassini sono come i nostri studenti. Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili. Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici che ammirano il nostro impegno quotidiano. Ma che nessuno qui venga a dirci che con tutto quello che facciamo siamo sdoganati da questa responsabilità. Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani, noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse, noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo, noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo, noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc. : noi siamo responsabili di questa situazione.

Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna.

Allora, noi diciamo la nostra vergogna. Vergogna e collera: ecco una situazione psicologica ben più scomoda che il dolore e la rabbia. Se proviamo dolore e rabbia possiamo accusare gli altri. Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi?

Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità. Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia. Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio.

Intellettuali, pensatori, universitari, artisti, giornalisti: abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri. Quelli che li hanno uccisi sono figli della Francia. Allora, apriamo gli occhi sulla situazione, per capire come siamo arrivati qua, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera, più uguale, più fraterna.

« Nous sommes Charlie », possiamo appuntarci sul risvolto della giacca. Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto. Noi siamo anche i genitori dei tre assassini.

Catherine Robert, Isabelle Richer, Valérie Louys et Damien Boussard

‘Ndrangheta padana: condannato l’ultimo mandante dell’omicidio Novella

LEUZZI-COSIMO-GIUSEPPE-54Voleva dividere la ‘ndrangheta, sognava per sé il ruolo di capo indiscusso della Lombardia. Non fece in tempo, due killer lo giustiziarono mentre sorseggiava cappuccino bianco ai tavolini di una bar a San Vittore Olona. Era il tardo pomeriggio del 14 luglio 2008. Carmelo Novella, il boss secessionista, ebbe solo il tempo di fissare le armi che da lì a pochi secondi lo avrebbero ucciso. Sette anni e sei mesi dopo, il Ros di Milano chiude il cerchio attorno a uno dei più eclatanti omicidi di mafia nel nord Italia. Questa mattina, infatti, il giudice per le indagini preliminari Andrea Ghinetti ha firmato un’ordinanza di custodia in carcere per il capo della locale di Stignano Cosimo Giuseppe Leuzzi, ritenuto il terzo e ultimo mandante dell’esecuzione, incastrato dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia.

Si tratta del nono provvedimento cautelare dal 5 luglio 2010 quando tra Calabria e Lombardia scattò il maxi-blitz Crimine-Infinito. Nella rete, allora, finì anche Antonino Belnome, padrino di Seregno, il quale la sera del Natale 2010 decise di collaborare con la giustizia. Da quel momento il boss della ‘ndrangheta, con natali tutti lombardi, ha riempito migliaia di pagine di verbali. Belnome parla anche dell’omicidio Novella. E lo fa a ragion veduta visto che lui è uno dei due killer. Svela che a decretare la morte del boss furono i capi della ‘ndrangheta tra Guardavalle e Monasterace, Vincenzo Gullace e Andrea Ruga. L’altro killer si chiama Micheal Panajia, anche lui affiliato alla locale di Seregno, anche lui collaboratore di giustizia. Ed è grazie alla sua testimonianza che l’antimafia milanese è riuscita ad accendere la luce sul terzo mandante dell’omicidio. Recita il capo d’imputazione: “Cosimo Leuzzi, capo della locale di Stignano alleata con le locali di Monasterace e Guardavalle agiva in qualità di mandante (…) deliberando l’omicidio di Carmelo Novella e incaricando Panajia e Belnome della esecuzione”.

All’inizio del 2012 Panajia, del quale le forze dell’ordine conoscono ben poco, decide di collaborare. Parla molto, ma non dice tutto. In particolare non approfondisce la figura di Leuzzi, al quale è molto legato. La decisione arriva nell’estate dello stesso anno, quando, scrive il gip, “Panajia ha finalmente vinto ogni resistenza e ha raccontato l’origine e l’evolversi del proprio rapporto con Cosimo Leuzzi, personaggio carismatico che, specie dopo gli omicidi Novella e Ierinò, ebbe a occupare nella vita di Panajia il ruolo di maestro“. Prosegue il giudice: “Panajia ha detto di avere conosciuto Cosimo Leuzzi nel 2007 e che lo stesso gli venne presentato da Cosimo Spatari con il quale egli aveva stretto una forte amicizia tanto da avere con questi il sangianni, avendolo designato come padrino di battesimo della figlia”.

Il collaboratore di giustizia, poi, spiega la genesi dell’omicidio. Dice Panajia: “A dicembre di quell’anno (2007,ndr), quando io ho battezzato mia figlia (…) invitai Leuzzi” che “mi chiamò una sera, mi fece convocare da Cosimo Spatari (…) c’era anche Andrea Ruga”. Quelli di Panajia sono ricordi nitidi: “Eravamo nel salotto a casa di Leuzzi. Ci siamo salutati, abbiamo bevuto qualcosa e poi siamo usciti fuori da casa e siamo andati dietro che lui ha una specie di box, non abbiamo parlato in casa, e mi disse Leuzzi: senti, vedi che a Milano c’è un lavoro da fare, te la senti di darci una mano?Ci dai lo disponibilità?”. Panajia risponde affermativamente. Con Belnome parteciperà all’omicidio di Carmelo Novella.

Il giorno dopo l’esecuzione, il killer si trova in un locale di Guardavalle, il Molo 13. “Sono entrato e al bancone del bar c’era Domenico Tedesco, l ‘ho salutato, mi ha offerto un caffè. (…) Mi venne incontro Antonio Belnome, ci salutammo. Disse: entra dentro che ti stanno aspettando. A un tavolo c’era seduto Cosimo Leuzzi, Andrea Ruga e questa persona che mi dovevano presentare che era Vicenzo Gallace, era la prima volta che lo vedevo (…) Ci salutammo e mi disse: ti ringrazio di cuore per la cosa di Milano”. Quindi Leuzzi consegna a Panajia una mazzetta da tremila euro invitandolo nella sua villa per una cena.

Le parole di Micheal Panjia, secondo il giudice, completano quelle dello stesso Belnome, il quale, davanti al pubblico ministero Alessandra Dolci, aveva già parlato del ruolo di Leuzzi. Riassume il giudice: “Belnome ha più volte parlato dell’alleanza esistente tra Vincenzo Gallace, Andrea Ruga e costui, dicendo che i medesimi erano i tre uomini più potenti della costa ionica (” .. sono oggi i numeri uno e sono tutti e tre insieme”) e precisando che ogni decisione che riguardi Guardavalle, Monasterace e Stignano veniva presa congiuntamente da Leuzzi, Gallace e Ruga”.

Lo stesso Belnome ha ricordi ben precisi sul giorno successivo all’esecuzione. Ecco, allora, cosa racconta ai magistrati di Milano. “Le spiego – dice l’ex boss – perché dopo che arrivò Panajia andammo a casa di Vincenzo Gallace che ci fece trovare una tavola nella sua taverna piena di pasticcini e bottiglie di champagne, eravamo io, Panajia, il genero di Gallace, Franco Aloi, Leuzzi, si discusse delle dinamiche e si accennò all’omicidio”.

Per le parole di Blenome, la posizione di Leuzzi viene stralciata e nel febbraio 2012 lo stesso giudice Ghinetti chiede l’archiviazione. Il fascicolo è stato riaperto, quando a maggio dello stesso anno Panajia svela i suoi rapporti con il boss di Stignano, il quale, attualmente si trova in carcere dopo che la corte d’Appello di Reggio Calabria nel febbraio 2014 gli ha confermato otto anni di carcere per l’inchiesta Crimine-Infinito. Oggi per Leuzzi, il giudice di Milano ha firmato un’ennesima ordinanza in carcere sottolineando come “il pericolo di reiterazione del reato è quanto mai attuale e concreto ove si consideri che dall’omicidio Novella è scaturita una vera e propria faida tuttora in corso”.

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