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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

“Mafia Capitale”: le armi nascoste nel cimitero o nei battiscopa

Nascondendo le armi dentro il cimitero monumentale del Verano, gli uomini ritenuti essere il trait de union tra le ’ndrine calabresi e l’organizzazione «Mafia Capitale», pensavano di essere al sicuro. Invece i militari del Ros, durante una perquisizione effettuata lo scorso 11 dicembre negli spogliatoi a disposizione degli impiegati dello storico cimitero romano, avevano trovato alcuni documenti relativi ad armi, munizioni e anche un «serbatoio monofilare per pistola». Il caricatore era custodito nell’armadietto personale di Salvatore Ruggiero. L’uomo, secondo gli inquirenti, insieme a Rocco Rotolo, assicurava il collegamento tra la cosche calabresi e le cooperative gestite da Salvatore Buzzi. Un legame che garantiva ai romani una certa «protezione», una sicurezza ricambiata da Buzzi e Carminati che «avrebbero creato – scrivono gli inquirenti – la Cooperativa Santo Stefano Onlus, che nella progettualità dello stesso Buzzi sarebbe stata una “Cooperativa di ‘ndranghetisti”». Inoltre, a bordo della Citroen di proprietà di Ruggero, gli investigatori avevano anche trovato l’occorrente per la pulizia e manutenzione delle armi. Il Verano non era l’unico posto dove, secondo la procura di Roma, venivano custoditi gli armamenti. Rotolo, durante una conversazione intercettata successivamente all’arresto del «Cecato», spiegava al suo interlocutore di aver approntato, nei pressi della sua abitazione, un nascondiglio: «Ce l’ho a casa…mo’ poi ho preso la mezza panchina di queste..l’ho scavata dentro… gli ho fatto la vaschetta… e mo’ la monto…li scavo dentro… gli faccio il posto… poi ci metto un filo di silicone nel contorno…e chiudo…e la metto a mo’ di gradino». Ma le armi possono deteriorarsi a causa dell’umidità perché «il marmo è maledetto», quindi occorre celarle in un luogo dove sia possibile estrarle con facilità: «Basta togliere una mattonella del battiscopa per fare nu’ buco – continua l’indagato – incolli il battiscopa con la calamita… metti… u’ ferru… e il battiscopa..e la calamita nel buco». Così è possibile prelevare velocemente l’arma: «Quando ti serve…tiri avanti la calamita…tiri la mattonella….e stacchi la calamita…co’ la colla speciale… iu adesso quando ho tempo u facci…» continua l’uomo specificando che tale operazione risultava essere di sicura efficacia contro eventuali controlli delle forze dell’ordine: «Non mi’ ’i trovano mai…a me…a casa mia….u sistema è questo qua…ce l’ho dietro a cucina…e a stufa a pellet…o dietro l’armadio…non vanno mai col metaldetector basso capito…?». Effettivamente, presso la casa di Rotolo non è stata trovata neanche una pistola.

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Per quelli che “non è mafia”: Mafia Capitale si riorganizzava come un oliato clan

Minacce di morte, pizzini e regole sulla successione. Roba da associazione mafiosa, per l’appunto, quella che ieri la procura di Roma ha depositato al tribunale dei Riesame, chiamato a decidere sulla revoca della custodia cautelare di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, entrambi calabresi ed entrambi in carcere dall’11 dicembre scorso nell’ambito dell’inchiesta su Mafia Capitale (i giudici si sono riservati).

I due, accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso, sarebbero il collegamento tra la banda guidata da Massimo Carminati e il clan Mancuso di Vibo Valentia. Un legame che avrebbe uno snodo centrale in Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative capitoline, considerato dai pm il braccio finanziario del “Cecato”. Parla chiaro l’informativa che i carabinieri del Ros del 3 gennaio: i legami con i calabresi c’erano eccome, secondo l’accusa.

Il 3 dicembre, giorno successivo ai primi arresti, Rotolo e Ruggiero (in quel momento ancora a piede libero, ndr) non si danno pace. Commentano gli arresti con gli amici, si preoccupano di non fare la stessa fine. E pensano alla gestione futura: già il giorno successivo alla retata, fissano un incontro per decidere che cosa ne sarà della Cooperativa 29 giugno, fino ad allora guidata da Buzzi.

Prima di andare alla riunione Rotolo incontra Franco La Maestra, ex brigatista condannato a 18 anni di carcere e coinvolto nell’omicidio di Massimo D’Antona, e uomo di fiducia di Buzzi. L’ex terrorista racconta: “Ieri l’ho visto (Buzzi, ndr). C’ha teso a specificà a noi de Giovanni (Campennì, ndr). .. ha detto… “quello non deve… non si deve neanche avvicina’…” le testuali parole so state queste mentre lo portavano via… “non voglio che Giovanni stia in mezzo ai piedi”… ci ha detto a me e a Salvatore (Ruggiero, ndr)”. Giovanni Campennì, imprenditore, secondo i pm Giuseppe Cascini, Paolo Ielo e Luca Tescaroli è il collegamento tra Buzzi e la ‘ndrangheta.

Non a caso Rocco e La Maestra si stupiscono delle parole di Buzzi e si chiedono se quest’ultimo non avesse appositamente voluto far individuare Campennì dalle forze dell’ordine. “E se l’è cantatu stu scemo di merda?  –  chiede Rotolo  –  I Mancuso u ‘mmazzano”. Sta di fatto che, proprio come nella tradizione mafiosa, Buzzi negli attimi prima di finire in carcere, riesce a dare le indicazioni sulla sua “successione” alla guida delle cooperative. Vuole escludere Campennì e decidere chi deve prendere il suo posto. “Mentre andava via  –  dice ancora La Maestra a Rotolo  –  m’ha guardato e m’ha fatto: “Me raccomando, non litigate. Tu sei il capo, mi raccomando, non litigate”. Poi mentre andava via mi ha detto: “Ci vediamo tra due anni”… lui s’è già attrezzato”.

Infine i pizzini. I militari del Ros ne hanno sequestrati alcuni a casa di Salvatore Ruggiero. In mezzo a una serie di ricevute di pagamento da parte della Cooperativa 29 Giugno, gli investigatori hanno trovato anche due pen drive, una lettera del 2004 in cui Buzzi invitava i suoi soci e dipendenti a votare Oriano Giovannelli e Nicola Zingaretti al Parlamento europeo e tre pizzini. Uno con la dicitura “Glok 179.21, uno con scritto “Rosario 29 giugno” e un terzo: “Fasciani”. Probabilmente il riferimento è al clan che da anni gestisce la malavita di Ostia. Elementi sui quali ora il Ros è al lavoro.

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EXPO: di peggio in peggio

Ne scrive Piero Colaprico oggi:

Te lo confidano a mezza voce i penalisti: “Ci sono aziende che ormai non possono più lavorare perché uno dei soci è pregiudicato, e ci chiamano per un consiglio, ma che possiamo fare?”. Lo sussurrano informalmente i poliziotti: “I mafiosi qui hanno finito di scherzare e sentirsi impuniti, li possiamo toccare sui soldi, come insegnava Giovanni Falcone”. Chi ufficialmente potrebbe parlare, tace in pubblico. Ma il dato di fatto è certo. È cominciata nei territori del Nord una guerra dura e silenziosa alla mafia imprenditrice, alla “zona grigia”. E l’Expo di Milano è la trincea più avanzata.

Repubblica ha potuto osservare alcuni documenti riservati. Ne ha tratto cinque episodi, sufficienti a raccontare un “sistema”. Un’impresa di costruzioni era entrata nella White List delle aziende affidabili per i cantieri Expo e poteva stare tranquilla. Invece è finita “out”: mandava sul cantiere della Tangenziale est esterna auto, camion e ruspe con le targhe clonate. Cioè affidava ad altri imprenditori, molto meno “puliti”, gli importanti lavori che aveva ottenuyo. E per evitare i controlli, aveva ideato la “furbata”: mettere le proprie targhe, autorizzate, su mezzi non autorizzati, e guidati da dipendenti di aziende che erano state in qualche caso già cacciate dai cantieri. Via tutti, dunque, senza possibilità di rientrare.

Un’altra impresa gode – è facile “apparecchiare” le carte – della liberatoria antimafia. Ma s’indaga lo stesso: una delle titolari è sposata con un detenuto, esperto nel traffico internazionale di stupefacenti. Il capitale sociale serve, viene accertato, “alle spese legali e al sostentamento dei familiari”, e questo motivo basta e avanza per sbattere fuori dai cantieri quest’azienda. E anche la terza azienda appare a prima vista specchiata, ma ha assunto – attenzione: i detective solitamente sono scettici riguardo alle coincidenze – esclusivamente operai che arrivano da un piccolo paese del crotonese. È una forma di campanilismo oppure c’è altro? E chi sono questi lavoratori? Vengono censiti e “radiografati”: o sono uomini con precedenti penali, oppure risultano legati (si legge) “a cosche di grande spessore criminale”. Tra i “paesani”, infatti, c’è chi si occupa di prostituzione, chi viene trovato con armi e, un giorno, sul cantiere appare, nonostante non c’entri nulla, un pregiudicato condannato per il 416 bis, l’associazione mafiosa. Via dall’Expo e dintorni anche questa ditta.

La quarta azienda è a conduzione familiare, ha contratti sia con la metropolitana di Milano che con la tangenziale. Attende il sì per entrare nella White List ed è tutto all’insegna del “no problem”, finché l’amministratore unico “viene trovato in possesso di due pistole con matricola abrasa e un numero consistente di cartucce”. Emerge una parentela: questo “amministratore calibro 9”, sino ad allora incensurato, è nato nella stessa famiglia di un capomafia “strettamente collegato – così nel documento riservato – ai vertici di Cosa Nostra”. Via anche questa. E anche la quinta impresa è a conduzione familiare: viene gestita da due giovani fratelli, immacolati, mai un guaio con la legge. Si occupano del “movimento terra”. Sono anche e costano poco. Purtroppo per i due, è il papà che fa squillare il campanello d’allarme. Ha un fascicolo penale alto come un vocabolario e frequenta moltissimi pregiudicati. Le colpe dei padri ricadono dunque sui figli – e tra poco spiegheremo perché a Milano sta passando questo principio che può far discutere – e vanno cacciati. Questo è l’ordine della prefettura, la chiamano in burocratese “interdittiva”.

Contro questa mano pesante dello Stato, alcune imprese sono scese in campo e hanno combattuto i divieti con l’arma della legalità. Hanno fatto ricorso al Tar, ma hanno perso. Consiglio di Stato, tappa successiva: hanno perso anche lì. Dunque, siamo di fronte ad un assoluto inedito: che cosa sta succedendo a Milano? Che cosa costringe il resto dell’Italia dell’antimafia seria a guardare con grandissima attenzione quello che succede intorno a Expo?

Un rapido passo indietro. L’Italia aveva dichiarato al mondo che l’Expo sarà un evento “mafia free”. Su questo slogan hanno convinto alcuni scettici, tra i quali gli americani. Ma lo slogan “mafia-free” è la sintesi di un concetto che appare come una rivoluzione copernicana della lotta alla mafia imprenditrice. Lo possiamo riassumere così: “Se “appalti pubblici” vuol dire (anche) soldi pubblici che dallo Stato vanno alle aziende, spetta o no allo Stato impedire che i “suoi” denari possano entrare nelle casse di imprese che non convincono?”.

La prefettura di corso Monforte è diventata una specie di avamposto avanzato della nuova guerra. Non dichiarata mai apertamente, mai ufficialmente. Ma in corso. Sono state infatti emesse 68 “interdittive”, che proibiscono di partecipare ai lavori. I divieti riguardano 48 imprese sulle 367 che sono state controllate: vuol dire che il 13 %, più di una su 8, non supera l’esame.

“Se un privato accetta queste aziende, sono affari del privato, ma lo Stato vuole che i suoi cantieri siano cantieri senza criminali. E noi – dicono dalla prefettura – non abbiamo bisogno delle certezze che ci sono nel diritto penale per stabilire che un’azienda sia permeabile dalle organizzazioni criminali. Cioè, possiamo fare a meno degli elementi indiziari che possono portare in carcere, ma non per questo abbiamo meno scrupoli. Seguiamo alcuni “indicatori” e in questo modo impediamo ai soldi pubblici di finire in mani non corrette”. Ed è così che “Ci sono state più interdittive a Milano che sulla Salerno-Reggio Calabria”, ha detto Raffaele Cantone, presidente dell’Autority anticorruzione.

Funziona a Milano una sorta di gruppo misto – composto da antimafia e Asl, ispettorato del lavoro, vigili e funzionari della prefettura – che sta mettendo in ginocchio i “manager squali”. Questa pattuglia interforze va sui cantieri, ma dietro le quinte lavorano altri due gruppi più specializzati, il Gia (gruppo antimafia) e il Gicex (Gruppo Interforze Centrale per l’Expo 2015). Appena si accende un allarme rosso – e può essere un allarme “banale”: mancato rispetto delle norme sulla sicurezza del cantiere, presenza di personale non identificato e autorizzato, garbugli amministrativi, uso disinvolto del badge – l’azienda viene “attenzionata” dal gruppo misto e passata al setaccio dai detective, che possono incrociare le varie banche dati, da quelle del ministero dell’Interno a quelle “bancarie”.

Un lavoro certosino: sino alle vacanze di Natale escluse, sono stati controllati 1.436 tra auto, carri, e ruspe, 3.099 persone, 367 società. C’è stata un’evoluzione continua dei controlli: nel 2009 c’erano stati due accessi nei cantieri, tre nel 2010, sette nel 2011, sedici nel 2012, che diventano 18 l’anno dopo, ma nell’anno 2014, quando il prefetto Francesco Paolo Tronca è ormai convinto dell’efficacia della “procedura alla milanese” diventano 54: “Le forze attive, liberate dal la- voro burocratico che si è accollata la prefettura – hanno raccontato dalla prefettura milanese lo scorso maggio alla commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi – eseguono cinque accessi al mese sui cantieri, che consentono di controllare plurime aziende (…). Coloro che adesso fanno cinque controlli al mese, prima stavano alla scrivania, oggi stanno nel fango del cantiere”.

È questo cambiamento “amministrativo” nel metodo di contrasto ai clan e ai loro affari a segnare una svolta concreta. Le voci “milanesi” stanno circolando tra varie prefetture e gli apparati dello Stato. Questo metodo, viene detto, può estendersi ovunque, si può azzerare (“legalmente, facilmente”) la possibilità delle aziende grigie di avvicinarsi al “piatto ricco” degli appalti pubblici.

Siamo agli inizi, dunque, di nuovi metodi di contrasto alle mafie: di una questione che da Milano può rapidamente scendere lungo la penisola, per arrivare alle regioni al alta densità mafiosa passando dalle nuove emergenze di Mafia Capitale. E un altro di questi “sistemi” è stato potenziato dalla procura milanese.

Qui, è noto, l’antimafia ha condotto varie inchieste che hanno portato in carcere circa 400 persone legate ai clan calabresi e prodotto documenti impressionanti, che hanno fatto il giro del mondo. Come la votazione per alzata di mano del capo-rappresentante di tutti i “locali” (cosche) in Lombardia. O come il giuramento di affiliazione alla ‘ndrangheta nel nome di Mazzini, La Marmora e Garibaldi. Ma accanto ai blitz, è stata avviata una strategia mirata a colpire il professionista che sa di lavorare per i mafiosi, ma finge di non saperlo, di non essersene accorto. Il commercialista che prestava lo studio per le riunioni d’affari (inchiesta Valle), l’ufficiale dei carabinieri carico di encomi che in pensione aveva aperto l’agenzia privata d’investigazioni e security (caso Tnt), il prestanome degli usurai, l’addetto alla dogana: tutti questi (e altri) non erano imputabili, ma sono stati dichiarati “sorvegliati speciali”. Cioè hanno avuto il divieto di uscire prima delle 7 del mattino e di non rincasare dopo le 21, non possono avere armi e non devono “frequentare pregiudicati”.

Una sanzione, ma anche un’umiliazione: come spiegare nella cerchia di amici come mai non si va più a cena fuori? La richiesta delle misure di prevenzione è costante e la strategia ha un’altra appendice, che riguarda le banche. Alcuni direttori sapevano di trattare con i mafiosi? Sì, allora gli istituti di credito sono stati sospesi nei rapporti con questi clienti, al posto del direttore colluso è arrivato un curatore: è successo già tre volte.

Ilda Boccasini, procuratore aggiunto antimafia, con a fianco il procuratore capo Bruti Liberati, dice: “O si sta con la mafia o si sta con lo Stato”. In Italia, a cominciare da Milano, sembra che le sfumature di grigio sporco non siano più di moda.

Si chiamerebbe opposizione, mica gufi.

Luigi Ferrarella scrive sul Corriere un articolo condivisibile che rimarca (tra le altre cose) il ruolo del giornalismo e dell’opposizione: vigilare su errori (o sviste?) gravi come questa:

Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere.

È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo.
Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva.
Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm.

Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo – un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi – pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno.
Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti.

Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio).
Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno.

Non rompete le palle, lo ritiro

Dice Renzi che adesso dovete smetterla, che la riforma del fisco torna in Consiglio dei Ministri e sarà corretta.

Dice la renziana Bonafè che adesso dobbiamo smetterla, che “Le leggi ad personam riguardano lo scorso ventennio. Questo governo si occupa di tutti i cittadini. La prova sta nel ritiro”.

Dice Berlusconi che proprio non ce la facciamo a metterlo in mezzo ogni volta. Proprio mentre stava incitando il Milan e Cerci.

Dice il sottosegretario Faraone: “Il nostro governo fa norme che rispondono all’interesse dei cittadini. Di tutti i cittadini. Né norme ad personam né norme contra personam. Di tutto abbiamo bisogno tranne che dell’ennesimo dibattito sul futuro di un cittadino, specie in un momento come questo dove qualcuno teorizza strampalate ipotesi di scambi politici-giudiziari, anche alla luce del delicato momento istituzionale che il Paese si appresta a vivere”.

Nessuno dice “scusate abbiamo sbagliato”, nessuno. Siamo stronzi noi che l’abbiamo notato. E mentre noi puntiamo il dito non ci accorgiamo delle cose che contano: dei viadotti che cadono o i vigili che (forse, a sentire loro) fannulleggiano. Perché su questo Renzi non transige, eh: la pagheranno cara, la pagheranno tutti. Invece.

(Scritto per “scassare la minchia” su L’Espresso, qui)

(Anche) la ‘ndrangheta non sopporta i gay

Il figlio del boss viene scoperto dal padre su una chat gay ed è vivo grazie all’amore della madre. L’episodio è stato raccontato da Michele Prestipino, ex numero due della Direzione distrettuale di Reggio Calabria sotto la guida di Giuseppe Pignatone, a Klaus Davi durante il programma “KlausCondicio”. «Il ragazzo è salvo grazie alla madre. Ma se fosse stato per il padre, un potente boss locale, – ha detto Prestipino – non ci sarebbe stato scampo».

Il tutto perché il padre aveva scoperto che l’erede frequentava chat gay. «Essere omosessuale per uno ‘ndranghetista – ha raccontato Prestipino – ancora oggi è causa di vergogna, soprattutto se si è figli di un capo clan. Il giovane in questione ha potuto continuare a vivere la sua vita normalmente per un deciso intervento della madre. Se non fosse stato per lei il ragazzo sarebbe stato ucciso. Il figlio ora fa la sua vita, frequenta la scuola e nessuno l’ha mai toccato, nonostante tutti sappiano che è gay e frequenti chat per omosessuali. Quando si dice che c’è maschilismo, patriarcalità, la realtà è molto più complessa. Per uno che nella sua vita ha scelto non solo di essere mafioso ma anche di essere capo, rinunciare a fare del figlio maschio la propria appendice all’esterno o a dare la figlia femmina in matrimonio al figlio dell’altro boss per rafforzarsi ulteriormente non è una cosa semplice. Scoprire che il proprio erede è gay poi? Ma c’è una forza antagonista che interagisce, che è la forza di cui è portatrice la madre. Uccidere il figlio gay avrebbe comportato enormi rischi per la cosca in questione».

La Svizzera nella preistoria dell’antimafia

Per tutti quelli che vedono l’Italia come fanalino di coda di qualsiasi cosa e in primis nell’applicazione delle leggi vale la pena sottolineare come in Svizzera (angolo tanto caro alle mafie che nascondono i soldi in mezzo a tanti soldi perché si notino il meno possibile) sia praticamente impossibile condannare una persona per “associazione mafiosa”. Lo spiega bene il procuratore generale della Confederazione, Michael Lauber:

“La semplice appartenenza ad un’organizzazione criminale non è sufficiente per una condanna”, precisa Lauber in un’intervista diffusa oggi dalla “NZZ am Sonntag”. Bisogna provare che la persona abbia sostenuto concretamente l’organizzazione con attività criminali.

Nell’autunno 2012 è stata presa una decisione di principio sul tema. Da allora, vengono aperte procedure solamente in presenta di fatti provati. “In tutti gli altri casi, non apriamo procedure. Non possiamo più partire all’avventura”, ha detto il procuratore.

Lauber propone al Parlamento di modificare la legge, in modo da rendere la lotta al crimine organizzato più efficace. “L’articolo del Codice penale svizzero sulle organizzazioni criminali è molto difficile da applicare alle strutture mafiose”, ha sottolineato.

La provvidenziale distrazione.

Niente grazia, non serve. Questione di tempi e dettagli. Mettiamoli in fila: elezioni per il Quirinale alle porte, un provvedimento approvato alla vigilia di Natale, un articolo infilato in extremis, cinque righe di testo, e il patto del Nazareno si sublima: la riabilitazione di Silvio Berlusconi. Tecnicismi a parte è questo il possibile risultato della norma infilata da Palazzo Chigi nel decreto di attuazione della delega fiscale approvato lo scorso 24 dicembre.

Nei giorni scorsi il Fatto ha raccontato l’incredibile genesi di una modifica che non figurava nel testo uscito dal ministero dell’Economia (che l’aveva bocciata) e che – all’ultimo giro di boa – è comparsa poco prima di entrare nel Consiglio dei Ministri: di fatto permetterà al fu Cavaliere di tornare in campo, libero, cancellando con un tratto di penna la condanna a 4 anni – e due di interdizione dai pubblici uffici – per frode fiscale nel processo per i diritti tv Mediaset. Quella che lo ha fatto decadere da Senatore per effetto della legge Severino. La norma è l’articolo 19-bis. Questo stabilisce chiaramente che non si viene più puniti se Iva o imposte sui redditi evase “non sono superiori al 3% rispettivamente dell’imposta sul valore aggiunto o dell’imponibile dichiarato”. In pratica non c’è nessun limite, ma solo una proporzione, sotto la quale il reato penale scompare: quella che in gergo tecnico si chiama “soglia parametrata” e che ha fatto infuriare l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco e – stando a quanto appurato dal Fatto – preoccupa anche i vertici dell’Agenzia delle Entrate, a partire dalla neo direttrice Raffaella Orlandi, allieva di Visco. L’intervento avrà effetto non solo per il futuro, ma anche per i processi in corso e quelli ormai conclusi per effetto del “favor rei”, per cui le disposizioni penali favorevoli valgono anche per il passato. Non solo, la norma è stata scritta in modo da sanare non solo i reati di infedeltà fiscale, come l’evasione, ma anche la frode fiscale. Su un miliardo di reddito si può evadere o frodare il fisco fino a 30 milioni di euro.

E qui entra in gioco Berlusconi. L’altro contraente del patto del Nazareno (oltre Renzi, s’intende) è stato condannato per aver evaso il fisco, negli anni 2002 e 2003, per circa 7 milioni di euro, attraverso ammortamenti gonfiati dei diritti televisivi acquistati. È il residuo di una somma ben maggiore – i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro avevano calcolato in 368 milioni di dollari la cifra gonfiata ai fini dell’evasione fiscale – via via erosa dai tempi della prescrizione. Stando alla sentenza, nel 2002 l’importo evaso è di 4,9 milioni di euro su un reddito dichiarato di 397 milioni: l’1,2%. Sul 2003 si tratta invece di 2,4 su 312 milioni di euro: lo 0,7%. In entrambi gli anni la soglia del 3% non viene raggiunta. La percentuale è ancora più bassa se calcolata sul reddito vero (e non dichiarato), che per entrambi gli anni è superiore di qualche milione di euro. In questo modo il reato di frode non sussiste, e si paga solo la sanzione amministrativa. Cosa comporta? In gergo tecnico si chiama “incidente di esecuzione”: vista l’estinzione del reato, il condannato fa richiesta al tribunale, e il giudice fa decadere la sentenza di condanna. E con essa, in questo caso, non solo i servizi sociali – cui Berlusconi è stato assegnato – ma anche la pena accessoria, cioè l’interdizione (e quindi la decadenza da Senatore). È già successo ad altri condannati illustri, grazie proprio alle riforme berlusconiane (come quella sul falso in bilancio). Se così fosse, l’“agibilità politica ” per l’ex Cavaliere auspicata ieri da una fedelissima di Arcore come Stefania Prestigiacomo (Fi) come primo atto del prossimo inquilino del Colle sarebbe invece un dato già acquisito: “Serve un pacificatore”, ha spiegato. E invece è arrivata una manina in extremis. A poche settimane dall’inizio del round che porterà all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica, dopo le dimissioni di Giorgio Napolitano non è un dettaglio da poco. Tramontata definitivamente l’ipotesi di una convergenza con il M5S, i voti di Fi saranno decisivi per evitare una nuova empasse.

La manina risolve molti problemi. Ed è orfana. Come confermato da più fonti, e ieri dal sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti (Sc), la norma è stata infatti inserita all’ultimo da Palazzo Chigi dopo che il Tesoro l’aveva bocciata. E anche nella forma peggiore. Per intenderci: quella cassata dal Mef prevedeva l’applicazione solo per l’evasione, non per la frode. La modifica è comunque passata al vaglio del dipartimento affari giuridici della Presidenza del Consiglio, guidato dalla renzianissima Antonella Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze. Secondo Visco la norma è un “enorme regalo ai grandi evasori”. A cui si aggiunge anche la triplicazione delle soglie di punibilità (da 50 a 150 mila euro) che – secondo Il Sole 24 Ore – “farà saltare un processo su tre”. Zanetti ha auspicato una modifica (almeno per la frode). Tocca però a Matteo Renzi disporla.

(Link)

Emilia-Romagna – cose nostre (Cronaca di un biennio di mafie)

In Emilia Romagna c’è da anni una rete antimafia che è diventata adulta: riesce ad essere inclusiva, adotta seri parametri di analisi e difficilmente cerca il sensazionalismo o il sentimentalismo acritico. Per questo vi invito a leggere il loro nuovo dossier che ha il profumo delle cose fatte bene, prese terribilmente sul serio. Il pdf è Schermata 2015-01-03 alle 22.34.05qui.

Alcune note per spiegare al lettore cos’è ”Emilia-Romagna – cose nostre”. Questo lavoro non è un’opera letteraria, né un esauriente testo universitario che tratta il tema delle ”mafie” con carattere scientifico, perché pensiamo che altri abbiano qualità migliori delle nostre per realizzare quel tipo di ricerca. Le pagine che andrete a leggere sono semplicemente uno strumento. Una ”cassetta degli attrezzi” che vuole fornire, a chi accosta il tema della criminalità organizzata nella nostra Regione, un motivo in più per decidere di dedicare una quota del suo tempo al contrasto alle mafie. Abbiamo voluto assemblare quindi i fatti che hanno attraversato il biennio 2012/2014, privilegiando le indagini che si sono svolte in Romagna. Il motivo è semplice: mentre il racconto della presenza mafiosa in Emilia (Modena, Reggio Emilia, Bologna) grazie a giornalisti come Giovanni Tizian ha, anche a fatica, un minimo di rilevanza mediatica, la Romagna sembra essere circondata da un ovattato muro di gomma in cui le notizie, anche quelle più dirompenti, finiscono per rimbalzare per poi disperdersi nei mille rivoli di un’informazione silente e devota. Il lavoro è suddiviso in quattro parti. Nella prima proveremo a disegnare con le parole la cornice di un quadro dove il protagonista, le mafie, si sono arricchite al limite dell’opulenza. Nella seconda racconteremo la triste sequela dei morti per droga. Lì abbiamo fatto una scelta: raccontare il particolare, Bologna, per non perdere nel complessivo l’impatto sul tema. La terza sezione del Dossier è dedicata al filo conduttore che lega 40 anni di mafia in Emilia-Romagna: il gioco d’azzardo e le bische clandestine. In conclusione troverete il rapporto completo di tutte le operazioni effettuate dalla magistratura e dalle forze dell’ordine in Riviera. Un lavoro certamente non esaustivo della ”marea di mafie” che si è abbattuta sulla nostra Regione, ma che regala spunti su cui poter costruire collegamenti, reti e collaborazioni. Il dossier ha un taglio militante perché rispecchia il nostro modo di essere. Siamo consapevoli che per alcuni di noi (non tutti per fortuna!) questo ha implicato un prezzo da pagare: dalla gomma tagliata, alla mail intimidatoria, ai Pc o strumenti tecnologici violati da parte di quei ”signori” che non capiscono il perché questi ragazzi vogliono tenere pulito il loro ”piccolo angolo di mondo”, passando per tentativo di isolamento da parte di quei ”professionisti dell’antimafia” per i quali il contrasto alla criminalità potrebbe fermarsi all’utilizzo di fondi pubblici distribuiti a iosa. Quindi lasciamo a voi aprire questa cassetta per gli attrezzi e speriamo che nell’arco di poco tempo anche voi vorrete metterci qualcosa dentro.

Gaetano Alessi, Massimo Manzoli, Davide Vittori

è la buona cultura che forse può essere madre di una buona politica

La mia intervista per L’ORA QUOTIDIANO:

Schermata 2015-01-02 alle 16.56.35La storia di Marcello Dell’Utri, raccontata direttamente dall’ex senatore, in un monologo a metà tra la cronaca giudiziaria e la letteratura. S’intitola L’Amico degli Eroied è l’ultimo lavoro di Giulio Cavalli, il regista teatrale milanese già autore di un libro e di uno spettacolo su Giulio Andreotti (L’innocenza di Giulio, Chiarelettere, 2012). “Andreotti – spiega Cavalli – ha creato la politica come padrona della mafia. Dell’Utri invece ha inventato la mafia che si fa politica”.

In pratica è questa la differenza tra prima e seconda Repubblica?
Si. Anche la differenza tra la gestione del processo Andreotti e quello Dell’Utri cambia in questo senso.

Ovvero?
Con Andreotti i giornali tendevano a smentire la sentenza, con Dell’Utri invece l’obbiettivo era addebitare tutte le condotte soltanto all’ex senatore. E’ a questo che serve il mio  spettacolo: a ricordare che oggi il governo è sostenuto anche da quel partito creato proprio da Dell’Utri, l’uomo che fa da tramite tra Berlusconi e Cosa Nostra. Ed è proprio così che finisce in un certo senso lo spettacolo.

Come?
Con Dell’Utri che il giorno prima della fuga in Libano incontra Berlusconi in un ristorante. L’ex premier dice, rivolto ai giornali: “Volevate il politico mafioso, prendetevi Marcello ma adesso basta”. E Dell’Utri ribatte: “la mia fedeltà ti è ancora più utile adesso che finisco in galera”. E’ il concetto del servitore del potere, dell’uomo che cerca un padrone su cui puntare e che fa del servilismo la sua icona. L’incipit dello spettacolo racconta proprio gli albori del servo Dell’Utri.

Che sarebbero quali?
C’è questa scena in cui un giovane Dell’Utri si mette per la prima volta la cravatta e vede la città di Palermo divisa in due: da una parte persone da abbattere, dall’altra tanti pioli, gente a cui aggrapparsi per salire i gradini sociali. Se ci pensiamo, presi singolarmente personaggi come Dell’Utri, Mangano e Berlusconi sono anche comici in un certo senso. Uniti insieme, a Milano, diventano la miscela perfetta della politica per legittima difesa.Che arriva a creare il prototipo di Berlusconi che diventa addirittura premier per legittima difesa.

Hai avuto problemi nella produzione di questo spettacolo?
Si, c’era un strano tizio che si era impegnato a produrlo, firmando anche un contratto. Ma poi è svanito: ovviamente l’ho denunciato, vedremo le indagini a cosa porteranno. Di certo però ci ha causato un rallentamento, dovevamo essere pronti per ottobre, e invece credo che una data ipotetica per il debutto possa essere marzo. Certo adesso mi serve il sostegno del pubblico: per questo motivo ho lanciato una campagna di produzione sociale.

Una sorta di crowdfunding.
Si, l’ho chiamata così perché non mi piacciono gli inglesismi. Semplicemente credo che per essere liberi dobbiamo lavorare soltanto con il sostegno del pubblico. Per questo chiedo un sostegno a chiunque pensi che la storia di Dell’Utri non sia da derubricare semplicemente a uno dei tanti berlusconismi, insieme alle prostitute e al resto, ma sia da ricordare come atto fondamentale di questa seconda repubblica. Penso che il cosiddetto teatro civile serva a questo. Anche se la parola teatro civile non significa nulla: come dire che esiste un teatro incivile.

Mi ricorda la famosa frase scritta sul teatro Massimo a Palermo: vano delle scene il diletto ove non miri a preparar l’avvenire. Credi ancora che la cultura possa avere un valore sociale così importante oggi?
Assolutamente si. Io ho fatto il consigliere regionale in Lombardia, durante l’ultimo mandato di Formigoni. Erano anni in cui ero l’unico ad arrivare in Regione scortato dai carabinieri, mentre gli altri venivano portati via in manette dalle forza dell’ordine. Nonostante quell’esperienza penso di poter fare di più con i miei spettacoli.

Non pensi che anche a livello culturale questo paese sia ormai ridotto in macerie?
Certo. Questo perché si continua a pensare che, come vent’anni fa, ci vuole una buona politica che faccia da matrigna ad una buona cultura. Il rapporto si è invertito da anni: è la buona cultura che forse può essere madre di una buona politica. D’altra parte in questi anni la cultura è arrivata prima della magistratura su molte cose.

Hai parlato della prima e della seconda Repubblica: e la terza invece? Che cos’è cambiato oggi?
Fino a pochi giorni fa pensavo che fossero cambiati gli interpreti mantenendo identiche le modalità. Dopo Mafia Capitale credo che non siano cambiati nemmeno gli interpreti: viviamo di un ritorno dell’attività criminale.

Nessuna differenza col recente passato quindi?
Assolutamente no. La terza Repubblica non riesce neanche a nominare Nino Di Matteo nei discorsi di fine anno delle alte cariche. E’ una Repubblica identica a quella di Andreotti. E’ una Repubblica in cui il non detto vale sempre di più rispetto al resto.

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