Vai al contenuto

Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Mafiosi come i topi. Nel bunker interrato.

Alle prime luci dell’alba, a Benestare, i Carabinieri del Gruppo di Locri e dello Squadrone Eliportato Cacciatori d’Aspromonte di Vibo Valentia hanno scoperto un bunker nel corso di numerose perquisizioni domiciliari, delegate dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria, finalizzate alla ricerca del latitante Antonio Pelle (26 anni), su cui pende una condanna a 12 anni di reclusione in Appello per associazione di tipo mafioso.

L’uomo era stato coinvolto nell’indagine “Fehida”, che fece luce sulla sanguinosa faida di San Luca. Sul suo conto pende inoltre una ulteriore ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, emessa nel 2012 dal Tribunale di Roma nell’ambito di operazione condotta dalla Squadra mobile. Le operazioni di ricerca sono state estese anche ai terreni di pertinenza e circostanti le abitazioni perquisite, ove sono stati effettuati diversi saggi in profondità con un escavatore.

Proprio all’interno di un fondo in contrada Bosco, risultato nella disponibilità di un 61enne di Bovalino, è stato rivenuto un bunker ormai in stato di abbandono di sei metri per due circa, sotterrato a una profondità di due metri circa in una piazzola circondata da alberi di agrumi. Il container conteneva un modulo abitativo completo di arredi in plastica, due materassi, servizi igienici, impianto elettrico, idrico e di aerazione. L’accesso, nascosto dalla vegetazione, era consentito mediante una botola a sollevamento idraulico.

locri

Paviglianiti: una ’ndrina in continua ascesa.

Una ’ndrina in continua ascesa. La caratura criminale della famiglia “Paviglianiti”, i potenti delle cittadine della fascia jonica di Reggio, San Lorenzo e Bagaladi, è stata confermata dalla recente inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria “Ultima spiaggia”. Un clan che è riuscito a mantenere «incontrastata» la leadership sul territorio anche dopo l’arresto dell’indiscusso capoclan, Domenico Paviglianiti, il principe del narcotraffico internazionale tra gli eletti boss in grado di stringere accordi da tonnellate di cocaina solo spendendo il proprio nome di battesimo. Per la Dda di Reggio sarebbe proprio lui a mantenere stabili gli equilibri con i padrini della fascia jonica di Reggio e del mandamento “Centro” e soprattutto a stringere nuove alleanze con i siciliani di “Cosa nostra”. Sempre nel segno degli affari legati alla gestione di una fetta del narcotraffico con il Sud America. Gli inquirenti delineano uno scenario preciso nelle carte di “Ultima spiaggia”: «Le indagini esperite, focalizzando l’attenzione verso i sodalizi operanti lungo la fascia ionica reggina, dimostreranno come anche le inimicizie ed i rancori personali tra i vertici delle cosche cedono il passo davanti alla prospettiva di lauti guadagni: prova documentale di questo assunto è data dall’esame della corrispondenza che Paviglianiti Domenico, vertice dell’omonima cosca, in atto recluso presso la casa circondariale di Ascoli Piceno, invia e riceve da esponenti di primo piano del panorama criminale nazionale». Seppure in carcere, Domenico Paviglianiti è boss di rango assoluto. Ovunque si trovi, secondo le conclusioni degli inquirenti: «Benché recluso, non ha perso il carisma che gli ha permesso di occupare i vertici della cosca». Tra gli interlocutori di “Mimmo” Paviglianiti anche la famiglia Guttadauro, i mafiosi di Palermo: «In una delle sue lettere inviate a Guttadauro Giuseppe, esponente di spicco di cosa nostra, scrive che i suoi familiari, ed in particolare suo cognato, domandano se siano in contatto tra loro (“I miei mi chiedono sempre, mio cognato mi chiede sempre ma, con il “dottore” ti scrivi? È convinto che siete stato il mio pigmalione: forse è l’unica che ha ha azzeccato)». Un intero capitolo delle indagini “Ultima spiaggia” i carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria l’hanno dedicato proprio «al rapporto di mutua collaborazione con la mafia siciliana». Sul tema gli inquirenti sono precisi: «In nome dei principi di unita e cooperazione tra i sodalizi criminali, anche la cosca Paviglianiti stringe legami con esponenti di primo piano del panorama criminale nazionale: tale assunto e di fondamentale importanza in quanto pone in risalto la considerazione ed il rispetto di cui godono gli esponenti della cosca in argomento». Da San Lorenzo ad Africo, altra cosca crocevia del business della droga, fino a Palermo: «I Morabito hanno mantenuto costanti e frequenti contatti con il referente della cosca Paviglianiti. Le modalità operative del sodalizio di stanza in Africo e dal quale gli esponenti della cosca Paviglianiti sono risultati approvvigionarsi, sono divenute oggetto di un capitolo della presente richiesta che ha fatto piena luce su un’organizzazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti e che vanta collegamenti con esponenti della criminalità siciliana». Traffici illeciti che «trovano riscontro nei rapporti allacciati con esponenti della realtà criminale siciliana, allo stato non ancora identificati». Più volte i segugi dell’Arma hanno seguito gli emissari reggini in trasferta a Piedimonte Etneo (Catania) «verosimilmente per trattare una fornitura di sostanza stupefacente: gli accorgimenti ed il timore per eventuali controlli di polizia alimenta il sospetto che la trasferta in terra siciliana sia riconducibile alla gestione dei traffici illeciti».

(link)

Il conflitto ambientale nei media. Il caso Ilva.

[di Gaetano del Monte su siba-ese.unisalento]

Premessa metodologica

Lo scritto che presentiamo non è organizzato secondo i canoni della saggistica tradizionale delle scienze sociali. Si tratta di una ricostruzione prevalentemente giornalistica di una serie di eventi che hanno come scenario la città di Taranto e come epicentro l’Ilva, il gigante siderurgico italiano responsabile di un inquinamento territoriale conclamato. L’indagine che abbiamo condotto fornisce una chiave di lettura delle vicende tarantine, e si presenta come un materiale organizzato per ulteriori approfondimenti, auspicabilmente anche di tipo teorico.

Non si tratta di sole vicende recenti: come il lettore noterà, dopo aver sintetizzato i termini della questione venuta alla ribalta negli ultimi anni in seguito al lavoro della magistratura tarantina, la nostra ricostruzione torna agli anni ’70, quando l’Ilva era ancora un titano occupazionale e solo alcune voci dell’ambientalismo mettevano in guardia dalle conseguenze della produzione. Le nostre fonti sono in questo caso fonti giornalistiche d’archivio. Passiamo poi a esaminare i fatti che riguardano il modo di gestire il rapporto con l’informazione da parte dell’Ilva in anni recenti, e che hanno comportato l’uso come fonti delle intercettazioni telefoniche disposte dalla magistratura, le cui trascrizioni compaiono nelle pertinenti ordinanze dei giudici. Infine abbiamo intervistato alcuni testimoni privilegiati della vicenda Ilva, saggisti e operatori dell’informazione che hanno avuto modo di esprimere la loro opinione sul presente e il futuro prossimo della vicenda.

L’insieme dei materiali che abbiamo raccolto indica che dietro i fatti riportati si manifestano conflitti importanti, che prendono le mosse dal più impressionante tra essi: quello tra salute e lavoro. L’inquinamento proveniente dall’Ilva agisce sulla salute individuale e collettiva dei lavoratori e dei cittadini di Taranto, ma l’Ilva è anche l’azienda che dà lavoro a tanti. Dietro l’aspetto conflittuale originario si nascondono gli altri: quello tra azienda e lavoratori, quello interno ai sindacati, quello tra istituzioni e azienda, tra azienda e ambientalisti, tra sindacati e ambientalisti, tra media e azienda. Come vedremo, sono state messe in atto numerose tecniche di prevenzione del conflitto attraverso forme di accomodamento più o meno legali: tra queste, abbiamo dedicato il maggior spazio al processo di fidelizzazione della stampa locale promosso dalla direzione delle relazioni pubbliche dell’Ilva, e che emerge dalla documentazione pubblica sulle indagini della magistratura.

Lo scritto si chiude con un’appendice relativa agli eventi susseguitisi dal 17 febbraio 2012, data di apertura del processo per disastro ambientale a carico dell’Ilva, al 9 aprile 2014, data in cui la Corte Costituzionale respinge i ricorsi dei giudici di Taranto sul cosiddetto decreto “Salva Ilva”. Da allora, l’intensità conflittuale appare in diminuzione, e viceversa sembra aumentare l’intento di uscire dall’emergenza, promuovendo una soluzione di Stato ai drammatici problemi – quantomeno quelli più immediati – del colosso siderurgico.

Leggi tutto | Scarica il pdf 

*Articolo pubblicato su siba-ese.unisalento.it,titolo originale: “l conflitto ambientale nell’agenda mediatica. Il caso Ilva”, H-Ermes n°3, 2014

In Italia i poveri sono i più poveri d’Europa

Dai recenti dati dell’Ocse e del Social Insti­tute Moni­tor Europe in tema di dise­guale distri­bu­zione del red­dito (il mani­fe­sto del 17 dicem­bre), risulta con­fu­tato il prin­ci­pale mito ideo­lo­gico dei libe­ri­smi vec­chi e nuovi, l’idea secondo cui una mag­giore dise­gua­glianza offri­rebbe ai più ric­chi cospi­cue oppor­tu­nità d’investimento e quindi ali­men­te­rebbe la cre­scita, con bene­fi­cio di tutti.

Il ragio­na­mento (sul quale fanno leva da sem­pre le cam­pa­gne della destra neo­li­be­rale e della stessa sini­stra social-liberista) pro­spetta uno sce­na­rio nel quale, favo­rendo la cre­scita, la tem­po­ra­nea rinun­cia alla giu­sti­zia sociale garan­ti­rebbe, poi, giu­sti­zia e benes­sere, poi­ché ben pre­sto il mag­gior benes­sere «sgoc­cio­le­rebbe» anche sui più poveri. Pec­cato che ogni evi­denza – e la dram­ma­tica crisi nella quale ci dibat­tiamo – mostra il con­tra­rio.

Non solo la dise­gua­glianza tende ad autoa­li­men­tarsi radi­ca­liz­zando le spe­re­qua­zioni, ma mar­cia altresì di pari passo con la sta­gna­zione. L’ingiustizia, insomma, avvan­tag­gia sol­tanto i più ric­chi, men­tre rovina la stra­grande mag­gio­ranza della popo­la­zione. E il libe­ri­smo si con­ferma per quel che è: un’arma letale, oltre che sul piano etico e della coe­sione sociale, anche sul ter­reno economico.
Ma i dati Ocse e Sime offrono anche l’opportunità di riflet­tere su talune spe­ci­fi­cità del caso ita­liano, per rica­varne una rap­pre­sen­ta­zione sin­te­tica degna di atten­zione. La società ita­liana è sem­pre più dise­guale. Que­sto è un trend euro­peo e glo­bale, ma in Ita­lia le spe­re­qua­zioni appa­iono par­ti­co­lar­mente forti. Per citare il dato più signi­fi­ca­tivo, al 40% più povero della popo­la­zione ita­liana va il 19,8% del red­dito com­ples­sivo, con­tro una media euro­pea del 21,2. I poveri in Ita­lia sono dun­que più poveri rispetto alla media. Non bastasse, ciò che a que­sto punto si evita accu­ra­ta­mente di aggiun­gere è che anche que­sta meda­glia ha, come tutte, il suo rovescio.

Se i poveri sono più poveri, i ric­chi sono sem­pre più ric­chi, e molto pro­ba­bil­mente tra i due feno­meni sus­si­ste qual­che con­nes­sione. Basti anche qui il dato più rile­vante: la ric­chezza netta delle fami­glie ita­liane aveva nel 2012 un valore pari a 8 volte il valore del red­dito dispo­ni­bile, men­tre nel 2001 il rap­porto era di “appena” il 6,7. Men­tre il pub­blico si impo­ve­ri­sce e si inde­bita, il pri­vato regi­stra dun­que un signi­fi­ca­tivo aumento delle pro­prie sostanze.

Il dato sul quale si pone sem­pre l’accento per avva­lo­rare l’impellente neces­sità delle cosid­dette riforme strut­tu­rali è l’ingente debito pub­blico, supe­riore ai 2.200 miliardi. Nes­suno mai ricorda invece che la ric­chezza netta delle fami­glie ita­liane (le meno inde­bi­tate d’Europa) supera (dati del 2013) gli 8.700 miliardi di euro.

Il che sarebbe un bene, inten­dia­moci. Se que­sta enorme ric­chezza pri­vata non fosse distri­buita in modo disa­stro­sa­mente ini­quo (lo è in modo molto più spe­re­quato del red­dito: l’indice che misura la dise­gua­glianza della sua distri­bu­zione è pari a 62,3%, con­tro il 33,3% dell’indice di con­cen­tra­zione dei red­diti, onde il 10% delle fami­glie più ric­che pos­siede oltre il 45% della ric­chezza). Se non con­vi­vesse con una povertà dif­fusa e dram­ma­tica. Se, pro­prio in forza della sua col­lo­ca­zione, non con­cor­resse al tempo stesso al declino del paese e al suo cre­scente indebitamento.

Anche a pro­po­sito del debito pub­blico – a causa del quale l’Italia è un sor­ve­gliato spe­ciale sui mer­cati finan­ziari e in Europa, ed è costretta a una con­ti­nua ridu­zione di piani di spesa ormai incom­pa­ti­bili con la manu­ten­zione del wel­fare – si impone un chia­ri­mento, prima di trarre qual­che rapida con­clu­sione.

Si sa – anche se si suole sor­vo­lare – che il debito schizza in alto, irre­ver­si­bil­mente, quando, a par­tire dai primi anni Ottanta, governi e Banca d’Italia deci­dono di tra­sfor­mare il grande capi­tale pri­vato in pre­sta­tore, esen­tan­dolo di fatto dall’obbligo fiscale di con­tri­buire in misura ade­guata alla spesa pub­blica, anche attra­verso il cosid­detto divor­zio tra Banca d’Italia e Tesoro. Il fatto che il debito ita­liano si rad­doppi tra il 1981 e il ’95 (pas­sando dal 58 al 121% del pil) non è la con­se­guenza di una spesa pub­blica abnorme e meri­te­vole di tagli dra­co­niani, ma della scelta tutta poli­tica di remu­ne­rare il capi­tale pri­vato sol­le­van­dolo dalla gran parte degli oneri fiscali da una parte e limi­tando la cre­scita dei salari reali dall’altra.

Anche que­sto intrec­cio per­verso tra debito pub­blico ed eva­sione fiscale ha molto a che fare con la dise­gua­glianza, in quanto il mec­ca­ni­smo di remu­ne­ra­zione del debito opera nel senso di un con­ti­nuo e cre­scente spo­sta­mento di red­dito dal pub­blico al pri­vato, e in par­ti­co­lare alla quota più ricca della popo­la­zione, attra­verso il paga­mento degli interessi.

Il risul­tato del pro­cesso è pla­stico, nella sua para­dos­sa­lità. Da debi­tore insol­vente (da anni in l’Italia l’economia som­mersa è sti­mata rap­pre­sen­tare in modo sta­bile più del 15% del Pil), il capi­tale si tra­sforma magi­ca­mente in cre­di­tore, e costringe lo Stato a una spesa per inte­ressi che dal 1992 è l’unica causa della cre­scita dell’indebitamento pub­blico (e che, nel giro di trent’anni, ha com­por­tato un esborso di oltre 2.100 miliardi, pari quasi all’intero ammon­tare del debito). Anche così si spiega il fatto che la pro­prietà del debito sia oggi per il 50% in mano ai pri­vati ita­liani (fami­glie, ban­che e altre isti­tu­zioni finan­zia­rie). Il che, se da una parte riduce la dipen­denza del paese dagli attac­chi spe­cu­la­tivi, dall’altra con­corre ad accre­scere la dise­gua­glianza tra chi prende gli inte­ressi e chi paga le tasse.
In que­sto qua­dro l’evasione fiscale (circa 140 miliardi annui) ali­menta un ulte­riore dia­bo­lico cir­colo vizioso poi­ché, oltre a essere una delle prin­ci­pali cause dell’alto debito pub­blico, rende anch’essa sem­pre più dise­guale la distri­bu­zione del red­dito, facendo sì che il pre­lievo fiscale col­pi­sca soprat­tutto il lavoro dipen­dente (sul quale in Ita­lia grava la più alta ali­quota impli­cita di tas­sa­zione di tutta la Ue).

Ora pro­viamo a rileg­gere que­ste risul­tanze den­tro un qua­dro uni­ta­rio e sin­te­tico. Che cosa ne sor­ti­sce? Della cre­scente dise­gua­glianza e ini­quità del sistema si è detto: la pola­riz­za­zione vede con­trap­po­sti set­tori sociali poveri (sem­pre più vasti e più poveri) a set­tori ric­chi (pro­por­zio­nal­mente sem­pre più ric­chi). Se a ciò si aggiunge che tale mec­ca­ni­smo di ripartizione/riproduzione della ric­chezza nazio­nale fun­ziona in pre­senza di una per­cen­tuale pato­lo­gica di evasione/elusione fiscale e di un volume di cor­ru­zione sti­mato in circa 60 miliardi annui, ci pare se ne possa sin­te­ti­ca­mente con­clu­dere che, nella sua odierna con­fi­gu­ra­zione, l’economia ita­liana – il cosid­detto sistema-paese – non è sol­tanto un mec­ca­ni­smo fon­dato su ingiu­sti­zie eco­no­mi­ca­mente rovi­nose, ma anche un sistema di domi­nio lar­ga­mente basato sull’illegalità.

Lascian­dosi andare per l’ennesima volta, in que­sti giorni, a ester­na­zioni poli­ti­ca­mente impe­gna­tive a soste­gno del governo in carica, il pre­si­dente della Repub­blica ha pero­rato la causa della sta­bi­lità, rite­nendo di potere così moti­vare, alla vigi­lia delle dimis­sioni, le pro­prie scelte e il pro­prio inter­ven­ti­smo, a tanti auto­re­voli osser­va­tori apparso spesso costi­tu­zio­nal­mente discu­ti­bile. Sem­bra un po’ il Sordi della “Grande guerra”, che esor­tava a «fare i buoni» i sol­dati che, in fila, atten­de­vano di essere spe­diti al fronte. Qua­lora potes­simo per­met­terci di rivol­ger­gli una domanda, gli chie­de­remmo se la sta­bi­lità alla quale si è rife­rito riguardi per caso anche que­sto stato di cose

(Il Manifesto 24 dicembre)

e amare uomini senza capirne il senso.

Natale 1989

aldameriniNatale senza cordoglio
e senza false allegrie ..
Natale senza corone
e senza nascite ormai:
l’inverno che già sfiorisce
non vede il suo «capitale»,
non vede un tacito figlio che forse un giorno d’inverno
buttò i suoi abiti ai rovi.
Marina cara,
la giovinezza ti lambisce le spalle
ed è onerosa come la poesia:
portare la giovinezza
è portare un peso tremendo,
sognare fughe e fardelli d’amore
e amare uomini senza capirne il senso.
Il divario di una musica
Il divario della tua fantasia
non possono che prendere spettri,
perciò ogni tanto te ne vai lontana
in cerca di una perduta ragione di vita
in cerca certamente della tua anima

(Alda Merini)

«Non sono un eroe ma un soldato ferito»

«Non sono un eroe ma un soldato ferito». Così si definisce Fabrizio, il medico di Emergency contagiato in Sierra Leone e ricoverato allo Spallanzani di Roma. In una lettera aperta, il medico per la prima volta racconta la sua storia sottolineando come Ebola «sia un mostro terribile e temibile, ma che può essere sconfitto». «L’ultima cosa che ricordo della Sierra Leone – racconta Fabrizio – è il viaggio fino all’aeroporto assieme ai colleghi e la partenza sull’aereo dell’Aeronautica Militare. Poi l’arrivo in Italia all’interno di un contenitore ermetico e il trasporto all’Istituto Spallanzani. Ricordo i primi due o tre giorni trascorsi in isolamento, i farmaci sperimentali che ho iniziato, l’estremo malessere, la nausea, il vomito, l’irrequietezza; pensavo in quei momenti ai pazienti che avevo contribuito a curare, stavo provando le stesse cose che loro avevano provato e cercavo di capire qualcosa di più di ciò che mi stava succedendo, cercavo di mantenere la mente lucida e distaccata per un’analisi ‘scientificà». «Ma il malessere era troppo e troppo difficile restare concentrato. Poi – prosegue- la trasfusione di plasma cui credo sia seguita una reazione trasfusionale e la luce della coscienza che grossomodo si spegne. Mi hanno raccontato di essere stato in rianimazione, di essere stato intubato e sedato; so di avere firmato una serie di consensi per i protocolli sperimentali poi, dopo questo, non ho memoria di nulla, mi mancano due settimane, quelle del mio aggravamento, durante le quali mi sono in qualche modo battuto contro il mio nemico; e pare che sia riuscito a batterlo».

«Da qualche giorno sto meglio – spiega il medico – lentamente ho ripreso in mano il controllo del mio corpo, riesco a muovermi in autonomia; da qualche giorno ho iniziato a leggere qualcosa di ciò che è stato pubblicato a proposito della mia vicenda; in larga misura parole di conforto, di sostegno e augurali ma anche parole che possono essere giustificate solo dall’ignoranza. Non credo di essere un ‘eroe’ ma so per certo di non essere un ‘untore’: sono solo un soldato che si è ferito nella lotta contro un nemico spietato». «Una delle cose più belle che ho letto in questi giorni – prosegue – è un articolo online che parla di solidarietà, di rispetto, di dignità. E non posso non pensare ai miei colleghi di Emergency che, anche in questi giorni, sono in Sierra Leone cercando di fare sempre di più e sempre meglio per curare i malati di Ebola».

E conclude: « Ebola è un mostro terribile e temibile ma sono convinto che la sconfitta di questo mostro dipenda in larga misura dal fronte che lo ostacola. Spero che questo fronte possa allargarsi e opporsi a Ebola in modo sempre più efficace».

Finalmente: arrestato il bulgaro al soldo della ‘ndrangheta a Milano

mandevNell’ambito delle indagini, il criminale bulgaro, aka ‘il francese’ o ‘Pascal’, è emerso quale costante punto di riferimento per l’importazione dalla Bulgaria, la detenzione e lo spaccio di alcune centinaia di chilogrammi di cocaina, marijuana ed hashish. Lo straniero operava in Italia come terminale di un canale illecito di approvvigionamento ben collaudato.

Legge l’ordinanza di custodia cautelare della DDA di Milano, i due bulgari “Angelov Atanas e Ivanov Zdravko partecipano alla associazione, in qualità di stabili fornitori del sodalizio” e a differenza di altri fornitori i bulgari hanno operato come fornitori praticamente per l’intero periodo di operatività della associazione mafiosa, essendo pienamente consapevoli di avere a che fare con la ‘Ndrangheta e quindi “il loro apporto di fornitori si traduce in un contributo essenziale alla sussistenza ed al permanere in vita del gruppo stesso”.

Sia Angelov che Ivanov hanno – nell’accusa – l’aggravante della transnazionalità. Angelov e i fratelli Giulio e Vincenzo Martino, di cui abbiamo gia scritto, si erano conosciuti in carcere negli anni 90. Dice l’ordinanza “quindi la conoscenza che costoro fossero componenti di una associazione mafiosa che dal traffico di stupefacenti traeva utilità” era un dato di fatto sia per Angelov che per il suo ‘luogotenente’ Ivanov, l’arrestato di oggi.

I due bulgari, spiega il pm nell’ordinanza, non sono trafficanti individuali ma sono inseriti in contesti strutturati ed organizzati di narcotraffico internazionale, che consente loro di operare in più stati europei, anche Olanda e Spagna oltre a Bulgaria e Italia, ed extraeuropei, essendoci collegamenti operativi per il traffico di cocaina con fornitori sudamericani.

Secondo quanto riportato dal database ‘People of Interest’ di OCCRP, Angelov sarebbe a capo di un gruppo criminale bulgaro denominato ‘777’, attivo nel racketing, prostituzione e traffico di droga. Il gruppo prende il nome dal ‘club777′ di Sliven, citta’ del centro della Bulgaria e luogo di nascita di Angelov. L’uomo avrebbe anche concessioni di gestione del parco centrale della citta’, oltre che interessi nel settore delle costruzioni e del legname. Qui la visura camerale delle sue aziende.

Il provvedimento delle autorità bulgare segue l’internazionalizzazione delle ricerche, attivata presso il Servizio di Cooperazione Internazionale di Polizia dell’Interpol dai Carabinieri del Nucleo Investigativo di Milano ed il trafficante è ora in attesa dell’estradizione in Italia.

“Quella testa di cazzo del sindaco continua a fa’ lo stronzo”

ignazio-marino-il-sindaco-di-roma-in-bici-che-non-ci-fa-piu-sognareUno stage per il figlio nella “sua” Fondazione in cambio di una struttura a Castelnuovo di Porto, località alle porte di Roma, dove sistemare centinaia di immigrati. Il baratto per portare a dama l’ennesimo flusso di immigrati — uno degli introiti più grandi per Mafia Capitale — sarebbe avvenuto tra il prefetto Mario Morcone, vertice del Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del Viminale, e Luca Odevaine, l’uomo al libro paga del clan di Carminati («je do cinquemila euro al mese»), da ex vice capo di Gabinetto della giunta Veltroni al Coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti asilo.

Il coinvolgimento del ministero dell’Interno è l’ultimo scandalo che salta fuori dalle carte dell’inchiesta “Mondo di mezzo”, diretta dai pm Luca Tescaroli, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini. Emblematica un’intercettazione in cui Luca Odevaine, nel suo ufficio, parla con Mario Schina, consigliere della cooperativa sociale “Il percorso” che si occupa di campi rom.

È il 18 giugno del 2014, due giorni prima Morcone era stato nominato da Alfano nel suo nuovo incarico al Viminale. I due parlano di come riuscire ad aprire una struttura per immigrati a Castelnuovo di Porto. Il problema da risolvere è che in quella località esiste già un altro grosso centro. Odevaine spiega di aver contattato il prefetto Morcone. «Quando gli ho detto “dico guarda Mario c’è questa roba” dice “eh ma cazzo, l’hanno attaccati così”».

«Manco se ne accorgono », risponde Schina. Già. «Chi cazzo se ne accorge — replica Odevaine — che ce stanno 400 persone in più, lui (sempre Morcone, ndr) m’ha detto “sì effettivamente”, dico «eh, lì bisogna convincere Peppino Pecoraro (prefetto di Roma, ndr). Quando gli ho detto così mi fa “per carità io con Peppino non ci voglio avere niente a che fare”». Perché Pecoraro, a detta dei due, è una persona che le cose se le studia. «Per cui — conclude Odevaine — non so se Mario Morcone potrà forzare su Pecoraro, però se scrive al sindaco magari uno spazio c’è, però certo effettivamente 100 appartamenti davanti al Cara…».

L’ex capo della polizia Provinciale di Roma, ora in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso, la cui scarcerazione ieri è stata discussa al tribunale del Riesame, così come quella di altri 8 arrestati, tra cui l’ex ad Ama Franco Panzironi, ha un rapporto intimo con Morcone. «Io le cose gliele posso dire proprio — dice sempre a Schina nell’intercettazione del 18 giugno — ora mi stava venendo in mente che oggi m’ha chiesto “mio figlio si sta laureando, non so in che cosa” dice “mi piacerebbe fargli fare uno stage”. Dico “guarda te lo prendo io in Fondazione, Mario, figurati, lo sai…”.

Io posso pure a un certo punto che ne so dirgli Mario, famme la cortesia, prendimi al centro le 70 persone a Tivoli. Ecco per i rapporti che ho con lui io posso anche dirgli una cosa del genere». Anche per l’apertura del Cara di San Giuliano in Puglia Odevaine bussa alla porta di Morcone. «Quella testa di cazzo del sindaco — spiega Odevaine — continua a fa’ lo stronzo. Ho detto a Mario “se tu te la senti la requisisci (la struttura di interesse del clan, ndr)”, m’ha detto “io non c’ho problemi, io gliela requisisco”. Però se la requisisce, poi la gara la fa la prefettura capito?».

I CONTANTI PER I FONDI NERI

Al centro dei pensieri di Odevaine c’è anche il modo di gestire al meglio il flusso del “nero” da ripulire. Il sistema è quello delle fatturazioni per operazioni inesistenti. «Chi ci deve pagare ci dà 20.000 euro in contanti e noi glieli diamo a un signor X il quale ci paga una fattura falsa. Ci paga coi soldi nostri però».

Resta solo da trovare i complici. E anche qui Odevaine ha la risposta pronta: «Si può chiedere a Pulcini (il costruttore amico di Carminati più volte citato nell’inchiesta, ndr ). Lui è un cliente del Monte dei Paschi, uno dei clienti più importanti, quindi il Monte non ha nessuna difficoltà».

Intanto ieri, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha accolto la richiesta della procura di Roma e ha disposto il regime di 41 bis per Massimo Carminati.

 (click)

Il modo migliore per stare vicino a Pino Maniaci

Dopo gli ultimi brutti avvertimenti mafiosi arrivati a Pino Maniaci, al di là della solidarietà pelosa, conviene ascoltare le sue parole su un argomento particolarmente “caldo” in cui ci sta l’antimafia oltre alla mafia. Eccolo qui:

loraquotidiano.it_2014-12-23_10-48-38-500x375“A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: DaraModica de MohacBenanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre.

Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”.

(fonte)

Per la ricerca solo quando si è all’opposizione

Si può cambiare idea su un argomento politico rilevante, a seconda che si sia all’opposizione o al Governo? sembra proprio di sì, e abbiamo tanti esempi storici illustri. La storia italiana ce ne sta proponendo un altro in questi giorni, con il Partito democratico che tace sui tagli e le vessazioni operate dal governo, a guida democratica, sugli enti pubblici di ricerca e l’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) in particolare.Per capire come mai si tratti di un cambio di atteggiamento così evidente, bisogna tornare indietro esattamente di cinque anni, a quando nel novembre del 2009 i ricercatori dell’istituto ambientale, in primis quelli precari, occuparono il tetto della loro sede di via Casalotti, a Roma, resistendo lì sopra per 59 giorni prima di firmare un protocollo d’intesa col ministro dell’Ambiente, all’epoca la berlusconiana Stefania Prestigiacomo. 

Infatti, gli scandali sessuali e non dell’allora premier erano ancora di la dal sortire i loro effetti, il governo Berlusconi nel novembre 2009 sembrava fortissimo, visto che il leader del centro-destra aveva vinto trionfalmente le elezioni poco più di anno prima, e all’opposizione c’erano sostanzialmente il Pd e l’Italia dei valori, visto che la sinistra “radicale” era rimasta fuori dal Parlamento. Proprio questi due partiti furono quelli che maggiormente sostennero nei 59 giorni la lotta dei lavoratori della ricerca pubblica, con i democratici in prima fila: basta sfogliare l’album delle foto di quella lotta, per vedere sul tetto Dario Franceschini (attuale ministro della Cultura), Marianna Madia (attuale ministro della Funzione pubblica), Ignazio Marino (attuale sindaco di Roma), Nicola Zingaretti (attuale presidente della Regione Lazio), Ermete Realacci (attuale Presidente della Commissione Ambiente della Camera), Cesare Damiano (Presidente della Commissione Lavoro) e molti altri esponenti dem.

Oggi, che a distanza di un lustro le lotte dei ricercatori e in particolare dei precari si ripropongono, essendo rimaste situazioni irrisolte nonostante la fine del berlusconismo e ben due premier consecutivi provenienti dal Pd, il Partito democratico brilla per il suo silenzio. Nonostante le tante sollecitazioni, nessuna parola è arrivata dal partito di maggioranza relativa sulla situazione dell’ISPRA in generale e su quella dei suoi lavoratori in particolare. Qualche mese fa il Governo guidato da Matteo Renzi ha bocciato un emendamento di SEL (votato dai 5 Stelle e perfino da molti di centrodestra) che avrebbe favorito le assunzioni di molti precari “storici” dell’ente di ricerca, e oggi nessun esponente democratico, nemmeno tra quelli citati sopra, si è sentito in dovere di dire una parola o ha sollecitato l’attuale ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti (Udc), a rispondere ai lavoratori.

Silenzio, silenzio assoluto, nonostante i 10 milioni di tagli al bilancio negli ultimi 5 anni, il rischio che oggi (o al massimo tra pochi mesi) vadano a casa oltre 60 lavoratori, e quello forse ancor più grave che non siano finanziate attività come quelle di prevenzione del dissesto idrogeologico o i controlli sul Ilva e Terra dei fuochi. Silenzio assordante (in questo caso condiviso finora coi 5 Stelle) anche quando in Commissione Ambiente il deputato Filiberto Zaratti ha interrogato sulla situazione (al minuto 37 del video) Galletti sulla situazione ISPRA: come si vede dalla registrazione, il titolare del dicastero che vigila sull’istituto ha semplicemente ignorato la questione, e nessuno degli altri deputati, nemmeno quelli del Pd, ha trovato che ci fosse niente da ridire.

(fonte)