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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Anche il Portogallo riconosce la Palestina. In Italia tutto tace.

 Il parlamento portoghese ha votato in favore del riconoscimento da parte del governo della Palestina come “stato indipendente e sovrano”. La mozione era stata presentata dalla maggioranza di centrodestra insieme con il Partito socialista, principale schieramento d’opposizione. Il Portogallo si unisce così ai parlamenti di Francia, Gran Bretagna, Spagna e Irlanda che hanno tutti riconosciuto lo stato palestinese. Caso a parte la Svezia, dove è stato il governo stesso a riconoscere la Palestina.

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A Roma si appendono al prefetto. Imperfetto.

Apre il suo blog Emiliano Fittipaldi, e punta diritto là dove nessuno osa andare:

Ordunque è lui, il prefetto di Roma, il mr. Wolf che deve salvarci dai cattivi di Mafia Capitale. È “Peppino”, come lo chiama l’ex dg Rai Mauro Masi, l’uomo che deve ripulire i sette colli dalla lordura dei fascio-ladroni e dei politici corrotti. È lui che in questi giorni dichiara e tranquillizza («non scioglierò il comune, sarebbe una vergogna») e che vuole dare la scorta a Marino. È sempre lui, uomo di Stato, che il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha mandato a spulciare le carte degli appalti del Campidoglio.

Epperò sarà davvero Giuseppe Pecoraro l’uomo giusto per l’impresa? Il nocchiere senza macchia che a cui affidare il timone in così perigliosa tempesta? In effetti il suo nome torna alla mente non tanto per la gestione della Prefettura romana, finita in polemiche continue (dai funerali di Priebke all’annullamento dei matrimoni gay), ma per l’inchiesta napoletana sulla P4. Ossia l’organizzazione capeggiata dal faccendiere Luigi Bisignani che manovrava nell’ombra il potere politico, gli affari milionari  e le nomine pubbliche di società di Stato e servizi segreti.

Oggi sembra che se lo siano dimenticati tutti. Ma il nome di Pecoraro fa capolino spesso e volentieri tra le carte dell’inchiesta. E non poche sono le telefonate tra il prefetto e Bisignani, condannato a 1,7 anni i reclusione per una sfilza di reati, tra cui associazione per delinquere, favoreggiamento, rivelazione di segreto e corruzione.

Tre anni fa i colloqui tra i due sodali hanno incuriosito non poco il pm Henry John Woodcok, che  cercò di capire come mai il prefetto chiamava il faccendiere discutendo di questioni assi sensibilil, come riunioni del Copasir e affari di imprenditori prodiani come Angelo Rovati. Così il magistrato, il 23 febbraio di quell’anno, convocò il prefetto nei suoi uffici (Pecoraro non è mai stato indagato per la vicenda) in modo da avere delucidazioni. Lì il poliziotto, nominato prefetto su proposta dei sottosegretari berlusconiani Nitto Palma e Mantovano, ammise che sì, Bisignani lui lo conosceva bene. «Dal 2004, da quando ero capo della segretaria del capo della Polizia De Gennaro. Io parlo con Bisignani come si parla ad un amico. Siamo amici di famiglia, conosco anche la moglie», spiegò.

Pecoraro, rappresentante dello Stato, frequenta Bisignani anche se sa che il lobbista anni prima è stato arrestato e condannato in via definitiva per il riciclaggio della maxitangente Enimont allo Ior. Incredibilmente, il prefetto nega a Woodcock di sapere che l’amico è stato anche iscritto alla loggia segreta P2. «Mi risulta, però, che sia legato al sottosegretario Gianni Letta…Escludo che il Bisignani si sia speso per farmi ottenere la nomina di Prefetto di Roma: la mia carriera e il mio curriculum sono ineccepibili».

Meno ineccepibile, secondo i pm, è il tenore delle loro conversazioni. I due al telefono parlano di tutto. Se Gigi chiede all’amico di intervenire nella scuola della figlia dell’ex ministro Stefania Prestigiacomo perchè infestata «da cinghiali», Pecoraro cerca di sapere dal lobbista informazioni su un progetto per un Parco Giochi a Val Montone. «Bisignani mi disse che c’era dietro anche Angelo Rovati, che chiamai facendo presente che c’erano problemi di viabilità legati all’apertura del predetto parco. Perchè chiamai Bisignani? È un imprenditore che conosce tutti. Ho richiamato poi direttamente Rovati perchè avevo già parlato con la presidenza del Consiglio senza successo. Rovati lo conosco da tanti anni, non volevo danneggiare l’iniziativa». In realtà è lo stesso Bisignani a spiegare ai magistrati che Pecoraro lo aveva chiamato «per mettere in guardia Rovati, consigliandogli di dirgli di uscire dall’affare». Per i pm napoletani il colloquio telefonico è perfetta metafora del potere della ragnatela del lobbista: «Che un prefetto ritenga normale rivolgersi a un privato cittadino per contattare un imprenditore coinvolto in un procedimento amministrativo di sua competenza la dice lunga sull’anomalia Bisignani».

In altre telefonate Pecoraro spiega al pidduista di aver parlato con il segretario di Letta (ora ai servizi segreti), in un’altra chiede a Bisi di trovare lavoro a un suo amico, «l’ex collega Mario Esposito, prefetto in pensione, che voleva lavorare come consulente in materia di sicurezza». In un’altra telefonata tra i due si parla addirittura di una riunione del Copasir, il comitato di controllo dei nostri 007, che avrebbe dovuto discutere di alcune accuse lanciate da Massimo Ciancimino a De Gennaro. «Appare inquietante» chiosano i magistrati napoletani che indagano sulla P4 «il fatto che il Bisignani e il prefetto Pecoraro parlino dell’ordine del giorno del Copasir, se si pensa che il Bisignani è soggetto assolutamente estraneo alle istituzioni dello Stato».

Pecoraro, però, non è d’accordo: l’amico Gigi lo ha sempre tenuto in gran conto: «Le accuse contro di lui? È un aspetto che non conosco, mi stupisce e mi auguro che non sia vero» disse a “Repubblica” quando Bisi venne arrestato «Detto ciò non voglio esprimere alcun giudizio. Io in questa vicenda ci sono entrato come i cavoli a merenda».

Ma l’uomo che qualcuno vorrebbe commissario di Roma al posto del sindaco Marino s’è fatto notare anche per altre vicende. Se recentemente ha difeso i poliziotti che hanno manganellato gli operai dell’Ast di Terni, lo scorso aprile ha giustificato l’agente immortalato a “camminare” sul costato di una ragazza inerme finita in terra durante una manifestazione. «Il poliziotto non doveva essere lì, è vero, ma forse voleva dare una mano ai suoi colleghi: per la frenesia e la frustrazione di chi, improvvisamente, si sente bersaglio alla mercé di chi, i manifestanti, è chiamato a tutelare», disse.

Ma Pecoraro è stato protagonista anche della scandalosa espulsione della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, Alma e Alua Shalabayeva, un’azione definita «illegale» sia dall’Onu che da Amnesty International e gravata, secondo la Cassazione, da «manifesta illeggittimità originaria».Un abuso, da stato di polizia: la donna aveva i documenti in regola, ma le autorità italiane non vollero vedere. Piegate da motivazioni ancora oscure. Ebbene quel provvedimento, deciso dal ministero dell’Interno, portava la firma del prefetto Pecoraro.

Già. L’intoccabile Peppino, promosso in questi giorni a salvatore della Patria.

Gli effetti non secondari di “Mafia Capitale”

In Italia la miopia delle politiche sociali considerate un costo e un peso da appaltare il più possibile ha lasciato al terzo settore e alla cooperazione il compito di sostenere quasi intere porzioni di umanità.

Nel terzo settore e nella cooperazione lavorano moltissimi uomini e donne che hanno scelto di sacrificare (anche economicamente) la propria vita in nome di un valore da professare nel proprio mestiere.

Carminati e compagni sono riusciti a pisciare anche su questi. Anche se sente poco in giro.

L’egoismo ancora vince sulla solidarietà.

Il processo “Crimine” regge anche in appello

Un importante articolo di Claudio Cordova:

E’ la scommessa investigativa della DDA reggina. Una scommessa vinta. Anche le motivazioni d’appello del procedimento “Crimine” non fanno che confermare l’unitarietà della ‘ndrangheta. Un risultato ottenuto dopo decenni, sebbene fin dal summit di Montalto, del 1969, si parli di unitarietà delle cosche. E tanti saranno i riferimenti anche nelle indagini dei decenni successivi. Solo con il blitz del luglio 2010 (e con i vari procedimenti nati da esso) si arriverà all’assunto decisivo. Un’evoluzione, quella delle cosche, che si pone “in senso piramidale e tendenzialmente unitario dell’organizzazione criminale di stampo mafioso denominata Ndrangheta”. Ma anche “una evoluzione nella continuità, che dimostra ancora una volta la multiforme capacità dell’associazione illecita in oggetto – considerata ad oggi quella più potente e ramificata tra le organizzazioni mafiose storiche italiane – di adeguarsi ai tempi e di trovare delicati e efficaci punti di equilibrio e di sintesi tra rispetto delle tradizioni e delle regole (che affondano in un retroterra sociale e culturale arcaico e di sottosviluppo e di supplenza illegale rispetto alle assenze o complicità dello Stato) e adeguamento alle nuove realtà economiche e finanziarie, che offrono ulteriori e succulenti sbocchi alle attività illecite di questa organizzazione criminale”.

La Corte presieduta da Rosalia Gaeta, dunque, premia ancora una volta il lavoro dei pm antimafia reggini (Giovanni Musarò, Marialuisa Miranda e Antonio De Bernardo: “Può senz’altro dirsi che gli elementi raccolti nel presente procedimento penale possono realmente costituire la base per un primo vero processo contro l’associazione mafiosa denominata ‘Ndrangheta nel suo complesso, indistintamente dalle cosche di appartenenza dei singoli soggetti indagati” è scritto nelle motivazioni.

Di ‘ndrangheta unitaria si parlerà per decenni. Il 26 ottobre 1969, nel corso di un summit di Ndrangheta tenutosi in località Serro Juncari, ai piedi del massiccio di Montalto, sull’Aspromonte, interrotto dall’intervento della Polizia di Stato, il vecchio boss Giuseppe Zappia aveva affermato: “Qui non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ‘ndrangheta di ‘Ntoni Macrì, non c’è ‘ndrangheta di Peppe Nirta! Si deve essere tutti uniti, chi vuole stare sta e chi non vuole se ne va”. Un ventennio dopo, in una conversazione intercettata il 8 maggio 1998 tra Filiberto Maisano e tale Leone Mauro, il primo diceva tra l’altro: “… non ci sono mandamenti per niente, compare Leo, ci sono …che se vi dà una carica per parte … una carica alla Tirrenica, una alla Jonica e una al Centro … (…) noi siamo tutti uomini dello stesso modo … siamo tutti del crimine … criminali … e basta! (…)”.

Ancora vent’anni dopo, il 20 gennaio 2009 nella città di Singen (Germania), durante una riunione tra affiliati, l’imputato Salvatore Femia chiede: “Ma il nostro referente che è sotto chi è?” – “Don Mico Oppedisano, risponde Tonino Schiavo, Lui è uno del Crimine! E’ di Rosarno (…) E’ il numero uno!”. Ed ancora, Bruno Nesci, residente in Germania, afferma “la società mia è da sette anni che sta rispondendo al Crimine, sette anni… e là c’è il nome mio, la società mia è aperta, non la devo aprire… loro devono aprirla…. che vada a domandare al crimine quali nomi rispondono”.

Nella stessa data, dialogando in Lombardia in ordine a dinamiche criminali di quel territorio, tale Nino Lamarmore (ritenuto intraneo alla Ndrangheta operante in quella regione del Nord Italia) diceva a Stefano Sanfilippo: “Noi prendiamo decisioni dal Crimine…. siamo andati a Platì”.

E subito dopo l’omicidio del boss scissionista Carmelo Novella, Giuseppe Piscioneri riferiva a Antonio Spinelli: “Nunzio (Novella Carmelo) era stato fermato da giù (dalla Calabria) … tutti gli uomini si possono fermare….la provincia…. Li ferma la provincia” ….” Quando sei fermo per la Calabria sei fermo per tutti”.

Scrive la Corte d’Appello: “E’ stata una precisa scelta processuale della stessa Direzione distrettuale antimafia reggina l’aver voluto impostare l’odierno processo come un giudizio per così dire di “Ndrangheta pura”, puntando sulle prove inerenti l’associazione criminale mafiosa in sé, senza portare alla cognizione di questo giudice (e, quindi, contestare agli imputati) se non una piccola parte di reati c.d. fine: ciò in quanto l’obiettivo era quello di dimostrare (peraltro con successo) l’esistenza di una struttura unitaria di un sodalizio storicamente e processualmente già accertato nella sua materialità, nonché una sua diffusività sul territorio (calabrese e non solo).

Una struttura unitaria da cui dipenderebbero le varie propaggini in giro per l’Italia e per il resto del mondo. Un discorso valido per tutti gli altri territori, quello che la Corte fa per la Lombardia: “Emerge certamente un quadro in evoluzione, nel tentativo di trovare un punto di equilibrio tra le aspirazioni autonomistiche dei locali lombardi e l’intento della “casa madre calabrese” di esercitare comunque un controllo sulle sue “filiazioni”; emerge, altresì la circostanza che i locali lombardi debbono essere riconosciuti dalla “Lombardia” per trovare riconoscimento anche in Calabria, anche se a sua volta la “Calabria” deve dare il nulla osta per conferire nuove doti e per aprire nuovi locali, estendendo la sua influenza ben al di là dello stretto ambito territoriale regionale (ed in ciò riscontrando specularmente quanto si vedrà a proposito dell’articolazione tedesca della Ndrangheta). Scrivono, ancora, gli inquirenti che “Le ” filiazioni lombarde” sono una imponente ” testa di ponte” per inserirsi in un mercato certamente più ricco e di più ampie prospettive rispetto alla realtà del sud. In effetti, un’ultima annotazione sul tema “la Lombardia”; come già si è detto in Lombardia sono “attivi” 20 locali per un complesso di circa 500 affiliati. Si tratta all’ evidenza di ” un piccolo esercito” a disposizione delle cosche calabresi le cui mire, al di là delle questioni di forma afferenti l’ attribuzione delle “cariche”, sono la spartizione degli affari, come afferma lo stesso capo del Crimine Micu Oppedisano”.

A chiedere consiglio (o permesso) ai vari Oppedisano e Commisso si recano personaggi da ogni parte del mondo: “In passato si trattava solo di usare un argomento logico-sistematico che, oggi, è invece divenuto un prepotente ed incontestabile dato fattuale: oltre alle inequivoche intercettazioni che saranno oltre riportate nel prosieguo dell’esame delle singole posizioni soggettive, deve sottolinearsi come si assiste ad un continuo “pellegrinaggio” che individui provenienti da ogni parte del globo effettuano presso l’agrumeto di Oppedisano Domenico e presso la lavanderia di Commisso Giuseppe. Quali ragioni, diverse da quelle di obbedire ad un’unica entità criminosa che determina la vita del sodalizio, potrebbero celarsi dietro i viaggi di soggetti residenti ed operanti in Germania, Canada, ecc.. presso i citati Commisso e Oppedisano, ai quali rendono conto e chiedono direttive sulla vita del sodalizio in terre distanti decine di migliaia di chilometri?” si chiede la Corte d’Appello.

L’indagine “Crimine”, dunque, riesce dove altri, in passato, avevano fallito: “Orbene, alla luce del poderoso compendio probatorio fin qui riportato, appare del tutto evidente che la conclusione raggiunta dal primo giudice, pienamente condivisa da questa Corte, non deriva da una costruzione investigativa, ma costituisce una conclusione obbligata dalle emergenze processuali dell’indagine, che rappresenta una decisa virata nella direttrice giudiziaria fin qui susseguìta. Si ribadisce, l’interprete non può che limitarsi a prendere atto che l’unitarietà della ‘ndrangheta è caratteristica attestata dagli stessi protagonisti, esplicitamente ed inequivocamente affermata in plurime conversazioni, peraltro intrattenute dai più disparati correi, in realtà territoriali del tutto diverse. Si cita, emblematicamente, la vicenda relativa al defunto boss Novella, cui gli stessi sodali hanno addebitato una volontà di “distaccarsi” dalla Calabria che ne ha determinato la “fine”, perché “la Provincia lo ha licenziato”, o ancòra le nette, plurime e convergenti affermazioni contenute nelle intercettazioni o le dichiarazioni rese dal collaboratore, secondo cui le ‘ndrine stanziate in Lombardia fuori dalla Calabria rispondono comunque al Crimine, da cui prendono “disposizioni”, richiamandosi poi le numerose altre emergenze citate dal GUP tutte conferenti con l’impianto accusatorio, posto che hanno in comune il medesimo denominatore: la “dipendenza” dei gruppi siti fuori regione dal “Crimine” e dalla “madrepatria”, da cui mutuano la struttura e derivano la loro stessa essenza , talchè risulta palesemente che se anche i precedenti processi celebrati nel distretto giudiziario reggino non abbiano riconosciuto l’esistenza di una struttura unitaria dell’associazione, ciò è avvenuto esclusivamente per un deficit probatorio che la presente indagine ha invece colmato ed anzi esaltato come detto in tutta la sua chiarezza”.

Inoltre, i giudici di secondo grado liquidano anche il pretesto, avanzato da più parti, della presunta assenza dei De Stefano nell’inchiesta: “Nell’ingente compendio probatorio acquisito al processo è rinvenibile un preciso e significativo riferimento alla famiglia ndranghetistica dei De Stefano, quali soggetti appartenenti alla storica cosca operante nella zona Nord di Reggio Calabria: ci si riferisce alle conversazioni fra Giuseppe Pelle e Giovanni Ficara, captate nei primi mesi del 2010 nella c.d. Operazione Reale, nel corso delle quali il secondo dichiarava esplicitamente, fra l’altro, che tutti appartenevano ad un’unica organizzazione, la “‘ndrangheta”, e, ragionando in merito a possibili alleanze, citava esplicitamente i De Stefano, soggetti “vicini” ai Ficara”.

Da qui, dunque, il dato, lapidario, espresso dalla Corte d’Appello presieduta da Rosalia Gaeta: “In conclusione, quindi, nessun dubbio può nutrirsi sulla corretta impostazione accusatoria, relativamente a tale caratteristica della struttura, rispetto alla quale non può neanche dirsi distonico il preteso disinteresse o comunque il mancato intervento dell’organismo unitario nelle fasi di criticità del sodalizio, quali le faide sanguinose o le c.d. guerre di mafia che hanno caratterizzato (e talora ancora caratterizzano) gli ultimi decenni. Invero, ciò è agevolmente spiegabile non solo con l’autonomia dei singoli “locali”, che comunque coesiste con il riconoscimento di una struttura apicale, di coordinamento e direzione, ma con la fisiologica esistenza ed inevitabilità di motivi di forte contrasto che animano qualsiasi consesso umano, maggiormente quelli a connotazione illecita, il cui sorgere non può certo essere impedito dall’esistenza di un’autorità che orienta la vita dell’intero gruppo criminoso. Anche la doglianza difensiva inerente tale aspetto dell’indagine risulta quindi infondata e va pertanto disattesa”.

“Un lavoratore, un padre e un compagno”: la mia intervista per LA NOSTRA VOCE

Schermata 2014-12-11 alle 19.52.51Giulio Cavalli nasce come artista di teatro, è un attore, ma non è un interprete qualunque.

I suoi spettacoli si ispirano a fatti realmente accaduti, al presente civile, sociale e politico del nostro Paese. E’ sotto scorta dal 2008. La ‘Ndrangheta non gradisce gli attacchi che lancia dal palco, le verità che racconta al pubblico di quel Nord dove per molti ancora vale il ritornello: “Qui la mafia non esiste”. Nell’aprile 2010 è stato eletto come consigliere regionale indipendente nella lista dell’Italia dei Valori in Lombardia. In seguito, ha aderito al gruppo di Sinistra Ecologia e Libertà. Questa è l’intervista che gentilmente ci ha concesso.

Chi è Giulio Cavalli oggi?

Un lavoratore, un padre e un compagno. E’ concentrato sul lavoro che ama di più: scrivere, oltre che nell’ascolto di tutto ciò che purtroppo si è perso in questi ultimi anni.

E’ attore, regista e scrittore. Cosa, ritiene, abbiano in comune queste tre arti?

L’amore per le storie, per le persone che troppo spesso rimangono impigliate nelle proprie fragilità o nella pavidità di coloro che gli stanno intorno. Credo che la parola scritta e recitata sia un utile scalpello per portare in superficie vicende che sono rimaste troppo sole o che non sono state abbastanza forti per riuscire ad avere voce.

Perché ha deciso di fare l’attore? Qual è stata la scintilla che le ha fatto capire di intraprendere questo percorso?

Ho studiato per molti anni pianoforte. Uno studio intenso, quasi convulso, in cui ho sperimentato il piacere di comunicare “a cuore aperto” senza mediazioni. Con il tempo ho voluto cercare uno strumento che mi permettesse di mantenere la musica aggiungendo parola e movimento.

Partendo dal suo impegno, ha affermato che il teatro deve essere un “mezzo per mantenere vive pagine importanti della nostra storia”, ha un ruolo civile ma anche partigiano. Ci spiega meglio cosa intende? Si potrebbe definire un teatro di controinformazione?

Il mio lavoro non è di mera informazione. Non credo nemmeno di essere capace di esercitare l’informazione pura: quando vado in scena, devo prendere una posizione, sento il bisogno di comunicare al mio pubblico da che parte sto. In “bambini a dondolo” sono contro i turisti sessuali su minori, in “Linate” racconto le responsabilità degli enti e dell’aeroporto e, allo stesso modo, nei miei spettacoli di “mafia” decido volontariamente di scagliarmi contro i criminali che racconto.

Ritiene che il teatro possa avere la forza di influire sulla coscienza civile di un Paese, nonostante il numero ristretto di persone che raggiunge?

Sì. Perché il teatro è un ottimo punto di partenza per aprire un dibattito che spesso scivola poi su mezzi molto più popolari.

Diversi suoi spettacoli nascono da sentenze giudiziarie. In che modo avviene il processo di trasformazione di una sentenza in un’opera teatrale?

Leggendo la documentazione senza tenere conto dei reati commessi dal punto di vista penale ma pensando all’opportunità e all’inopportunità degli atteggiamenti. Esercitare il senso comune di etica può essere un allenamento per una chiave di lettura collettiva.

A partire dal 2010, è passato anche all’impegno diretto in politica; si è candidato alle elezioni regionali della Lombardia come indipendente nella lista dell’Idv. Come mai ha deciso di affrontare anche questo tipo di impegno? Teatro e politica, quali sono secondo lei i punti in comune?

Credo che la buona politica sia una delle più alte forme d’arte. So che di questi tempi può suonare anacronistico ma credo che l’alfabetizzazione (anche, nel mio caso, sul tema delle mafie) sia compito degli intellettuali e della politica.

Cos’è per lei la mafia?

Tre o più persone che si mettono d’accordo per arricchire il proprio privato a danno del pubblico. E con tutto intorno un ambiente che glielo consente.

“Mafie al nord” è un’espressione molto usata oggi. E’ opportuno parlare di connivenza?

Sicuro. Dopo l’arresto di un assessore della Giunta Regionale in Lombardia penso che la cosa sia acclarata. Chi oggi lo nega o è un imbecille o è un colluso.

Per lo spettacolo “Do ut Des”, nel 2008, ha subìto delle intimidazioni mafiose, per le quali le è stata assegnata la scorta. Immaginava che il suo spettacolo potesse provocare un effetto simile? Quali sono state in concreto le minacce ricevute?

Le minacce sono la cosa meno interessante. Non amo il voyeurismo che si scatena su minacciati “d’arte” per altro in un Paese che dimentica o testimoni di giustizia o i tanti “al fronte”. Posso dirti che ad ogni azione corrisponde una reazione e, visti i soggetti su cui lavoro, era immaginabile una reazione non convenzionale. E continua negli anni.

Continua a vivere sotto scorta. Si è mai sentito solo?

Mai.

Tra i motivi che l’hanno resa una persona “scomoda” per la mafia vi è la denuncia dei rapporti che legano la politica e la criminalità organizzata. Quanto è ancora forte il legame che intreccia lo Stato e l’antistato per eccellenza, e come è possibile reciderlo?

Direi che l’arresto di un ex Ministro degli Interni possa fotografare bene la gravità situazione attuale. Credo che si possa immaginare un miglioramento se ognuno di noi cominciasse a sentirsi, nel proprio piccolo e nella propria funzione, classe dirigente di questo Paese.

Cos’è per lei la libertà?

Rispondere alle regole e non alle convenienze. Potersi permettere di farlo, sempre.

(fonte)

E poi scopro che sono stato profeta su #TorSapienza

Basta leggere quello che scrivevamo qui, eh.

roma-141113144703Chi insufflò le prove di pogrom di Tor Sapienza? Chi doveva incassare i dividendi delle notti di fuoco, sassi e cocci di bottiglia di una borgata “rossa” che improvvisamente, a metà novembre, si era accesa al comando di saluti romani e ronde assetate di “negri” e “arabi”? Sono stati scomodati i sociologi per provare a dare un senso alla furia della banlieue di Roma. E invece, per raccontare quella storia bisogna cominciare da un’altra parte. Dagli appetiti mafiosi del Mondo di Mezzo. Dai Signori degli appalti del “terzo settore” Salvatore Buzzi e Sandro Coltellacci, oggi a Regina Coeli per mafia, dal loro interfaccia “nero” Massimo Carminati e dalla sua manovalanza del Mondo di Sotto. E da una coraggiosa donna salentina, Gabriella Errico, presidente della cooperativa sociale “Un sorriso”, che in quelle notti ha perso tutto. I 45 minori non accompagnati di cui aveva la custodia e la struttura che li ospitava, resa inagibile da un assedio violento.

Seduta nel suo ufficio a Cinecittà, Gabriella respira profondo. “Sono madre di due bambini. Ho paura”, dice. “Ho ancora paura”. Ma non della furia di Tor Sapienza. Di quei due lì. Buzzi e Coltellacci. Del ricordo di quella telefonata arrivata durante il secondo giorno dell’assedio. “Mi chiamò Buzzi. Mi disse: “Resisti, Gabriella, mi raccomando”. Gli spiegai cosa stava succedendo. “Qui fuori è l’inferno. Sono fascisti, Salvatore. Gridano “Duce, Duce”. Mi rispose lasciandomi di sale: “Non ti preoccupare. Ora faccio un paio di telefonate e sistemo””.

“Ce l’ho in pancia”. Un paio di telefonate. E a chi? “Non capivo cosa c’entrasse Buzzi con i fascisti”, dice Gabriella. Con i giorni, quel dubbio diventa un pensiero cattivo. La rivolta di Tor Sapienza è sedata, la cooperativa ha perso il centro e i suoi minori, trasferiti nella struttura della Domus Caritatis all’Infernetto. Gabriella viene avvicinata da un amico. “Mi disse che Buzzi andava dicendo che ora “mi aveva in pancia”. Sì, così diceva: “Ora, ho in pancia quella lì del Sorriso”. Mi infuriai. E per un attimo pensai che a Tor Sapienza solo la mia cooperativa era stata assediata. Come mai le strutture nell’orbita di Tiziano Zuccolo, grande amico di Buzzi, che pure ospitavano migranti adulti non erano state sfiorate dalla rivolta? Dissi al mio amico che Buzzi non aveva in pancia proprio un bel niente”. E però, dopo poco, Buzzi si fa vivo. “Mi fissò un appuntamento per il 4 dicembre alle 11. Mi disse che era venuto il momento di sedersi intorno a un tavolo e discutere del “Condominio Misna””. Condominio Misna? “Era il suo modo di dire. Per riferirsi alla spartizione degli appalti, lui diceva “condominio”. O anche “cartello”. Voleva parlarmi di come intendeva dividere la torta dei “misna”, che sta per “minori stranieri non accompagnati”. Pensava evidentemente che, dopo Tor Sapienza, fossi finalmente pronta a cedere. Per fortuna, il 2 dicembre lo hanno arrestato”.

La solitudine del vigile di Cadorago

Davide Milosa racconta una storia che rende bene le proporzioni della solitudine e della ‘ndrangheta nel profondo nord. Una storia piccola, sembra:

bulldog-675In Lombardia oggi c’è una linea geografica che rappresenta l’ultimo avamposto della ‘ndrangheta. Corre a semicerchio da Appiano Gentile a Guanzate, tocca Cadorago, si allunga a Bulgorello. Sale a nord, attraversa Fino Mornasco, Como, la Svizzera. Un complicato tracciato lungo il quale s’incontrano storie di efferati omicidi e di collusioni tra mafia e politica. Succede in piccoli comuni, dove capita di avere come vicino di casa l’assessore o il boss, e dove la banalità del quotidiano, così come succede in Calabria, radica la mafia ben più dell’infiltrazione nel grande appalto pubblico. L’allarme mediatico, però, resta nascosto tra quelle righe (e sono migliaia) che non raccontano né di Expo né di parlamentari romani. Eppure è in queste storie locali che sempre più spesso le istituzioni abdicano alla mafia.

Succede a Cadorago, settemila anime, Alta Brianza, profondo nord. Il copione è esemplare: il bar Bulldog di Caslino al Piano (nella foto,ndr), che gli investigatori ritengono riconducibile a Bartolomeo Iaconis (‘ndraghetista certificato tale con sentenza definitiva a metà anni Novanta), tiene aperto oltre l’orario di chiusura, i carabinieri di Lomazzo multano i titolari, i quali si rivolgono all’assessore di riferimento per non pagare. Risultato: si attiva l’intera macchina amministrativa, coinvolgendo sindaco, assessore, funzionari comunali. Davanti a tutto questo, ecco il commento sconsolato del capo dei vigili: “ Non ho un buon rapporto con il sindaco in quanto lui e la sua giunta mi hanno praticamente estromesso dalle reale e concrete funzioni comunemente ricoperte dal Comandante della Polizia Locale”.

L’incipit squaderna sul tavolo personaggi, ruoli, rapporti. Indagano i carabinieri di Como che dal 2009 assieme all’allora pm antimafia Mario Venditti intercettano la ‘ndrangheta di Fino Mornasco, tracciando competenze e contatti con la politica. E’ l’inchiesta Arcobaleno sulla quale da luglio pende una richiesta di archiviazione. Il fascicolo, però, recentemente è tornato d’attualità dopo l’operazione Insubria che il 18 novembre 2014 ha chiuso il cerchio attorno a 40 presunti mafiosi affiliati a tre locali di ‘ndrangheta: Cermenate, Fino Mornasco e Calolziocorte. Due inchieste. Stesso contesto. Con Insubria che traccia il solco mafioso mentre Arcobaleno elenca nomi di politici in contatto con i clan. Politici che se non hanno, ad oggi, responsabilità penali, dovranno comunque rendere conto davanti ai loro elettori per i tanti rapporti certificati da decine di intercettazioni.
A Cadorago la metà della popolazione ha precedenti penali

Ecco allora il comandante dei Vigili. Si chiama Marco Radaelli e il 30 settembre 2010 viene sentito a sommarie informazioni dai carabinieri. “Nel territorio di Cadorago – racconta – c’è un’aria molto pesante ed è impossibile lavorare con la giusta serenità. Accade rarissimamente che un cittadino si rivolga a noi per confidarci delle situazioni anomale. Da quando sono arrivato alla polizia locale di Cadorago tutti i miei colleghi mi facevano subito notare i vari personaggi pregiudicati calabresiche usciti dal carcere si presentavano a Cadorago e da cui stare attenti. Nel territorio c’è una situazione di calma apparente e in centro è difficile trovare uno sbandato o spacciatori (…) . La metà della popolazione ha precedenti penali (…). Cito la presenza per le vie del paese di Michelangelo Chindamo uscito da poco dal carcere e di cui tutti parlano come un pezzo grosso della ‘ndrangheta”. Michelangelo Chindamo risulterà tra gli arrestati dell’inchiesta Insubria.

Sembra l’Aspromonte, invece è l’Alta Brianza. Radaelli prosegue. Fa nomi, descrive rapporti. Si tratta di personaggi pregiudicati citati nell’indagine Arcobaleno che,  va detto, ancora non ha dimostrato in pieno le loro responsabilità penali. Ecco allora le parole del capo dei vigili: “Di Bartolomeo Iaconis conosco i precedenti penali (…). Conosco meglio il suo socio Alessandro Tagliente perché si vede più spesso nei pressi della piazza Largo Clerici, dove ha sede il mio comando, il comune ed il bar Bulldog. Frequenta anche l’amministrazione comunale in virtù della sua funzione di Presidente della Società sportiva Zampiero Calcio. So che tra l’assessore Angelo Clerici e Tagliente c’è un buon rapporto di amicizia”.

Bartolomeo Iaconis nei primi anni Novanta viene arrestato nel blitz I fiori della notte di San Vito, a lui i magistrati assegnano il ruolo di capo società della locale di Fino Mornasco, per associazione mafiosa sconterà 14 anni. Nell’indagine Arcobaleno, sui cui pesa richiesta di archiviazione, viene descritto dai carabinieri “con la capacità di fare sistema, di entrare in rapporti di scambio con una serie di personaggi che permettono (…) di trarre vantaggi sempre nuovi”. E il nome di Iaconis, detto Bartolino, pur non indagato, compare nell’indagine Insubria. Ne parlano Giuseppe Puglisi (capo della locale di Cermenate con carica di Quartino) e Domenico Spanò affiliato a Fino Mornasco. Chiede Spanò: “Iaconis è il capo di tutta la Lombardia? E’ responsabile Bartolino?”. Puglisi smentisce. Spanò riprende: “Allora gli hanno dato qualche dote che tu non sai, Bartolino è superiore a voi”. Ribadiamo, che pur condannato per mafia, Iaconis non risulta indagato nell’ultima inchiesta. E nonostante questo, annota il giudice Simone Luerti, più volte la sua presenza è stata richiesta alle “mangiate” dei vari affiliati.

“La famiglia Tagliente – scrivono i carabinieri di Como – è notissima nel campo del traffico e dello spaccio di stupefacenti. I fratelli Alessandro e Sergio, sono da sempre stati indicati quali trafficanti di stupefacenti legati a Michelangelo Chindamo”. Di più: “Alessandro Tagliente (citato nelle informative Arcobaleno, ndr), da sempre uomo di fiducia di Iaconis e suo socio in affari influiva sulle decisioni delle amministrazioni comunali (…) mettendo (…) a disposizione (…) il proprio tessuto relazionale costituito da uomini politici, pubblici ufficiali, imprenditori”.

Tra i politici c’è Angelo Clerici, attualmente capo gruppo di minoranza, all’epoca assessore alla Sicurezza. Clerici, citato più volte nell’inchiesta Arcobaleno, si attiva per far togliere la multa al bar Bulldog gestito dalla moglie di Alessandro Tagliente. Di lui scrivono i carabinieri: “Si è reso disponibile a intercedere, per conto di Elisabetta Rusconi, con il sindaco di Cadorago per sistemare una contravvenzione comminata dai carabinieri di Lomazzo al Bar Bulldog (…) . Il sindaco, su richiesta dello stesso Clerici, ha voluto predisporre (…) una delibera fittizia con effetto retroattivo con la quale giustificare l’apertura del locale e aiutare quindi i gestori dell’esercizio commerciale, molto noti nella comunità come pregiudicati, a non pagare la contravvenzione”. E così lo stesso Clerici a colloquio con l’allora vice segretario comunale dice: “Mi ha detto di sì il sindaco. Ha detto che noi l’autorizzazione la facciamo risultare in quella data”. La conferma arriva dalla funzionaria del comune Domenica Lugarà che sentita dai carabinieri dice: “Il sindaco Franco Pagani mi ha convocata nel suo ufficio alla presenza della titolare dell’esercizio commerciale suddetto al fine di chiarire quali fossero gli orari di apertura e chiusura vigenti in quel periodo dell’anno”.

Quotidianità, si diceva. Questa è la ‘ndrangheta che giorno dopo giorno si sta mangiando la Lombardia. Anche grazie alla politica che, pur immune da responsabilità penali come in questo caso, non si fa scrupoli a intrattenere rapporti con i clan. E così succede che il 24 agosto 2008 Angelo Clerici telefoni a Bartolomeo Iaconis per gli auguri. “Ho detto sentiamo Bartolo che fa l’onomastico”. L’uomo condannato per ‘ndrangheta ricambia e invita l’allora assessore alla cresima di suoi figlio. E’ il 13 febbraio 2010. Aggiunge particolari l’ex maresciallo Paolo Belligi sentito nel 2010 dai carabinieri: “Sono membro dell’osservatorio della sicurezza del comune di Cadorago, e l’assessore alla sicurezza è Angelo Clerici” che “abita a pochi passi dal Bulldog (…) ed è amico intimo dei titolari (…). Tutti a Cadorago sanno che Bartolomeo Iaconis è soggetto importante della criminalità organizzata”. Il boss, poi, si chiama per tutto. Anche per un consiglio nell’acquisto dell’auto alla Fino Motori di proprietà di Luca Cairoli attuale presidente del consiglio comunale a Fino Mornasco. Risponde Iaconis: “Gli dici (a Cairoli, ndr) mi ha detto Bartolino di venire qua da te per farmi fare un preventivo (…) lo conosco bene, siamo amici”. Benvenuti al nord.