Vai al contenuto

Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Il pentito: “il tritolo per Di Matteo direttamente dalla Calabria”

Per uccidere Nino Di Matteo il tritolo era arrivato dalla Calabria. È l’ultima rivelazione di Vito Galatolo, il boss dell’Aquasanta che ha deciso di “saltare il fosso” e collaborare con la magistratura, svelando il piano di morte organizzato da Cosa Nostra per assassinare il pm che indaga sulla Trattativa Stato mafia. Centocinquanta chili di tritolo, un attentato già in fase organizzativa, ordinato direttamente da Matteo Messina Denaro, che con alcune lettere inviate ai boss palermitani aveva emanato l’ordine di morte per Di Matteo nel dicembre del 2012. A quel punto i padrini del gotha palermitano si erano riuniti in summit: e nella riunione del 9 dicembre 2012 Girolamo Biondino, fratello dell’ex autista di Totò Riina, aveva informato gli altri boss degli ordini di Messina Denaro.

Di Matteo va fatto fuori “perché mi hanno detto che è andato troppo oltre” scrive la primula rossa di Castelvetrano ai boss palermitani. Che dopo aver raccolto 600mila euro, avevano iniziato a cercare l’esplosivo per l’attentato. E almeno una parte del tritolo era arrivato in Sicilia dalla Calabria: solo che quel quantitativo di esplosivo era in cattive condizioni, dato che presentava tracce d’umidità e infiltrazioni d’acqua. I boss di Cosa Nostra si erano subito attivati con i loro referenti calabresi riuscendo a farsi cambiare l’esplosivo difettoso: il particolare dell’infiltrazione d’acqua nel tritolo, però, suggerisce agli inquirenti un’ipotesi investigativa. E cioè la possibile provenienza dell’esplosivo dalle stive della Laura Cosulich, la nave mercantile che, come racconta l’edizione palermitana di Repubblica, è affondata al largo di Saline Joniche durante la seconda guerra mondiale. Le stive della Laura C sarebbero stracolme di tritolo: nel maggio scorso i sommozzatori della polizia sono riusciti a recuperarne ben 24 chili.

A sentire la questura di Reggio Calabria, però, il tritolo dimenticato sulla nave affondata nello Jonio equivale a parecchie tonnellate: diversi collaboratori di giustizia hanno raccontato come la ‘ndrangheta si sia spesso servita dell’esplosivo della Laura C. Tritolo che in alcune occasioni era stato scambiato o venduto ad altre organizzazioni criminali. Anche per la strage di Capaci sarebbe stato utilizzato esplosivo recuperato nei fondali marini: secondo il pentito Gaspare Spatuzza, Cosa Nostra si sarebbe infatti servita del tritolo recuperato al largo di Palermo da Cosimo D’Amato, il pescatore di Porticello che aveva individuato una serie di ordigni inesplosi sganciati durante la seconda guerra mondiale. Fino ad oggi, però, gli inquirenti non hanno trovato analogie tra il tritolo utilizzato nelle stragi del 1992 e quello recuperato dalle stive della Laura C.

Questa volta, invece, Cosa Nostra aveva intenzione di utilizzare quell’esplosivo recuperato nei fondali calabresi per uccidere Di Matteo. Un piano di morte che, come raccontato da Il Fatto Quotidiano, era già stato studiato nei minimi dettagli. L’ipotesi privilegiata dai boss era quella che prevedeva l’utilizzo di un’autobomba, come per l’omicidio di Rocco Chinnici o per la strage di via d’Amelio. In un primo momento, il commando aveva pensato di mettere in scena l’attentato nei pressi del Palazzo di giustizia di Palermo: il rischio di fare strage di civili, però era troppo elevato, e alla fine i boss avevano iniziato a seguire gli spostamenti di Di Matteo, concentrandosi sulla zona in cui abita il pubblico ministero. Una versione confermata da una delle lettere anonime arrivate in procura, quella che nel febbraio del 2013 annuncia per la prima volta un attentato contro Di Matteo: l’estensore si presenta come un uomo d’onore di Alcamo, e racconta di aver pedinato per giorni la scorta del pm.

I magistrati della procura di Caltanissetta, che da settimane interrogano il collaboratore di giustizia, hanno chiesto a Galatolo se per caso non fosse lui l’autore dell’anonimo, ma il boss dell’Acquasanta ha negato: nel commando che doveva assassinare Di Matteo ci sarebbe stata quindi un’altra gola profonda. Galatolo, rampollo di una delle più importanti famiglie di Cosa Nostra, è stato arrestato nel giugno del 2014: poche settimane fa ha chiesto di parlare con il pm che indaga sulla Trattativa, per “togliersi un peso dalla coscienza”, raccontandogli il piano di morte ai suoi danni. “Dottore, i mandanti per lei sono gli stessi del dottore Borsellino” ha detto il neo pentito al pm, raccontando che Cosa Nostra aveva anche preparato un agguato a colpi di bazooka e kalashnikov da eseguire quando Di Matteo si trovava a Roma: il potenziamento della scorta del magistrato aveva però fatto sfumare quest’ipotesi. Tra i particolari svelati dal pentito c’è anche il racconto di un momento d’impasse nella preparazione dell’attentato: dopo aver trovato il tritolo, i boss contattarono Messina Denaro spiegando di non essere in grado di confezionare l’ordigno esplosivo ad alto potenziale. Dal boss di Castelvetrano però era arrivata una rassicurazione: “Non c’è problema” scrive Messina Denaro, dato che al momento opportuno, ai boss sarebbe stato messo a disposizione “un artificiere”. Da dove sarebbe arrivato e inviato da chi non è dato sapere.

(fonte)

‘Ndrangheta in Piemonte: confisca alla famiglia Marando

Una ricchezza accumulata da Sud a Nord grazie “a lucrose attività criminose, rappresentante – inizialmente – da sequestri di persona a scopo di estorsione e – successivamente – dal traffico (anche internazionale) delle sostanze stupefacenti”, scrivono i giudici nel provvedimento di confisca. Un patrimonio immenso tenuto insieme fino ai numerosi arresti che hanno colpito la famiglia. È così che l’impero dei fratelli Marando è finito nelle mani dello Stato. Beni per 18 milioni di euro sono stati confiscati dalla Direzione investigativa antimafia di Torino alla famiglia della ‘ndrangheta insediata da anni a Volpiano, alleata ai Perre e agli Agresta e legata alla cosca Barbaro di Platì (Reggio Calabria). La misura è stata decisa dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Torino che ha pure stabilito di mettere sotto sorveglianza alcuni imputati, tra cui l’attuale reggente Domenico Marando, detenuto in carcere a Saluzzo, e il nipote 25enne Luigi. I beni erano stati sequestrati preventivamente nell’operazione “Marcos” di due anni fa.

Secondo gli investigatori, dagli anni Ottanta in poi i Marando sono stati responsabili di sequestri di persona e traffico di stupefacenti, anche a livello internazionale, intrecciando alleanze con Cosa Nostra e con narcotrafficanti in Turchia per l’eroina e in Colombia per la cocaina. In questo modo hanno accumulato capitali i boss Francesco “Ciccio” Marando (ucciso nel 1997 a Chianocco, all’inizio di una faida raccontata dalla sua vedova Maria Stefanelli nel recente libro “Loro mi cercano ancora”) e poi Pasquale (scomparso nei primi anni Duemila per un caso di lupara bianca). Si parla di tre società, di 27 terreni (molti in Calabria) e di 33 immobili tra Marina di Gioiosa Ionica, Volpiano, Cesano Boscone e Busto Arsizio. C’è pure una villa con piscina e un giardino immenso a Nettuno.

I Marando coi soldi ci sapevano fare anche grazie agli aiuti forniti da professionisti come un geometra, Cosimo Salerno, pure lui colpito dalle confische e dalla sorveglianza speciale. A “occuparsi” dei fabbricati c’erano poi alcune aziende tra cui due società offshore basate a Gibilterra e una, la Green Farm di Torino, per alcuni anni gestita da un prete, padre Mario Loi (conosciuto come “Padre Rambo”), “testa di legno” di Pasquale Marando e “schermo ideale in quanto sacerdote e figura quindi al di sopra di ogni possibile sospetto”. Buona parte del denaro contante invece veniva nascosto nelle banche svizzere grazie a un avvocato di Lugano, Francesco Paolo Moretti.

Il sistema, però, si è inceppato. È successo dopo la morte di Francesco, dopo le vendette che hanno portato alla condanna di Domenico e dopo la scomparsa di Pasquale. I fratelli rimasti vogliono spartirsi il bottino. Da una parte, chiuso in cella, c’è Domenico, dall’altra i fratelli rimasti liberi, Nicola e Rosario, che si sarebbero appropriati del patrimonio di Pasquale. Di mezzo una serie di fiancheggiatori (come un’educatrice del carcere) e le nuove generazioni che iniziano a darsi da fare. Infine c’è Rocco, “considerato alla stregua dell’ultima ruota del carro familiare”, osservano i magistrati. Emarginato nella spartizione e preoccupato per le sue sorti, quest’ultimo decide di collaborare con la giustizia spiegando la gestione degli affari e il contrasto tra Domenico e gli altri due, contrasto emerso pure nell’intercettazione di un colloquio in carcere l’8 novembre 2007 tra Domenico, il figlio Antonio e il nipote Luigi, figlio di Pasquale allora appena maggiorenne. Proprio questo ragazzo, ora 25enne, è “fortemente inserito nell’ambiente criminoso di appartenenza, tanto da seguire gli affari di famiglia”. Di questo ambiente “ha condiviso pienamente le logiche e si è fattivamente impegnato per conseguirne i traguardi”, annotano i giudici che lo ritengono un “soggetto dotato di pericolosità sociale” e lo sottopongono a tre anni di sorveglianza speciale.

A differenza di quanto sostenuto da altre sentenze, Rocco Marando è ritenuto un pentito attendibile per la “conoscenza approfondita delle vicende criminose”. Non lo era per i giudici del maxiprocesso “Minotauro” che negarono l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta a Volpiano e assolsero Rosario Marando dall’accusa di 416 bis. A Rosario (condannato all’ergastolo in primo grado per gli omicidi della faida contro gli Stefanelli, ma libero) e a Domenico è andata relativamente bene anche nel processo penale nato dall’operazione “Marcos” della Dia: hanno avuto condanne più lievi perché in certi episodi avrebbero commesso “autoriciclaggio”, reato all’epoca non punibile e approvato definitivamente in Parlamento soltanto pochi giorni fa.

(click)

In Umbria la mafia non esiste: 61 arresti per ‘ndrangheta

Le mani della ‘ndrangheta sull’Umbria: 61 gli arresti in corso di esecuzione da parte dei carabinieri del Ros. Sequestrati beni per oltre 30 milioni. Nel mirino degli investigatori un sodalizio radicato nella regione, con “diffuse infiltrazioni nel tessuto economico locale” e “saldi collegamenti” con le cosche calabresi di origine.

Diversi i reati contestati nelle misure cautelari, richieste dalla Procura distrettuale antimafia di Perugia: associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, danneggiamento, bancarotta fraudolenta, truffa, trasferimento fraudolento di valori, traffico di stupefacenti e sfruttamento della prostituzione.

I carabinieri del Ros stanno eseguendo gli arresti nella provincia di Perugia e in varie città italiane, contestualmente al sequestro di beni mobili ed immobili riconducibili agli indagati e ritenuti provento dei reati. L’inchiesta, spiegano gli investigatori, “ha documentato le modalità tipicamente mafiose di acquisizione e condizionamento di attività imprenditoriali, in particolare nel settore edile, anche mediante incendi e intimidazioni con finalità estorsive”.

I particolari dell’operazione “Quarto passo” saranno resi noti in una conferenza stampa, alla quale parteciperà il Procuratore nazionale antimafia alle 11.00, a Perugia.

Giovedì in Senato

Giovedì 11 dicembre il mio carissimo amico, poliziotto della Catturandi di Palermo e scrittore (soprattutto scrittore, forse) IMD presenta il suo ultimo libro La Catturandi – La verità oltre le fiction (lo potete acquistare qui) presso il Senato della Repubblica, Palazzo Madama, alle ore 16.00 nella Sala “Caduti di Nassirya”. Insieme a lui ci sarò io (appunto), il Senatore Michele Giarrusso, il Senatore Luigi Gaietti e la Deputata Giulia Sarti, tutti M5S (sono gli organizzatori della presentazione, ovviamente).

In quell’occasione rilanceremo con forza la petizione (che trovate qui) per chiedere risposte su Nino Di Matteo (ma ci ricorderemo di tutti, ovviamente). Vediamo se “da dentro” ci sentono meglio, eh.

«Dissi: ingegnere, vada subito dal pm»

Poiché non sono “tutti uguali” vale la pena leggere l’intervista di Daniela Preziosi a Diego Novelli, ex sindaco di Torino che denunciò la corruzione nella sua giunta, era il 1983:

«In con­fronto a quello che leggo oggi la nostra era una cor­ru­zione da goliardi. Io sco­prii che un impren­di­tore pagava ad alcuni asses­sori le pro­sti­tute ceco­slo­vac­che. Li por­tava a Praga in albergo all inclu­sive. Offriva week end. Un lunedì mi arrivò un asses­sore tutto abbron­zato in pieno inverno. ‘Sei andato a sciare?’. ‘No’, mi disse, ‘ho fatto un viag­getto in Kenya’». Diego Novelli, classe ’31, pre­si­dente ono­ra­rio dell’Anpi tori­nese, una lunga car­riera da gior­na­li­sta dall’Unità degli anni 50 alla al set­ti­ma­nale Avve­ni­menti negli anni 80, oggi dirige il quo­ti­diano online Nuo­va­so­cietà. Ma Novelli è soprat­tutto il mitico sin­daco comu­ni­sta di Torino nel decen­nio 75–85. Quello che nel 1983, dieci anni prima dell’esplosione di Tan­gen­to­poli, di fronte a un sospetto di cor­ru­zione nella sua giunta mette tutto in mano alla pro­cura. Finì con le con­danne. Ma da lì per Novelli la vita poli­tica non fu facile.

Come hai sco­perto che alcuni tuoi asses­sori erano corrotti?
Era venuto da me un impren­di­tore che mi denun­ciava dei fatti ille­citi sugli appalti però senza fare i nomi. La terza volta che viene gli dico: inge­gnere’, era un inge­gnere, si chia­mava Di Leo, ‘o lei fa i nomi o io la denun­cio per calun­nia’. Lui risponde: ‘non mi rovini, ho fami­glia’. ‘Lei è venuto a dirmi che io sono quello del rigore ma non si fida di me. Si fida dei magi­strati?’. Mi fac­cio chia­mare il pro­cu­ra­tore della Repub­blica e gli dico: ‘Le mando que­sto signore, non me lo spa­venti e fac­cia quello che crede’. Poi però, per paura che l’ingegnere uscito dal muni­ci­pio cam­biasse idea, gli metto appresso un vigile della mia scorta, si chia­mava Bar­bero, che lo accom­pa­gni in pro­cura. Dopo tre mesi sono arri­vati gli arresti.

Cosa era successo?
Sco­pri­rono un giro di cor­ru­zione mise­ra­bile. Ave­vamo un appalto da cen­ti­naia di milioni di lire, allora una cifra da capo­giro, per l’informatizzazione di tutto il comune, ana­grafe, bilan­cio, ser­vizi sociali. A pagare tan­genti e viaggi di pia­cere era una ditta di infor­ma­tica ame­ri­cana. Fu arre­stato il mio vice­sin­daco socia­li­sta. Alla fede­ra­zione del Psi fecero let­te­ral­mente piazza pulita: teso­riere, il segre­ta­rio, alcuni asses­sori. Bec­ca­rono anche due dei nostri, due comu­ni­sti che si erano limi­tati a farsi pagare viaggi di pia­cere. Sco­prii che nella lista degli alle­gri viag­gia­tori c’era anche il mio nome, ma con me non ci ave­vano nean­che pro­vato, al mio posto ave­vano offerto il week end a un democristiano.

Ma qui ini­ziano i tuoi pro­blemi politici.
Craxi venne a Torino e chiese in piazza la mia testa. Disse: ‘Novelli non può più fare il sin­daco, non gode più della fidu­cia del Psi’.

Il Pci, il tuo par­tito, come reagì?
Qual­cuno si è schie­rato subito con me, come l’allora segre­ta­rio di fede­ra­zione Piero Fas­sino. Craxi mandò alla fede­ra­zione tori­nese del Psi un com­mis­sa­rio straor­di­na­rio (fu scelto Giu­liano Amato, ndr), fui accu­sato di non aver «risolto poli­ti­ca­mente la que­stione». I socia­li­sti usci­rono dalla giunta, io mi dimisi e for­mammo una giunta mono­co­lore comu­ni­sta con qual­che indi­pen­dente. I socia­li­sti in teo­ria ci davano l’appoggio esterno, ma mi fecero venire l’esaurimento: ogni giorno non sapevo nean­che se in con­si­glio avevo il numero legale. Siamo andati avanti fino a novem­bre ‘84 quando hanno con­vinto, diciamo così, due com­pa­gni comu­ni­sti di pas­sare al gruppo socia­li­sta. Il 25 gen­naio dell’85, a tre mesi dalle ele­zioni, ci fu un ribal­tone. E venne eletto un sin­daco socia­li­sta soste­nuto da una giunta pen­ta­par­tito. Così quello che aveva chie­sto Craxi in piazza nel marzo dell’83, e cioè la mia testa, si era avverato.

Poi però il Pci tori­nese alle ele­zioni dell’85 ti ricandidò.
Ma il Pci era rima­sto iso­lato, fummo bat­tuti dal pentapartito.

E dal Pci nazio­nale quali segnali arrivarono?
Al con­gresso d Milano, che si svol­geva pro­prio in quei giorni, inter­venni e spie­gai che l’iniziativa era par­tita dal sin­daco quindi non dove­vamo temere nulla: noi ci siamo sem­pre com­por­tati con rigore. Quando la com­mis­sione ristretta del comi­tato cen­trale discusse i nomi della dire­zione del par­tito, nell’elenco c’era il mio nome. Ma quel nome fu tolto.

Chi lo tolse?
E’ pas­sato molto tempo, lasciamo stare. I pro­ta­go­ni­sti si saranno emen­dati. Partì lan­cia in resta il segre­ta­rio regio­nale dell’Emilia che diceva: atten­zione, noi abbiamo tutte le giunte con i socia­li­sti, se ora met­tiamo Novelli in dire­zione sem­bra che lo abbiamo pre­miato per­ché ha fatto que­sta cosa con­tro il Psi. Ricordo che Nilde Jotti dalla tri­buna del comi­tato cen­trale si rivolse a me con que­ste parole: com­pa­gno Novelli, quando si hanno inca­ri­chi così deli­cati biso­gna saper can­tare e por­tare la croce. Molti anni dopo, leg­gendo il libro di Luciano Barca, Cro­na­che dall’interno del ver­tice del Pci (Rubet­tino, 2005, ndr) ho sco­perto com’è andata. Barca scrive così, rac­con­tando del con­gresso: «La rive­la­zione di Novelli mette subito allo sco­perto che nella Dire­zione del Pci con­vi­vono ormai due posi­zioni oppo­ste: c’è chi con­si­dera il sin­daco un giu­sto che ha fatto il suo dovere e chi, come Maca­luso, un “povero cre­tino mora­li­sta”». Barca rac­conta anche che poi in com­mis­sione elet­to­rale sulla pro­po­sta di por­tare me in dire­zione, soste­nuta da Minucci, Pec­chioli e Pajetta e con il favore di Ber­lin­guer, «la pro­po­sta è respinta sotto l’attacco della destra» (si tratta ovvia­mente della destra del Pci, ndr).

Ma come può suc­ce­dere che in un par­tito non ci si renda conto che il pro­prio com­pa­gno è un mascalzone?
Non so spie­gar­melo. Un par­tito deve sem­pre tenere alta l’attenzione. Io avver­tii i primi sin­tomi di inqui­na­mento all’inizio degli anni 80. A Torino furono le prime avvi­sa­glie di Tan­gen­to­poli, che però arrivò molto dopo. Ma nes­suno poteva cadere dal pero: il primo segnale cla­mo­roso lo dette pro­prio Ber­lin­guer, nel luglio dell’81, nella famosa inter­vi­sta a Euge­nio Scal­fari sulla que­stione morale. Dove dice: «I par­titi hanno dege­ne­rato».

Dice ‘i par­titi’, non ‘gli altri par­titi’. Era chiaro il segnale di allarme che stava lan­ciando era anche verso il suo Pci.

(Il manifesto, 9 dicembre 2014)

Caro Giulio

Caro Giulio,
te lo giuro che ci ho provato cento volte a scriverlo e riscriverlo questo pezzo. Mangiato, sputato e rimangiato come non si dovrebbe fare per il rispetto per le storie che nei documenti bollati si scrivono con le maiuscole. Ho provato a metterci il rigore e tutto l’impettimento degli studiosi scientifici ma mi sembrava di martellare un palazzo bello ma abusivo, costruito sulla spiaggia, anche se con l’aria da ingegnere. Ho provato a scriverlo e ripetermelo in testa con l’eco di muro e legno dei tribunali ma qui il cuore della storia sta tutto nella giustezza più che nella giustizia.
Una mattina mi ci sono messo di piglio, con tutte le carte e i trucchi da camerino, raccogliendo gli avanzi di scenografie che avevo sparso in giro, e mi sono detto che magari con quattro parrucche e del rossetto pesante saremmo riusciti tutti a digerirla, questa storia. Sbagliato.
Caro Giulio, l’unico inizio vero è che questa storia accende la nausea: nausea nera, nausea pelosa, nausea incurabile. Una storia che galleggia tutta nei fondi che non si riescono a sciacquare, una storia che spia dalla serratura cinquant’anni di istituzioni che si baciano di nascosto nei cessi, una storia che sta nelle risalite a pelo d’acqua per prendere fiato e più in basso è tutta acqua al buio, una storia che non rimane in piedi senza livore e senza la sua nausea.
Caro Giulio, confesso che ci è uscito un libro maleducato e rissoso. Di quella maleducazione indignata che batte sulle vene in testa e che si vorrebbe in prescrizione. E non vale né pentirsi né dissociarsi. Ci sono palcoscenici che vanno usati e palcoscenici che vanno osati: non cerchiamo l’equilibrio educato da teatro stabile dentro questo girotondo di onorevoli venerabili e di bugie liriche. Caro Giulio, questo libro è stato martellato tutto storto, con dentro i fatti desunti e i nomi rivoltabili come un Molière senza boccoli e sorrisi. Ma indignato. Indignato sì. E ci avessimo messo il papillon all’indignazione forse sarebbe stato meglio ma non ci avrebbe creduto quasi nessuno. Un libro scritto, detto, e dispiaciuto. Con la nausea come odore di introduzione.

(dal libro L’INNOCENZA DI GIULIO, Andreotti e la mafia in offerta qui nella nostra piccola libreria)

Le confische che non confiscano

Parole, immagini e azioni della Casa della Legalità e della Cultura:

canfarotta

Quella dell’operazione “TERRA DI NESSUNO”, promossa ed eseguita dal Centro Operativo D.I.A. di Genova con la collaborazione dell’Arma dei Carabinieri il 3 luglio 2009, a carico dei CANFAROTTA – LO RE è stata una delle più consistenti e rapide confische nel nord Italia, nonostante fosse ancora in vigore la vecchia e più complessa normativa sulle misure preventive. Un risultato a cui come Casa della Legalità, con la costante collaborazione dei Liberi Cittadini della Maddalena, si è portato un concreto contributo perché il contrasto all’illegalità, alle mafie come allo sfruttamento della prostituzione, deve vedere un azione civile concreta e collaborante con le Autorità dello Stato, non limitandosi a slogan o parate.

Ai CANFAROTTA – LO RE, oltre alla misura della Sorveglianza Speciale di P.S., sono stati confiscati beni per un valore di circa 5 milioni di euro. Beni immobili principalmente a Genova, nel centro storico ma anche a Coronata (otto), a Cornigliano(due) e Sampierdarena (quattro), a Rivarolo (uno) e Campasso (uno), ad Apparizione (uno). Quelli di Fontanigorda(tre terreni, due magazzini, sei appartamenti) non hanno visto, invece, seguito al sequestro. Due i beni confiscati anche a Ceva(una colonna intera di un vecchio casolare contadino) in provincia di Cuneo ed altri anche nella città di Palermo (otto beni immobili e due terreni)…

A Genova risultavano 103 unità immobiliari ma sei di questi immobili certamente erano stati accatastati due volte, uno è stato dissequestrato e tre non risultavano più di proprietà (uno espropriato, uno risultava già venduto ed un altro che non risultava più di proprietà).

Nel centro storico di Genova si tratta, certamente, di 75 unità immobiliari (tra magazzini, bassi, appartamenti). Immobili che, ad oggi, sono nella gestione dell’Agenzia Nazionale Beni Sequestrati e Confiscati.

Di questi immobili diversi risultano (ancora al dicembre 2014) occupati abusivamente dai CANFAROTTA – LO RE. Precisamente:
– l’unità immobiliare sita in VIA CANNETO IL CURTO 25 R;
– l’unità immobiliare (appartamento) sita in VIA MACELLI DI SOZIGLIA 4 int. 2;
– unità immobiliare (appartamento) sita in VIA STEFANO CANZIO 4 int. 1;
– unità immobiliare (appartamento) sita in VIA CORONATA (SALITA PADRE UMILE) 10 int. 1
– sembrerebbe che anche gli altri immobili siti negli altri interni di CORONATA siano occupati e/o comunque nella disponibilità dei CANFAROTTA – LO RE, così come sempre il CANFAROTTA Benito considera ancora nella sua disponibilità (occupandoli con materiali ed andandoci ogni tanto) altri beni, tra cui il magazzino/cantina di VICO DELL’UMILTA’.

Per queste occupazioni abusive, come Casa della Legalità, abbiamo inviato un Esposto-Denuncia alla Procura della Repubblica ed al Questore di Genova, oltre che per conoscenza anche al Prefetto. Non è infatti tollerabile l’affronto allo Statoche costoro perpetuano e, quindi, per questo non devono soltanto essere perseguiti penalmente ma anche sgomberati con estrema urgenza dai beni confiscati loro dallo Stato. Per chi ha sfruttato esseri umani, facendoli vivere in condizione disumane e sfruttandoli per la prostituzione, non ci può essere alcuna pietà!

Per quanto concerne il bene confiscato di via Canneto il Curto 25 rosso siamo anche riusciti a documentare con alcune foto l’occupazione abusiva da parte del CANFAROTTA Benito:

CANFAROTTA Benito tiene aperto il bene confiscatogli che occupa
il bene confiscato occupato dal CANFAROTTA in via Canneto il Curto
Oltre a quelli occupati abusivamente dai CANFAROTTA, degli altri beni confiscati a Genova ne risultano occupati a vario titolo 31 (18 con contratto in essere prima della confisca definitiva – contratti che possono essere cessati in ogni momento in base alla normativa vigente – ed altri 13 occupati senza contratto e quindi abusivamente).

Fatta questa panoramica sulla situazione reale, passiamo alla prospettiva.

Nel giugno scorso inviammo all’Agenzia Nazionale Beni Sequestrati e Confiscati, alla Prefettura ed al Comune di Genovauna proposta aperta per un progetto di gestione di alcuni beni confiscati. Dal Comune di Genova (Assessore Fiorini) non giunse alcuna risposta, mentre il Prefetto ha segnalato l’interessamento della Casa della Legalità al Delegato dell’Agenzia Nazionale Beni Sequestrati e Confiscati che ci ha contattati. Da qui, oltre ad aver acquisito le informazioni sulla situazione generale, abbiamo sviluppato i dovuti approfondimenti e le valutazioni conseguenti. Ovviamente, come nostra prassi, partendo dal territorio. E’ così che si è proceduto con il coinvolgimento di quella realtà che da lungo tempo (e non dalle ultime settimane o qualche mese) vive, opera e si impegna su quel territorio, come i Liberi Cittadini della Maddalena, che già ci aveva fornito il massimo supporto per raccogliere quegli elementi che passati alla D.I.A. sono divenuti utili in quella Operazione “Terra di Nessuno” che ha portato alla confisca dei beni ai CANFAROTTA (così come, parallelamente, sono stati colpiti dalla Polizia di Stato gli ZAPPONE e dalla Guardia di Finanza il CACI Rosario, che veniva ospitato dal Comune di Genova in un albergo di Via Balbi e con anche assegnazione di casa popolare, dopo l’occupazione abusiva dei beni – come da nostra denuncia pubblica ed all’A.G. – che la D.I.A. gli aveva confiscato in Vico delle Mele… ovviamente mentre l’allora Amministrazione comunale che faceva parate a destra e a manca contro le mafie, sic!).

Vista la situazione di totale stallo sui beni confiscati ai CANFAROTTA (nel contesto che abbiamo già delineato al dettaglio) abbiamo promosso due proposte. Una proposta generale su come affrontare lo sblocco della situazione, arrivando a coinvolgere cittadinanza, associazioni ed Istituzioni in un percorso comune dove i singoli interventi di ciascuno arrivino a comporre un mosaico di intervento, con il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati, senza gravare sulla spesa pubblica e che conducano ad una “bonifica” non soltanto circoscritta agli immobili ma con ampia ricaduta sul territorio del centro storico. L’altra è la formale manifestazione di interesse e richiesta di assegnazione di alcuni beni confiscati sulla base di un progetto specifico di intervento, fondato sul volontariato (e non sulle sovvenzioni pubbliche), che sia anche in grado di autoalimentare economicamente la stessa gestione dei beni confiscati per cui si richiede l’utilizzo e le attività previste nel progetto. Non solo quindi proposte generiche o grandi riflessioni, ma concretezza e diretta assunzione di responsabilità, come nostra (pessima, a quanto pare) abitudine.

Le abbiamo inviate entrambe in data 30 novembre 2014 e sono state, ovviamente, protocollate il 1 dicembre 2014. Unico riscontro giunto è stato quello del Delegato dell’Agenzia Nazionale Beni Sequestrati e Confiscati. Da lì si è avviata la fase dei sopralluoghi finalizzata ad accertare lo stato effettivo degli immobili per confermare o modificare la richiesta di assegnazione. Non sono stati pochi i problemi in questo ambito visto che purtroppo mancano diverse chiavi per poter accedere ai beni confiscati e l’iter per il cambio di lucchetti o serrature che l’Agenzia Nazionale Beni Sequestrati e Confiscati deve seguire, oltre alla carenza delle risorse per farlo materialmente. Dai sopralluoghi si è potuto constatare, ad esempio, che vi sono molte incongruenze tra la metratura dichiarata e quella reale, visto che, ad esempio, l’immobile sito in Vico del Duca angolo Via della Maddalena risulta essere stato frazionato e quindi quasi dimezzato come spazio. Da qui quindi la decisione di modificare la richiesta con un altro bene confiscato, sempre nella zona della Maddalena, perché è lì che occorre promuovere una rinascita concreta che necessita di iniziative concrete, presenza che vada oltre alle iniziative di facciata e di marketing.

Il Sindaco di Genova, Marco Doria, che si diletta in “sefie” antimafia, non ha ovviamente dato alcun cenno di riscontro né al progetto che abbiamo formalmente presentato, né alla proposta generale di percorso che si è avanzata. Ha invece, a quanto appreso dalla sua Segreteria, passato la palla all’Assessore alla Legalità, Fiorini (da cui attendiamo ancora una risposta dal giugno scorso) ed all’Assessore al Bilancio, Miceli. Anche da questi ancora nessun riscontro è giunto.

E’ triste constatare questa disattenzione su una questione che dovrebbe vedere il Comune in prima linea. Ci spiace anche perché dovrebbero capire che le iniziative di “immagine” che si promuovono in tema di legalità e di antimafia, non servono ad un fico secco se non c’è un’azione concreta sul territorio.

(click per continuare)