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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

La lezione di Pignatone

Ancora una volta la lezione di buona politica, di buona amministrazione o forse semplicemente di buona cittadinanza arriva da un magistrato. E nonostante siarassicurante che esistano uomini di giustizia con pensieri di questa profondità rimane la perplessità di un periodo storico in cui alla magistratura vengono delegati anche i doveri che dovrebbero essere degli intellettuali, dei buoni politici e degli editorialisti. Eppure sembra che vada bene (a tutti) così.

La lezione (alla politica) del capo della Procura. «La premessa, per parlare di Roma: non tutto ciò che non è reato corrisponde a una buona amministrazione…». Quando al Teatro Quirino, alla conferenza del Pd, parla il procuratore Giuseppe Pignatone, c’è un silenzio totale, interrotto qua e là dagli applausi: sarà che l’uomo ha una storia di impegno, di dedizione alla giustizia, di lotta alla criminalità organizzata, ma sarà anche per ciò che dice. Una sferzata. Un resoconto dettagliato dei rapporti tra mafie e politica, amministratori locali, imprenditori. Non viene mai nominato, ma certo c’è il caso Di Stefano sullo sfondo (il deputato Pd accusato di aver intascato mazzette). Soprattutto, la relazione del capo della Procura offre un quadro deprimente per la Capitale, fatto di «rapporti ambigui», e testimoniato anche dalle inchieste, da quel «miliardo di beni sequestrato nel 2014», «dai reati contro la pubblica amministrazione, uno dei problemi maggiori di Roma». Quando smette di parlare, salutato dal lungo applauso, l’ex capogruppo Pd in Comune, Francesco D’Ausilio, parla di «una nuova questione morale per Roma».

Dal narcotraffico alle frodi

Chiude così la sua relazione, Pignatone: «Giovanni Falcone diceva che sulla scrivania di ogni magistrato e di ogni investigatore dovrebbero essere incise le parole “Possiamo sempre fare qualcosa”. Forse, dico io, queste parole dovrebbero essere incise anche sulla scrivania di ogni politico e di ogni amministratore…». La presenza mafiosa va al di là dei reati che, pure, non mancano: «Sono in aumento le denunce per tangenti». Chiede di «cambiare le regole, sugli appalti, sulla trasparenza, basta con il ricorso continuo all’emergenza». Servono «meccanismi premiali, come per i collaboratori di giustizia, per il corrotto o per il corruttore che fornisca elementi utili alla condanna della controparte». Anche «se poi – fa notare – le regole sono importanti ma sono le persone che fanno la differenza…». Chiaro, no?
La situazione, in città, è complessa: «Narcotraffico, reati informatici che crescono in maniera esponenziale, terrorismo, colossali frodi in danno agli enti pubblici e dell’Unione europea, fino alla grande evasione fiscale». L’elenco è lungo.

La causale dell’assegno? «Tangente»

Del resto «le indagini hanno dimostrato la presenza della criminalità organizzata di tipo mafioso, di almeno due organizzazioni a Ostia, una collegata a Cosa Nostra, entrambe pronte a far ricorso alla violenza». Ma, attenzione, non c’è solo la violenza: «A Roma ci sono altri mezzi, c’è la corruzione. La criminalità aspetta che gli aggiustino le gare d’appalto, aspetta i tempi della burocrazia, della politica…». E dunque nella Capitale esiste «il rischio di un accordo tra mafia e altro, di un patto che non si basa sulla paura ma sulla reciproca convenienza». A differenza di quanto accade con la povera gente, «il politico in questo accordo è in una posizione di forza rispetto al mafioso». Non parla solamente di eventi previsti dal codice penale, ma «anche di etica». Di certo, «alle casse pubbliche vengono sottratti miliardi». Miliardi. Certo, «nessuna categoria può dirsi immune, neanche quella dei magistrati» ma è chiaro che il suo discorso, di fronte alla platea politica, ha tutt’altro bersaglio. A volte, dice, «cadono le braccia. Abbiamo sequestrato un carnet di assegni, la causale era di una sola parola, “tangente”». Scritta proprio così: senza traccia di pudore, di vergogna, di timore.

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Il pessimo Stato dell’antimafia

Avevamo già parlato di Calì in una passata puntata di Radiomafiopoli ma le ultime notizie rendono ancora più tragicomico il corso degli eventi. Questo Stato non riesce proprio ad essere credibile. No. Ecco l’articolo di Giuseppe Pipitone:

Questa è una storia di estorsioni, di minacce di morte, di auto incendiate, di immobili sequestrati da agenti della forestale poi finiti agli arresti, di boss mafiosi come Sergio Flamia, oggi pentito, che fanno da confidenti ai servizi e nel frattempo vanno in giro a chiedere il ”pizzo”. Una storia piccola, cominciata tra Altavilla Milicia e Casteldaccia, in provincia di Palermo, e finita in Senato, oggetto d’interrogazioni parlamentari al ministero dell’Interno, e alla prefettura di Milano, all’ordine del giorno di vertici sulla sicurezza. È infatti dal capoluogo lombardo, che nel 2009 Gianluca Calì, originario di Casteldaccia ma residente a Milano, decide di venire ad aprire in Sicilia una succursale della sua concessionaria d’automobili: la Calicar di Altavilla Milicia. “Volevo provare ad investire nella mia terra” spiega oggi, dopo essere finito in un corto circuito al centro tra le minacce di Cosa nostra e la folle burocrazia dello Stato.

Il pizzo di Flamia
In Sicilia, Calì decide anche di comprare all’asta una villa vicino Casteldaccia: due piani da 160 metri quadrati l’uno. “L’idea era quella di trasformarla in una struttura ricettiva, che potesse creare un minimo di ricchezza per la nostra terra, dare lavoro e incrementare l’indotto turistico della zona” racconta. Quella villa però non è una casa qualsiasi: apparteneva allo storico padrino di Bagheria Michelangelo Aiello, che la condivideva con Michele Greco, il Papa di Cosa Nostra. Non è mai stata confiscata perché era ipotecata ed è quindi passata ad un istituto di credito che ad un certo punto la mette all’asta. “Poco prima di presentare la mia offerta, ricevo la visita di alcuni personaggi”, racconta Calì. Si presentano come “eredi dei precedenti proprietari” e chiedono all’imprenditore di “lasciar perdere quella casa”. Ma lui non appare per nulla impressionato: “Risposi di ripetere le loro parole davanti ad un giudice – spiega – poi mi aggiudicai la casa”.
Da quel momento Calì finisce dentro ad un tunnel di intimidazioni e minacce. Il 3 aprile alcune automobili della sua concessionaria vengono incendiate: passano tre mesi e nell’autosalone di Calì si presenta un uomo. “Dice di chiamarsi Flamia, di avere bisogno di denaro per aiutare alcuni parenti detenuti”, racconta l’imprenditore, che si oppone alla richiesta estorsiva, ripetuta poi per altre due volte ad ottobre. Sergio Flamia è un uomo d’onore di Bagheria, autore di una quarantina di omicidi, che quando va da Calì a chiedere il pizzo è già da anni un confidente a libro paga dei servizi segreti: dall’intelligence, il boss bagherese avrebbe ricevuto persino 150 mila euro in contanti. Di Flamia e del pizzo chiesto a Calì si è parlato mercoledì scorso anche nell’ultima seduta della commissione parlamentare antimafia, quando a Palazzo San Macuto sono stati ascoltati i pm Leonardo Agueci, Vittorio Teresi, Nino Di Matteo e Francesca Mazzocco. I verbali della seduta sono stati secretati.

La villa dei boss sequestrata da forestali infedeli
Nel febbraio 2013 il vortice dell’imprenditore diventa ancora più nero. La villa che fu dei boss Aiello e Greco, e che Calì vuole trasformare in una struttura alberghiera, viene sequestrata da due ispettori della Forestale. “Stato grezzo e in corso d’opera”, scrivono nel verbale di sequestro, come se lo stabile fosse stato costruito di sana pianta in maniera abusiva. Così non è, perché quella villa esiste dal 1965, e Calì sta solo facendo dei lavori di ristrutturazione. Fa opposizione al sequestro e il 4 marzo 2013 ritorna in possesso dell’immobile. Gli ispettori della Forestale però non demordono. E il 15 marzo sequestrano di nuovo la villa con le stesse motivazioni. Solo un errore burocratico? Il verbale di sequestro porta due firme: sono gli ispettori della Forestale di Bagheria Luigi Matranga e Giovanni Coffaro. Che a fine marzo 2013 finiscono coinvolti in un’inchiesta della procura di Palermo: al centro dell’indagine proprio i ricatti di alcuni dipendenti della Forestale di Bagheria nei confronti degli abitanti della zona: richieste di denaro dietro la minaccia del sequestro di immobili. “Una vicenda – scrive il gip Angela Gerardi nell’ordinanza di custodia cautelare– in cui emerge lo scarso se non inesistente senso del dovere e indegno esercizio del potere che interessa alcuni componenti dell’ufficio del corpo forestale (tra questi viene citato proprio Giovanni Coffaro) e l’irresponsabile comportamento da parte di altri (come il comandante Luigi Matranga)”. In carcere finiscono in quattro. Coffaro, uno dei due che sequestra la villa di Calì, è tra gli indagati anche se il gip ne respinge l’arresto. Nelle carte dell’inchiesta si ipotizza invece che Matranga, l’altro estensore del verbale di sequestro, fosse a conoscenza del “lavoro sporco” portato avanti dai suoi sottoposti. “Matranga non ha mai presentato una denuncia né ha mai segnalato i comportamenti dei suoi subordinati”, scrive sempre il gip. A Calì non è mai arrivata una richiesta di denaro, la tipica “messa a posto”, per dissequestrare la villa. Anzi in questi giorni gli è arrivata un’ordinanza di demolizione del comune di Casteldaccia: entro gennaio del 2015 dovrà distruggere completamente l’abitazione. Anche se per quella data non ci sarà ancora una sentenza nel procedimento per abusivismo edilizio che lo vede imputato. “In pratica potrei essere assolto, ma a quel punto la villa non esisterebbe più perché sono costretto a distruggerla: in alternativa diventa di proprietà del comune. Mi chiedo quante siano le ordinanze di demolizione così tempestive in Sicilia: talmente tempestive che l’ufficio tecnico arriva prima di una sentenza di un tribunale”. A curare i lavori di ristrutturazione della villa che fu di Greco era stato il fratello dell’imprenditore palermitano, l’ingegner Alessandro Calì. Che i tentacoli di Cosa nostra li ha visti da vicino qualche tempo fa, quando da presidente dell’ordine degli ingegneri ha radiato dall’albo Michele Aiello, il ricchissimo prestanome di Bernardo Provenzano. Aiello è un uomo potente e fortunato:condannato a 15 anni di carcere è riuscito a trascorrerne uno intero ai domiciliari, proprio nella sua Bagheria, perché affetto da favismo: è lo stesso periodo in cui a Calì sequestrano la villa, e l’autosalone dell’imprenditore viene preso di mira dalle cosche.

L’escalation di minacce: “Non sono tranquillo”
Nel frattempo continua l’escalation di minacce nei confronti dell’imprenditore: intimidazioni che diventano inquietanti. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di stampa che lo riguardano, nel giugno del 2013, gli arrivano due telefonate nel cuore della notte: “Mi dicevano: ti ammazziamo, ti diamo fuoco, ti facciamo finire noi”, racconta. Poi la mattina del 6 febbraio 2014 le agenzie di stampa rivelano che Flamia è un uomo a libro paga dei servizi: poche ore dopo due uomini si presentano nella concessionaria di Calì. “Non erano interessati alle autovetture, non chiedono nessuna informazione, ma con fare circospetto mi fissano insistentemente. Appena vanno via mi segno il numero di targa della loro automobile: lo controllo alla motorizzazione ma quella targa non risulta iscritta nei registri”. Una targa falsa, fantasma, come quelle utilizzate sui veicoli in dotazione a uomini dell’intelligence. “Chiamo la squadra mobile, viene fissata una riunione in prefettura per discutere della mia sicurezza: un funzionario di polizia si lascia sfuggire che la situazione è grave e che non se la sente di dirmi di stare tranquillo. E io tranquillo non ci sono per nulla”.
A quattro anni dal primo attentato, Calì non ha ancora avuto accesso al fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura. “Ho fatto la richiesta varie volte, ma nulla, neanche un pezzo di carta per rifiutarmi l’aiuto che mi spetta di diritto”. Le vicenda in cui è finito l’imprenditore ha avuto una ripercussione diretta sulla sua azienda: nel 2010 Calì fatturava 24 milioni di euro all’anno e aveva 24 dipendenti. “Oggi – spiega – ho quattro dipendenti e 2 milioni di fatturato: è vero che c’è la crisi, ma la crisi c’è perché Cosa nostra rovina gli imprenditori onesti. E lo Stato li lascia soli. Oppure, ancora peggio, li perseguita”.

Innocenti fino al terzo grado di paraculo

Succede a Lecco in questi giorni, ma poco fa accadeva in Piemonte e bene o male succede un po’ dappertutto: quando si scopre che qualcuno si fingeva buon cittadino ma in fondo è un boss (spesso di ‘ndrangheta) tutti i politici che hanno avuto buoni rapporti con lui si nascondono dietro al giudizio della magistratura. “Decideranno i tre gradi di giudizio”, ci dicono e invece in un Paese in cui non è un reato essere amico di un mafioso dovrebbe esistere il pregiudizio dell’opportunità. E’ opportuno che un uomo politico (e in generale la classe dirigente) non coltivi amicizie pericolose. A casa mia addirittura è una regola che vale per i miei figli. Pensa te.

Le peggiori passioni che abbiano mai attraversato il cuore di un uomo.

Indossando l’uniforme degli Stati Uniti, che dovrebbe rappresentare un emblema di giustizia e di umanità; ricoprendo l’importante ruolo di comandante di un distretto militare, e quindi avendo l’onore di governare ciò che rientrava nei suoi poteri, Chivington ha deliberatamente pianificato ed eseguito un folle e vile massacro in cui numerose persone sono state vittime della sua crudeltà. Essendo chiaramente a conoscenza della cordialità del loro carattere, e avendo egli stesso in un certo senso tentato di collocare le vittime in una posizione di fittizia sicurezza, Chivington ha sfruttato l’assenza di qualsiasi tipo di difesa da parte loro e la loro convinzione di sentirsi al sicuro per dare gratificazione alle peggiori passioni che abbiano mai attraversato il cuore di un uomo.

Fu questo il giudizio emesso dal Congresso. Sono 150 anni dal massacro lungo il fiume Sand Creek.

Allora non sono solo

Claudio Fava pone alcune domande:

“Perché da sei mesi il governo non nomina il nuovo direttore del Dap? Perché la Procura di Palermo è senza un capo? Perché l’agenzia dei beni confiscati è paralizzata?”. Claudio Fava, vicepresidente della Commissione antimafia, denuncia l’inerzia istituzionale sul tema della sicurezza e del contrasto a Cosa nostra. “Da sei mesi esatti il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è senza un responsabile. E da molte procure arrivano segnali preoccupati sullo stato di efficacia del regime del 41 bis. In un momento in cui Cosa Nostra ha deciso di alzare il livello di scontro, con ordini stragisti impartiti direttamente dal carcere, l’inerzia del governo sul nuovo direttore del Dap è inammissibile. Come incomprensibile resta la decisione del Csm di rinviare la nomina del procuratore di Palermo, proprio nei giorni in cui quella procura e quella città sono sotto attacco della mafia”.

Non meno grave, per Fava, il silenzio del governo sulle nomine mancanti per il comitato direttivo dell’Agenzia sui beni confiscati: ”Senza quelle nomine – dice fava – l’Agenzia non può procedere all’assegnazione dei beni che rischiano di marcire dando ragione a chi ripete che con la mafia almeno si lavora”. “Qualcuno spieghi al presidente Renzi – conclude Fava – che la lotta alla mafia non si fa con i comunicati di solidarietà e con le generiche affermazioni di principio ma con le scelte operative, con i comportamenti sul campo, con l’assunzione delle proprie responsabilità

Luce su Quarto Oggiaro: si pente Alex Crisafulli

Crisafulli-Alessandro-20.09.64-675Per tutti gli anni Ottanta e buona parte dei Novanta è stato il re criminale di Quarto Oggiaro. Assieme al fratello ha gestito lo spaccio sulla piazza di Milano, ha commesso omicidi e si è seduto ai tavoli riservati della mafia spa sotto al Duomo. Adesso, dopo anni di carcere, questo romanzo nero è disposto a metterlo nero su bianco davanti ai magistrati. Sì perché Alessandro Crisafulli ha scelto la via della collaborazione. E lo ha fatto davanti al pm milanese Marcello Musso che il 23 agosto 2014 lo ha interrogato perché coinvolto in un’inchiesta di droga. Si tratta dell’indagine Pavona 4 che a luglio mette in scacco diversi gruppi di narcos legati al crimine organizzato.

“Da sei anni a questa parte io con le istituzioni mi sento alleato. Mi sono arreso”

Prima di quel verbale che potrebbe risultare decisivo per riscrivere trent’anni di storia criminale milanese, Crisafulli ha inviato una lettera dal carcere di Opera. Lettera d’intenti che diventa tale davanti al pubblico ministero che lo accusa, non solo di aver fatto parte di un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga, ma gli imputa anche la decisione, attraverso ambasciate portate fuori dal carcere dalla moglie, di aver investito il clan Tatone di gestire lo spaccio di droga a Quarto Oggiaro per conto della famiglia Crisafulli. Lui, Alex, nega. Ammette l’esistenza dell’associazione, ma nega di averne fatto parte e soprattutto nega le responsabilità della ex moglie. Poi dice: “Le mie colpe le evidenzieremo strada facendo…”. Quindi aggiunge: “Da sei anni a questa parte io con le istituzioni mi sento alleato (…) Le ho detto che mi sono arreso” e “cazzo, sono venuto qua come collaboratore io (…) perché la galera non è più il mio posto. Non posso stare ancora vent’anni in galera (…) Se Lei mi vedesse, io sono sempre con le cuffie o con il libro. Non ho più un rapporto e lo possono testimoniare tutti gli agenti. E difatti io ogni giorno combatto con un agente perché mi dice: Ma Crisafulli, ma che cazzo ci fai tu qua? Cosa ti può essere successo?Si vede che era il mio Karma”.

Il pm cita le Confessioni di Sant’Agostino, il boss risponde con la filosofia di Gadamer
Difficile essere più chiari di così. Insomma, Crisafulli, fratello di Biagio soprannominato Dentino, vuole parlare perché “per molto tempo ho vissuto nella animalità”. La dichiarazione d’intenti c’è. Il pm, però, tira dritto sui fatti contestati nell’ordinanza. Ed è giusto che sia così. Musso non è arrivato ieri. Di pentiti ne ha sentiti a decine. Padrini di Cosa nostra anche, negli anni in cui ha ricostruito diversi omicidi di mafia a Milano. Non si fida. Nelle 187 pagine il boss e il pm discutono. Dei fatti, prima di tutto. Che Crisafulli nega. Ma anche di filosofia. Nel momento in cui il pm cita addirittura “Le mie confessioni” di Sant’Agostino. “Ci ha insegnato che si ha un’intuizione, che la conoscenza è basata su un’intuizione iniziale che è credere o non credere. Lui parlava di credere in Dio, eccetera. Ecco, credere che quelle emergenze siano buone, ma questa è un’intuizione iniziale, da cui parte la conoscenza. Quella è un’intuizione iniziale, poi bisogna vedere dove ti porta la conoscenza, e di qui l’intercettazione ambientale”. Si parla di filosofia ma si resta agganciati all’indagine. Crisafulli non resta spiazzato e risponde con sorprendente competenza citando Hans-Georg Gadamer, filosofo tedesco e padre dell’ermeneutica. Dice: “C’era anche un certo Gadamer che parlava della precomprensione, che è un’altra cosa”.
Spadino muore, perché una sera si trova a mangiare con il fratello di Foschini tra un pippotto e l’altro

La digressione colta dura poco. Si torna al crimine. “Dottore sono qua. Mi sono messo in gioco. Mi sono dato tutto. Le ho raccontato altre cose”. Tra le varie, il boss pentito, ricostruisce anche l’omicidio di Vincenzo Morelli detto Spadino scomparso la sera del 26 aprile 1991 e ritrovato cadavere solo quindici anni dopo nei boschi del parco delle Groane a sud di Milano. Per quel fatto ci sono già state diverse condanne. Crisafulli prima coinvolto sarà successivamente scagionato. Davanti a Musso racconta come maturò quell’omicidio: “Io questo Morelli lo conoscevo sin da ragazzino (…) spacciava per noi (…) però siccome era troppo montato (…) l’ho sempre mandato via da Quart Oggiaro. Si è unito alla batteria di Vittorio Foschini (oggi collaboratore di giustizia, ndr), Pellegrino, non so se se li ricorda o li ha sentiti nominare, e si è unito a questi e gli faceva l’autista e queste cazzate qua. Solo che loro lo odiavano, però non avevano il coraggio di ucciderlo, perché erano una banda di scappati di casa. Millantavano cose che, specialmente Foschini, non avevano mai fatto. Morale Spadino muore, perché una sera si trova a mangiare con il fratello di Foschini (…) e tra un pippotto di cocaina e l’altro gli dice: Mi sono scopato la sorella di Pellegrino. Siccome il più montato dei Pellegrino era Dino è andato fuori di testa e il giorno dopo l’hanno ucciso. Ed è lì che è morto Spadino, perché Spadino ha fatto questa confidenza (…). Lo hanno portato in casa di Nicolino, altro fratello dei Pellegrino che abitava a Baranzate, lui aveva sposato una zingara, e l’hanno ucciso lì”. Queste una delle tante verità (ancora da accertare) di Alex Crisafulli, ras della droga, boss rispettato, oggi pentito e disposto a parlare con chi in Procura a Milano vorrà ascoltarlo. “Perché – chiude l’ex re criminale –  è vero che io ho ucciso, e non voglio entrare nel merito dei miei motivi, perché non c’è motivo che possa giustificare un’uccisione, ma certamente non se uno mi schiacciava il piede come facevano tanti altri”.

(fonte)

Antimafiosi solo per gli abbonati SKY

imageCattleya, la società di produzione della serie TV “Gomorra”, ha deciso di non costituirsi parte civile nel processo che deve fare chiarezza sull’estorsione subita durante le riprese e così è riuscita a mandare in onda la propria puntata più brutta: come i maghi che per errore mostrano il trucco per uno svolazzo del telo.

La notizia è qui:

La procura di Napoli ha chiesto oggi al giudice del tribunale la condanna a complessivi 27 anni per i tre imputati accusati di estorsione nei confronti della società cinematografica Cattleya per la produzione televisiva di “ Gomorra la serie ”. L’inchiesta ruota attorno all’imposizione del pagamento di somme di denaro in favore di un clan camorristico di Torre Annunziata. E a versarlo sarebbero stati gli uomini della casa di produzione impegnata nella realizzazione di episodi per la tv che ha avuto grande successo che si ispirano a un marchio, quello di Gomorra, che in Italia e soprattutto nelle regioni con maggiore presenza mafiosa è diventato un importantissimo riferimento per quanti si impegnano a lottare le mafia, nelle istituzioni e nella società civile, e per quanti nutrono la speranza di un paese senza criminalità.

A sposare questi elementi è stata proprio Cattleya, che però, dall’inchiesta dei carabinieri, coordinata dalla procura distrettuale antimafia di Napoli, ne esce come una vittima costretta a pagare i boss pur di girare senza aver problemi in una villa del clan. A questo punto, seguendo le linee di coerenza che il marchio Gomorra impone, ci si sarebbe aspettati che nell’udienza di oggi davanti al giudice, in cui si apriva il giudizio abbreviato per gli imputati, la casa di produzione Cattleya chiedesse di costituirsi parte civile. Un segnale importante per un territorio ostaggio dei clan. Ma nessuno della società che ha prodotto Gomorra lo ha fatto. Diversamente dalla Federazione nazionale antiracket che ha chiesto e ottenuto di costituirsi parte civile contro questi tre imputati: il boss di Torre Annunziata Francesco Gallo, il padre, Raffaele, e la madre, Annunziata De Simone.

Caso Manca: oltre al danno la calunnia

ingroia-manca-angela-conf-stampadi Lorenzo Baldo – 25 novembre 2014
La Procura di Viterbo iscrive nel registro degli indagati l’ex pm per alcune sue dichiarazioni rilasciate durante l’udienza preliminare al processo per la morte del giovane urologo di Barcellona P.G.
Palermo. “Una mostruosità giuridica”. Non usa mezzi termini all’apertura della conferenza stampa l’avvocato della famiglia Manca, Antonio Ingroia (che lavora in team insieme al collega Fabio Repici), riferendosi all’avviso di garanzia inviatogli dalla Procura viterbese. Nel documento il pm Renzo Petroselli lo accusa di aver incolpato ingiustamente il dirigente della Squadra Mobile di Viterbo, Salvatore Gava, di falso ideologico per la sua informativa sulle indagini relative alla morte di Attilio Manca, il giovane urologo barcellonese trovato cadavere nella sua casa di Viterbo nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 2004. Petroselli sottolinea che le accuse di “depistaggio” attraverso la costruzione di “prove false” sono state pronunciate durante l’udienza preliminare del 3 febbraio scorso relativa al procedimento penale per la morte del giovane medico che vede come unica imputata la romana Monica Mileti, accusata di aver ceduto la dose fatale di eroina che ha causato la morte del giovane urologo.

L’obbrobrio giuridico
Ingroia esordisce sottolineando l’evidente anomalia del suo avviso di garanzia: è la prima volta che un avvocato viene incriminato per calunnia per quello che ha dichiarato nel corso dell’udienza. L’ex pm ribadisce che bisogna essere “analfabeti del diritto” per non conoscere che l’art. 590 del codice penale prevede una specifica causa di non punibilità per le offese contenute negli scritti e nei discorsi che le parti, pm e difensori, rendono davanti all’Autorità giudiziaria. In questo caso è tutto molto più complesso e occorre mettere insieme tutti i pezzi.

Antefatto
Lo scorso 9 gennaio il giornalista di Chi l’ha visto, Paolo Fattori, confronta il verbale della squadra mobile di Viterbo, guidata all’epoca da Salvatore Gava, con i registri dell’ospedale “Belcolle”, dove Attilio Manca lavorava. Da quel confronto emerge una schiacciante verità: Attilio Manca non era in ospedale nei giorni del ricovero di Bernardo Provenzano a Marsiglia. Un fatto incontrovertibile che si scontrava – e si scontra – con la relazione firmata dallo stesso Gava nella quale veniva scritto invece che l’urologo siciliano era di turno all’ospedale nei giorni in cui il boss si trovava in Francia per sottoposti ad un’operazione alla prostata. I giorni in cui è segnata la mancata presenza del giovane urologo sono quelli tra il 20 e il 23 luglio 2003, poi dal 25 al 31 luglio 2003 e infine nei giorni del 25, 26 e 31 ottobre 2003 (il 30 se ne era andato via intorno alle 15:30, prima quindi che terminasse il suo turno). Il dott. Manca era quindi rientrato in servizio la mattina del 1° novembre. E proprio i giorni in cui il giovane urologo era assente dal lavoro coincidevano con il periodo nel quale Provenzano (tra esami preparatori, intervento alla prostata, e successivi esami di controllo) si trovava in Francia.

I protagonisti
Salvatore Gava è lo stesso pubblico ufficiale già condannato a 3 anni, in via definitiva, per un falso verbale all’epoca delle violenze alla scuola Diaz. La sua informativa sul caso Manca è stata quindi smentita dal confronto con i registri dell’ospedale dove lavorava Attilio Manca. Perché mai in quella relazione si leggeva che la presenza di Attilio Manca sul luogo di lavoro era stata appresa “in via informale” quando “formalmente” i fogli dell’ospedale dicevano tutto il contrario? Dove sono quindi i presupposti di calunnia da parte di Antonio Ingroia? Il pm Petroselli è lo stesso magistrato che, dopo svariate richieste di archiviazione sul caso specifico, ha chiesto e ottenuto l’esclusione della famiglia Manca, quale parte civile, dal processo che si sta celebrando a Viterbo nei confronti di Monica Mileti. Per motivare la sua decisione Petroselli ha affermato che i genitori e il fratello di Attilio non sono stati danneggiati dalla morte del loro familiare. Probabilmente basterebbero queste sue poche parole per qualificare la caratura morale del magistrato.

Strane manovre
Quello che vuole essere fatto passare come un suicidio per droga nasconde in realtà un bieco tentativo di  occultare qualcosa di molto più terribile. Resta da cristallizzare il ruolo di Cosa Nostra all’interno di quello che a tutti gli effetti appare come un omicidio. Così come il ruolo di determinati apparati investigativi. Durante la conferenza stampa lo stesso Ingroia annuncia di voler denunciare il pm Petroselli al Csm o anche per via penale. Per l’ex pm è del tutto evidente che non si voglia arrivare alla verità sul caso di Attilio Manca. E questo perché secondo la ricostruzione del legale della famiglia Manca quella strana morte è collegata alla trattativa Stato-mafia in quanto la copertura della latitanza di Provenzano – garante di quel patto –  rientrava in determinati accordi. Attilio Manca sarebbe stato coinvolto inconsapevolmente nella cura dell’anziano boss e poi, una volta resosi conto della sua reale identità, sarebbe stato eliminato attraverso la più classica delle manovre firmata dalla mafia in sinergia con apparati “deviati”. Ingroia traccia quindi un filo che unisce i misteri di questo omicidio con l’isolamento del pm Nino Di Matteo. “Non è un caso – ha ribadito l’ex pm – quello che si sta verificando per la nomina del nuovo procuratore di Palermo”. Per Ingroia il rischio dell’arrivo di un procuratore “normalizzatore” ostile al processo sulla trattativa che isoli ulteriormente Di Matteo è tutt’altro che peregrino. L’ex magistrato si appella quindi alla Presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, che poche settimane fa ha definito il caso Manca “un omicidio di mafia”, affinchè mantenga la promessa di istituire al più presto un’apposita commissione a tema. “Chiedo di essere sentito dal procuratore facente funzione Leonardo Agueci – conclude l’ex magistrato – in quanto ritengo che ci siano le condizioni per aprire un fascicolo a Palermo sulla morte di Attilio Manca in quanto questo fatto è collegato alla latitanza di Provenzano e alle indagini sulla trattativa”.

Il dolore di una madre
Non ha più lacrime, Angelina Manca, prende la parola dopo l’ex pm, mostra le foto del volto tumefatto del figlio e ripercorre i momenti salienti di questi 10 anni nei quali lei e la sua famiglia hanno gridato per avere verità e giustizia. Racconta dei tentativi di indurli al silenzio attraverso minacce sibilline o del tutto esplicite. In prima fila suo marito, Gino, la osserva rivivendo ogni istante. La sua richiesta di attenzione rivolta ai media è l’ultimo appello di chi continua a scontrarsi con una macchina della giustizia disposta a risolvere il giallo della morte del loro figlio incriminando unicamente un avvocato e che, senza alcun pudore, evita accuratamente di arrivare alla verità.

(fonte)

La verità negata su Attilio Manca

MancaAttilio2aConsidero il caso di Attilio Manca uno scempio istituzionale nei confronti della sua famiglia, della verità e della giustizia. Per questo credo che debba impegnarmi anch’io al limite delle mie forze. Intanto vale la pena leggere le parole della madre, Angela:

“Credo che sull’omicidio di Attilio Manca non si voglia fare luce, anzi, stanno cercando di ostacolare ogni nostra iniziativa finalizzata all’ottenimento della verità, sia sulla morte di mio figlio, sia sulla latitanza ‘dorata’ di Bernardo Provenzano, coperta per oltre 40 anni da pezzi importanti dello Stato. Si sono verificati troppi episodi strani, anche recentemente, per poter pensare a delle semplici coincidenze: dalla strano ‘suicidio’ per ‘impiccagione’ in carcere di Francesco Pastoia, braccio destro di Provenzano, agli strani lividi con i quali lo stesso Provenzano è stato trovato in carcere”.

Angela Manca non ha peli sulla lingua. Pesa le parole, ma mette in fila i fatti che riguardano la morte del figlio Attilio Manca, brillantissimo urologo di 24 anni, originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina),trovato cadavere la mattina del 12 febbraio 2004 nel suo appartamento di Viterbo, città dove era in servizio da un paio di anni, Per i magistrati laziali, il decesso del medico è da attribuire a un mix micidiale di eroina, alcol e tranquillanti trovati nell’organismo della vittima; per i familiari, invece, all’operazione di cancro alla prostata subita dal boss Bernardo Provenzano nel 2003 a Marsiglia, alla quale Attilio avrebbe preso parte. La Procura di Viterbo è certa dell’”inoculazione volontaria”, in virtù di due buchi trovati nel braccio sinistro dell’urologo (quello sbagliato: Attilio era mancino puro) e di due siringhe rinvenute a pochi metri dal cadavere. La famiglia accusa i magistrati laziali di aver costruito un castello di bugie, a cominciare dal mancato rilievo delle impronte digitali sulle siringhe, effettuato solo otto anni dopo, che tra l’altro non ha dato alcun esito, per passare alle foto del cadavere scattate pochi minuti dopo dalla Polizia, che non sarebbero state tenute in considerazione: dalle immagini si vede il volto di Attilio Manca sporco di sangue, il setto nasale deviato, le labbra gonfie, i testicoli enormi, con lo scroto striato da una evidente ecchimosi, segnali questi, più compatibili con una colluttazione che con una morte da overdose. Ma in verità è l’intera l’impalcatura investigativa a non convincere.

L’on. Sonia Alfano, ex presidente della Commissione antimafia europea, nel volume “Un ‘suicidio’ di mafia”, Castelvecchi editore, dice: “Quando andai a visitare Provenzano in carcere, lo trovai pieno di botte. Gli chiesi: ‘Signor Provenzano, si rende conto che stanno facendo pagare solo lei, mentre gli altri sono fuori dal carcere?’. E lui: ‘Non possiamo parlare fuori?’. Aveva paura. Aveva punti di sutura al sopracciglio, un livido alla guancia e un livido alla mandibola”.

Signora Manca, perché collega il “suicidio” di Pastoia con l’episodio denunciato dall’on. Alfano? Che c’entrano i due episodi con la morte di suo figlio?

“Saranno anche delle coincidenze, ma Pastoia (intercettato dalle ambientali), aveva parlato di un ‘dottore’ che, oltre ad essere presente in sala operatoria a Marsiglia durante l’intervento di cancro alla prostata alla quale si era sottoposto il boss nell’autunno del 2003, avrebbe curato Provenzano prima e dopo l’intervento. Pochi giorni dopo Pastoia morì e la sua tomba venne violentemente profanata nel cimitero di Belmonte Mezzagno. Vogliamo sapere chi è questo ‘dottore’. Perché una cosa è chiara: un urologo deve aver diagnosticato il tumore a Provenzano, e deve averlo curato dopo l’operazione”.

Andiamo ai lividi di Provenzano.

“Sono comparsi dopo che Sonia Alfano aveva chiesto testualmente: ‘Signor Provenzano, ricorda il giovane medico Attilio Manca?’. Il boss non disse di non conoscerlo. Rispose: ‘Amo a mettiri mmenzu autri cristiani?’, dobbiamo mettere in mezzo altre persone?, riferendosi probabilmente a quella rete di personaggi dello Stato che lo ha protetto per tanti decenni. Se è una coincidenza, anche questa è molto singolare”.

Come giudica la clamorosa ritrattazione del boss dei Casalesi, Giuseppe Setola, che recentemente si è pentito di essersi pentito proprio nel momento in cui ha svelato ai magistrati palermitani, Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia (che si occupano della Trattativa Stato-mafia) alcuni retroscena sulla morte di Attilio Manca?

“Un altro episodio singolare. Da maggio Setola aveva detto chiaramente quello che sosteniamo noi da dieci anni: ovvero che la morte di Attilio non è dovuta ad overdose di eroina, ma sia da collegare all’operazione di Provenzano. Attenzione: Setola non fa marcia indietro mentre sta raccontando questi retroscena. Decide di non parlare più quando le sue dichiarazioni segrete vengono rese pubbliche, Infatti non smentisce quello che ha detto, dice di temere per i suoi familiari. Evidentemente non si è sentito protetto dallo Stato”.

Eppure il capo della Direzione distrettuale antimafia di Roma, Giuseppe Pignatone, dopo le sue dichiarazioni, ha aperto un fascicolo di indagine “modello 45” sulla morte di Attilio Manca.

“Non sono un’esperta di diritto, ma so che il “modello 45” è un procedimento blando, che temo non porterà a niente. Del resto, il sostituto procuratore Michele Prestipino, da sempre in sintonia con Pignatone, ha detto che la morte di Attilio non c’entra niente con l’operazione di Provenzano. Perché Prestipino è così sicuro se non ha mai indagato su Attilio? Prestipino ha sì svolto una inchiesta, scaturita successivamente in un processo, sulla presenza di Provenzano a Marsiglia, ma non sull’eventuale intervento di Attilio nel contesto dell’operazione del boss corleonese”.

Recentemente a Viterbo la famiglia Manca non è stata ammessa come parte civile al processo che si sta celebrando contro Monica Mileti, colei che, secondo i magistrati laziali, sarebbe stata la spacciatrice che avrebbe ceduto l’eroina “fatale” a suo figlio. Il giudice monocratico ha giustificato la decisione dicendo che “la famiglia Manca non avrebbe ricevuto alcun danno dalla morte del congiunto”.

“Beh, anche in questo caso tutto sembra fin troppo chiaro”.