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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

Gli imprenditori codardi del nord. E la mafia ringrazia.

Ancora una volta tra le carte di un’operazione antimafia esce un quadro misero dell’imprenditoria lombarda. Ancora una volta la maggior parte dei giornalisti si sgola per raccontarci i riti mafiosi, i riti di iniziazione (e ha ragione Nando Dalla Chiesa a scrivere che ancora una volta la favoletta de “i colletti bianchi” viene smentita) e nessuna punta il dito contro una classe imprenditoriale che ritiene l’etica un ostacolo alla produttività.

Per fortuna Gabriella Colarusso ne scrive:

Fare affari con i clan: un gioco pericoloso.
Una falsa credenza, un idolum fori, per dirla col filosofo Francesco Bacone.
Questa è, secondo i magistrati dell’antimafia milanese – che con l’indagine Insubria hanno portato all’arresto di 44 presunti affiliati alla ‘ndrangheta tra Lombardia, Calabria e Sicilia -, la diffusa convinzione che, nel rapporto tra criminalità organizzata e imprenditoria, quest’ultima sia sempre e solo la parte lesa, l’anello debole della catena, la vittima.
Nella maggior parte dei casi, certo, lo squilibrio di forze tra picciotti con la pistola facile, adusi a minacce, estorsioni, intimidazioni, e imprenditori magari finiti nel giogo del racket per ingenuità o bisogno è enorme. E a favore dei primi.
QUELL’IMPRENDITORIA CHE FA AFFARI CON I CLAN. Ma accade e accade spesso che siano gli stessi commercianti, industriali o professionisti del terziario a cercare la Santa alleanza, convinti di poterne trarre benefici di mercato. Per poi scoprire magari di essersi resi schiavi di un meccanismo che non possono controllare e dal quale è difficile uscire.
Le inchieste condotte in questi anni in Lombardia, ossia «Infinito, Blue Cli, Valle-Lampada, Caposaldo», come annota il gip Simone Luerti negli atti dell’indagine Insubria, 
dimostrano «che l’imprenditoria non si limita a subire la ‘ndrangheta, ma fa affari con la stessa, spesso prendendo l’iniziativa per il contatto con la criminalità organizzata e ricavandone (momentaneamente) dei vantaggi».
Storie che si nascondono all’ombra delle periferie, dove l’occhio dei media spesso non arriva e fare affari per la ‘ndrangheta è più facile e sicuro.

Gli ‘ndranghetisti che riscuotevano crediti per conto degli imprenditori

Insubria illumina un pezzo di questa realtà. C’è la storia, per esempio, dell’imprenditore nato a Carate Brianza e residente in Svizzera, ora agli arresti, G.B.

Sarebbe stato lui stesso, secondo gli investigatori, a cercare le cosche e a incaricare il presunto ‘ndranghetista Michelangelo Chindamo di «riscuotere un preteso credito nei confronti» di un avvocato e di un commercialista svizzeri. E Chindamo, «avvalendosi di altre persone», non avrebbe esitato «a progettare e compiere numerosi atti di intimidazione» per raggiungere lo scopo, scrive il gip.
IL BARISTA CHE CHIAMA I CLAN PER DIFENDERSI DAGLI IMMIGRATI. Sempre a Chindamo si sarebbero rivolti poi un impresario 55enne di Como, operativo nel settore dei carburanti, per riscuotere un credito di 300 mila euro vantato nei confronti di un’altra azienda con sede a Lomazzo, dichiarata fallita nel 2012; l’amministratore delegato di una società di elettronica per recuperare un presunto credito di circa 1 milione di euro dai suoi clienti; il socio di un’azienda idraulica, anch’essa, presunta, creditrice. E persino il proprietario di un bar tabacchi, che avrebbe chiesto l’intervento degli ‘ndranghetisti «in quanto a suo dire minacciato da persone di origine extracomunitaria che si sono presentate presso il suo esercizio».

Anche al Nord si preferisce l’omertà: troppa sfiducia nelle istituzioni

Un «imponente numero di fatti intimidatori», scrivono gli inquirenti, quasi 500 dal 2008 a oggi, solo considerando i Comuni interessati dall’indagine, soltanto in minima parte vengono denunciati a causa «dell’omertà delle vittime (che sempre hanno dichiarato di non avere sospetti su nessuno e di non aver mai ricevuto pressioni o minacce di alcun tipo)».

L’altro aspetto del rapporto imprenditoria-criminalità messo in luce dall’inchiesta, infatti, è proprio questo: per ogni industriale, professionista o colletto bianco colluso, che trae vantaggio dalla relazione col potere mafioso, ci sono decine di altri imprenditori, commercianti o professionisti che si trovano poi costretti a subire violenza, ricatti e intimidazioni. E che per paura spesso non denunciano.
LA SFIDUCIA NELLO STATO. «Significativo il fatto che la totalità degli episodi intimidatori», scrive il gip nell’ordinanza, «(sia quelli dove si è risaliti a precise responsabilità, sia quelli dove gli autori sono rimasti ignoti) sono caratterizzati da una circostanza comune: le vittime, in sede di denuncia, riferiscono quasi sempre di non aver mai subito minacce».
Il che, spiega il gip, non può essere statisticamente sempre vero.
«Se le parti lese, a dispetto della gravità dei fatti subiti, non denunciano gli autori, ciò è dovuto a paura. I commercianti in questi casi preferiscono assicurarsi, sopportare i costi dell’illegalità subita, piuttosto che mettersi dalla parte dello Stato con una denuncia, che può essere foriera di guai peggiori».
Paura, sfiducia nelle istituzioni. E dall’altro lato convenienza quando non aperta mafiosità.

Sorpresa: gli immigrati ci fanno guadagnare

Ne scrive Gian Antonio Stella, che di numeri ne mastica:

Ha ragione papa Francesco: gli immigrati sono una ricchezza. Lo dicono i numeri. Fatti i conti costi-benefici, spiega un dossier della fondazione Moressa, noi italiani ci guadagniamo 3,9 miliardi l’anno. E la crisi, senza i nuovi arrivati che hanno fondato quasi mezzo milione di aziende, sarebbe ancora più dura. Certo, è facile in questi tempi di pesanti difficoltà titillare i rancori, le paure, le angosce di tanti disoccupati, esodati, sfrattati ormai allo stremo. Soprattutto in certe periferie urbane abbruttite dal degrado e da troppo tempo vergognosamente abbandonate dalle pubbliche istituzioni. Ma può passar l’idea che il problema siano «gli altri»?
Non c’è massacro contro i nostri nonni emigrati, da Tandil in Argentina a Kalgoorlie in Australia, da Aigues Mortes in Francia a Tallulah negli Stati Uniti, che non sia nato dallo scoppio di odio dei «padroni di casa» contro gli italiani che «rubavano il lavoro». Basti ricordare il linciaggio di New Orleans del 15 marzo 1891, dove tra i più assatanati nella caccia ai nostri nonni c’erano migliaia di neri, rimpiazzati nei campi di cotone da immigrati siciliani, campani, lucani.

Eppure quei nostri nonni contribuirono ad arricchire le loro nuove patrie («la patria è là dove si prospera», dice Aristofane) proprio come ricorda Francesco: «I Paesi che accolgono traggono vantaggi dall’impiego di immigrati per le necessità della produzione e del benessere nazionale».
Creano anche un mucchio di problemi? Sì. Portano a volte malattie che da noi erano ormai sconfitte? Sì. Affollano le nostre carceri soprattutto per alcuni tipi di reati? Sì. Vanno ad arroccarsi in fortini etnici facendo esplodere vere e proprie guerre di quartiere? Sì. E questi problemi vanno presi di petto. Con fermezza. C’è dell’altro, però . E non possiamo ignorarlo.

Due rapporti della Fondazione Leone Moressa e Andrea Stuppini,collaboratore de «lavoce.info», spiegano che non solo le imprese create da immigrati sono 497 mila (l’8,2% del totale: a dispetto della crisi) per un valore aggiunto di 85 miliardi di euro, ma che nei calcoli dare-avere chi ci guadagna siamo anche noi. Nel 2012 i contribuenti nati all’estero sono stati poco più di 3,5 milioni e «hanno dichiarato redditi per 44,7 miliardi di euro (mediamente 12.930 euro a persona) su un totale di 800 miliardi di euro, incidendo per il 5,6% sull’intera ricchezza prodotta». L’imposta netta versata «ammonta in media a 2.099 euro, per un totale complessivo pari a 4,9 miliardi». Con disparità enorme: 4.918 euro pro capite di Irpef pagata nel 2013 in provincia di Milano, 1.499 in quella di Ragusa.
A questa voce, però, ne vanno aggiunte altre. Ad esempio l’Iva: «Una recente indagine della Banca d’Italia ha evidenziato come la propensione al consumo delle famiglie straniere (ovvero il rapporto tra consumo e reddito) sia pari al 105,8%: vale a dire che le famiglie straniere tendono a non risparmiare nulla, anzi ad indebitarsi o ad attingere a vecchi risparmi. Ipotizzando che il reddito delle famiglie straniere sia speso in consumi soggetti ad Iva per il 90% (escludendo rimesse, affitti, mutui e altre voci non soggette a Iva), il valore complessivo dell’imposta indiretta sui consumi arriva a 1,4 miliardi di euro». Più il gettito dalle imposte sui carburanti (840 milioni circa), i soldi per lotto e lotterie (210 milioni) e rinnovi dei permessi di soggiorno (1.741.501 nel 2012 per 340 milioni) e così via: «Sommando le diverse voci, si ottiene un gettito fiscale di 7,6 miliardi».

Poi c’è il contributo previdenziale: «Considerando che secondo l’ultimo dato ufficiale Inps (2009) i contributi versati dagli stranieri rappresentano il 4,2% del totale, si può stimare un gettito contributivo di 8,9 miliardi». Cosicché «sommando gettito fiscale e contributivo, le entrate riconducibili alla presenza straniera raggiungono i 16,6 miliardi».
Ma se questo è quanto danno, quanto ricevono poi gli immigrati? «Considerando che dopo le pensioni la sanità è la voce di gran lunga più importante e che all’interno di questa circa l’80% della spesa è assorbita dalle persone ultrasessantacinquenni», risponde lo studio, l’impatto dei nati all’estero (nettamente più giovani e meno acciaccati degli italiani) è decisamente minore sul peso sia delle pensioni sia della sanità, dai ricoveri all’uso di farmaci. Certo, è maggiore nella scuola «dove l’incidenza degli alunni con cittadinanza non italiana ha raggiunto l’8,4%», ma qui «la parte preponderante della spesa è fissa».
E i costi per la giustizia? «Una stima dei costi si aggira su 1,75 miliardi di euro annui». E le altre spese? Contate tutte, rispondono Stuppini e la Fondazione. Anche quelle per i Centri di Identificazione ed Espulsione: «Per il 2012 il costo complessivo si può calcolare in 170 milioni».

In ogni caso, prosegue il dossier, «si è considerata la spesa pubblica utilizzando il metodo dei costi standard, stimando la spesa pubblica complessiva per l’immigrazione in 12,6 miliardi di euro, pari all’1,57% della spesa pubblica nazionale. Ripartendo il volume di spesa per la popolazione straniera nel 2012 (4,39 milioni), si ottiene un valore pro capite di 2.870 euro». Risultato: confrontando entrate e uscite, «emerge come il saldo finale sia in attivo di 3,9 miliardi». Per capirci: quasi quanto il peso dell’Imu sulla prima casa. Poi, per carità, restano tutti i problemi, i disagi e le emergenze che abbiamo detto. Che vanno affrontati, quando serve, anche con estrema durezza. Ma si può sostenere, davanti a questi dati, che mantenere l’estensione della social card ai cittadini nati all’estero ma col permesso di soggiorno è «un’istigazione al razzismo»?

Per non dire dell’apporto dei «nuovi italiani» su altri fronti. Dice uno studio dell’Istituto Ricerca Sociale che ci sono in Italia 830 mila badanti, quasi tutte straniere, che accudiscono circa un milione di non autosufficienti. Il quadruplo dei ricoverati nelle strutture pubbliche. Se dovesse occuparsene lo Stato, ciao: un posto letto, dall’acquisto del terreno alla costruzione della struttura, dai mobili alle lenzuola, costa 150 mila euro. Per un milione di degenti dovremmo scucire 150 miliardi. E poi assumere (otto persone ogni dieci posti letto) 800 mila addetti per una spesa complessiva annuale (26mila euro l’uno) di quasi 21 miliardi l’anno. Più spese varie. Con un investimento complessivo nei primi cinque anni di oltre 250 miliardi.

Diosssina: Taranto è in provincia di Brescia

brescia-675A Taranto è tutto transennato. A Brescia, nei parchi alla diossina ci giocano i bambini. Tra il quartiere Tamburi di Taranto – a ridosso dell’Ilva – e il sito inquinato nazionale “Caffaro” di Brescia, gravemente contaminati dai cancerogeni Pcb e diossine, la sproporzione è tutta nei dati e nelle decisioni prese dalle autorità per proteggere la popolazione.

A Taranto, ad esempio, in un giardino con 0,283 microgrammi di Pcb/kg di terra il sindaco ha vietato l’accesso a tutti gli abitanti; a Brescia invece, nei parchi con 0,400 mg/kg di Pcb possono entrare anche i bambini, con alcune limitazioni che hanno scatenato le polemiche dei comitati di genitori e ambientalisti come il “divieto di scavo e asportazione del terreno” considerato improprio e difficile da far rispettare ai più piccoli. Il confronto è ancora più allarmante per le diossine: nel quartiere Tamburi, all’ombra dell’Ilva, sono vietate le aree verdi con 24,12 ngTEQ/kg(tossicità equivalente alla diossina di Seveso); mentre a Brescia l’ordinanza del sindaco, scritta sulla base di un parere della Asl, consente l’accesso nei parchi con 80,8 ngTEQ/kg di diossine, una concentrazione quasi quattro volte superiore.

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Lo denunciano una serie di comitati ambientalisti bresciani insieme a Medicina Democratica e al comitato Sos Scuola, chiedendo al sindaco di Brescia Emilio Del Bono e alle autorità sanitarie “il rispetto della legge”. Al centro della polemica l’ordinanza emessa dal sindaco Pd a pochi giorni dall’insediamento, il 24 luglio 2013, che ha dato il via libera all’accesso in aree con concentrazioni superiori ai limiti di legge per i Pcb e le diossine, zone contaminate che prima erano formalmente interdette con ordinanza “contingibile e urgente” reiterata ogni 6 mesi, anche se il divieto spesso non veniva rispettato dai bresciani, come mostrato dalle telecamere della trasmissione di Riccardo Iacona “Presa Diretta” nel 2013.

Per l’inquinamento dei suoli la legge prevede delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC). Per i siti ad “uso verde pubblico, privato e residenziale” – secondo quanto stabilito dal D. lgs 152/2006 – i livelli massimi di Pcb e diossine sono di 0,06 mg/kge 10 ngTEQ/kg. Soglie superate sia nel caso di Brescia che in quello di Taranto, per cui è necessaria una “analisi di rischio sanitario e ambientale” per “valutare gli effetti sulla salute umana derivanti dall’esposizione prolungata all’azione delle sostanze presenti”. Analisi di rischio che a Taranto ha portato alla chiusura delle aree verdi del quartiere Tamburi con un’ordinanza del giugno 2010 per far fronte a un “rischio sanitario non accettabile in caso di esposizione prolungata nel tempo, a seguito di contatto dermico ed ingestione accidentale”, disposizione peraltro in vigore “fino all’ultimazione dei lavori di bonifica”.

A Brescia invece, dove le concentrazioni soglia sono molto al di sopra di quelle di Taranto (la chimica Caffaro, che ha prodotto i Pcb “cancerogeni certi” per lo Iarc dal 1936 al 1984, ha inquinato terreni e rogge con il veleno “puro”) l’Asl ha deciso – senza analisi di rischio “sito-specifica” – di dividere il sito inquinato in tre aree: blu, gialla e rossa. Nella “zona rossa” l’accesso è “interdetto a qualsiasi uso” (parchi di via Nullo, Passo Gavia, via Parenzo nord, via Sorbana nord, campo Calvesi), in quella gialla è consentito “con limitazioni” (parchi di via Fura, via Livorno, via Parenzo sud, via Ercoliani, via Sorbana sud, via Cacciamali). Ma nell’area gialla, dove giocano anche i bambini, ci sono concentrazioni di Pcb e diossine da due a quattro volte superiori rispetto a quelle di Taranto e oltre ai veleni chimici, a Brescia in quei terreni sono presenti anche metalli pesanti come mercurio, arsenico e rame. “A Taranto la legge che dovrebbe valere su tutto il territorio nazionale è stata applicata, a Brescia no – denunciano i comitati – e a trasgredire in modo così clamoroso sono le istituzioni pubbliche”.

(fonte)

Nella Serpa: la boss di Paola

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Per Nella Serpa, 59 anni, ritenuta a capo dell’omonima cosca di ‘ndrangheta operante a Paola è stato applicato il regime detentivo speciale del 41 bis. Il provvedimento rientra nell’ambito dell’attività di contrasto che la Procura distrettuale antimafia di Catanzaro ed i carabinieri stanno conducendo per limitare l’autonomia decisionale e sottrarre alla criminalità i beni accumulati illecitamente attraverso l’applicazione di provvedimenti cautelari personali e patrimoniali più severi. Nella Serpa, già detenuta nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), è stata trasferita nella casa circondariale dell’Aquila.

‘Ndrangheta: la quinta azienda

Il preciso articolo di Claudio Forleo:

40 arresti tra Lombardia, Veneto e Sicilia, un filmato del ROS sulla cerimonia di affiliazione alla Santa, la zona d’elite dove la ‘ndrangheta incontra i poteri forti che l’hanno aiutata a diventare grande nell’ultimo mezzo secolo, abbandonando per sempre l’etichetta di ‘mafia stracciona’. L’interesse verso la criminalità organizzata, soprattutto calabrese, procede per ondate.

Per giro d’affari oggi la ‘ndrangheta sarebbe la quinta azienda italiana. La scorsa primavera l’istituto Demoskopika stimava un fatturato pari a 53 miliardi di euro (66 miliardi di dollari). Nel nostro paese ci sono solo quattro società che possono reggere il confronto: ENI, ENEL, Exor e Generali. La ‘Ndrangheta SPA non conosce crisi se è vero che nel 2007, prima dei subprime, del tracollo di Lehmann Brothers e di tutti gli effetti che si sono rovesciati sull’economia reale, il suo giro d’affari era stimato in 44 miliardi di euro. Le ‘ndrine durante la crisi hanno aumento il fatturato del 20%. Quale altra ‘società’ operante in Italia può lontanamente avvicinarsi a questi risultati?

Eppure, solo fino ad una manciata di anni fa, esistevano ministri e prefetti che negavano la penetrazione al Nord delle ‘ndrine. Ignoranza o malafede? Qualunque sia la risposta uno dei risultati è il gap di conoscenza dell’opinione pubblica su come è avvenuta questa scalata. Vent’anni fa il pericolo si chiamava Cosa nostra, dieci anni fa libri di successo hanno fatto riscoprire all’opinione pubblica la potenza e la ferocia della Camorra. La ‘ndrangheta invece non ha conosciuto la stessa pubblicità. Un silenzio che le ha permesso prima di prosperare con il traffico degli stupefacenti, poi di infiltrarsi nell’economia reale avvelenandone i pozzi.

La quinta azienda italiana conta almeno 60mila affiliati, ma sbaglieremmo se limitassimo il numero degli ‘iscritti’. Il bacino delle connivenze è molto più esteso, nel mondo della politica, dell’imprenditoria e della finanza. E travalica i confini nazionali ed europei. Quando nel 2007 la faida di San Luca produsse la strage di Duisburg, i tedeschi dovettero rendersi conto di essere stati colonizzati. La ‘ndrangheta aveva iniziato ad acquistare immobili e attività commerciali in Germania un minuto dopo la caduta del Muro di Berlino. L’intelligence tedesca sapeva che le ‘ndrine operavano alla Borsa di Francoforte ed erano entrate in possesso di azioni Gazprom, il colosso russo del gas che verrà poi presieduto dall’ex cancelliere Schroeder.

In Italia ancora si vedono volti smarriti nell’apprendere che non esiste regione dove la ‘ndrangheta non ha messo radici. Non oggi, non ieri, ma 30-40 anni fa. Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia, Toscana… i clan calabresi operano dappertutto, da decenni. 

Prendiamo come esempio la Liguria, oggi al centro di polemiche per il dissesto idrogeologico. “In Liguria la ‘ndrangheta è arrivata negli anni Sessanta. C’era tutto: il porto, utile accesso per le rotte della droga, il casinò, ma soprattutto la Francia, con le sue coste a due passi da Ventimiglia” scrivono Antonio Nicaso e Nicola Gratteri nel libro Fratelli di sangue. Ventimiglia, porta verso la Francia e la Costa Azzurra, dove vengono arrestati i boss Paolo De Stefano, Domenico Libri e Luigi Facchineri. E’ anche se non soprattutto in Liguria che la ‘ndrangheta ricicla i suoi introiti illegali, nella terra in cui (dati Istat) dal 1990 al 2005 il territorio non cementificato è passato da 249mila a 135.570 ettari. Ventimiglia e Bordighera sono due amministrazioni comunali sciolte per infiltrazioni mafiose nel 2012. Non le prime al Nord, precedute da Bardonecchia (1995) in Piemonte. Qui, a dominare la scena fin dagli anni Ottanta, fu Rocco Piscioneri, sostituito poi dai clan Ursino – Macrì – Belfiore, originari di Gioiosa Ionica. Nel 1993 Domenico Belfiore venne condannato con sentenza definitiva per l’assassinio del Procuratore di Torino Bruno Caccia, freddato il 26 giugno 1983. E potremmo andare avanti, regione per regione.

Come si diceva l’Italia si è presto trasfromata in un giardino troppo stretto per le ambizioni delle ‘ndrine. Sono diventati padroni del traffico di cocaina in Europa, grazie al rapporto privilegiato con i narcos colombiani (anche perché, a differenza di Cosa nostra, la ‘ndrangheta è stata solo sfiorata dal pentitismo). Secondo gli esperti la ‘ndrangheta è l’unica mafia davvero globalizzata, operante in tutti i Continenti, da decenni (leggi il nostro articolo dello scorso 12 febbraio). In Spagna, ventre molle dell’Europa per l’accesso degli stupefacenti provenienti dal Sudamerica, nell’Europa dell’Est, dove le ‘ndrine hanno investito una volta caduta la cortina di ferro, in Olanda, nel Regno Unito, in Svizzera e Austria.

In Libano le ‘ndrine di Siderno commerciavano eroina già negli anni Ottanta, per lo stesso motivo in Turchia le cosche di Platì si interfacciavano con i Lupi Grigi, dove militava Ali Agca, protagonista dell’attentato a Giovanni Paolo II. In Africa i regimi corrotti in Ghana, Liberia e Guinea-Bissau sono stati luogo di transito ideali per immense partite di cocaina. In Canada Rocco Perri fece affari d’oro negli anni del proibizionismo con Al Capone e Joseph Kennedy (sì, il padre di JFK), In Australia le ‘ndrine fanno sparire per sempre l’attivista Donald Mackay, che osò sfidare i capibastone della zona (Trimboli, Scarfò, Sergi).

Beni confiscati nel Lazio

“Confiscati Bene” è un progetto partecipativo per l’apertura dei dati sui beni confiscati, nato da un’idea della comunità Spaghetti Open Data e sviluppato da Dataninja.it, in collaborazione con Monithon.it e Twinbit.it.
Il gruppo di lavoro ha estratto, “ripulito” ed analizzato i dati ufficiali sparsi sul sito dell’Agenzia Nazionale per i Beni Sequestrati e Confiscati (Anbsc) e in altri dataset istituzionali, raccogliendoli inunico catalogo dati raggiungibile dal portale www.confiscatibene.it liberamente scaricabile e riutilizzabile. Sul sito del progetto i dati sono navigabili su mappa open source. Lo scorso settembre i Dataninja, in collaborazione con le testate locali del gruppo Repubblica-l’Espresso, hanno coordinato un’inchiesta di datajournalism per presentare i dati sui beni confiscati in dieci Regioni italiane.

Con 645 beni confiscati censiti dall’Anbsc, il Lazio è la sesta Regione italiana per presenza di beni sottratti alla criminalità organizzata. Sale quinta nel ranking nazionale, superando Sicilia, Campania, Lombardia e Calabria, se si considera il numero di aziende confiscate, 140: oltre l’8% delle aziende italianesottratte ai boss è qui.

I dati delineano l’ampiezza del fenomeno criminale e danno un’idea, seppur lontana dalla consistenza effettiva, di quali siano gli investimenti mafiosi nella Regione, concentrati in diversi settori economici: edilizia, ciclo del cemento, appalti, ristorazione, turismo, commercio, distribuzione di prodotti ortofrutticoli, usura e compro oro.

Una presenza sistematica e capillare sul territorio: dal sud pontino nel basso Lazio, lungo il litorale tirrenico, fino all’area metropolitana della capitale e più a nord, nel Lazio settentrionale. In queste zone Cosa nostra, ‘ndrine calabresi, clan camorristici e gruppi “autoctoni” (tra cui le “rimanenze” della banda della Magliana), si spartiscono affari milionari in maniera più o meno cooperativa, a seconda della convenienza del momento. Penetrano nel tessuto economico della regione, grazie alla copertura della cosiddetta area grigia dei colletti bianchi, rimettendo in circuito nell’economia legale gli ingenti capitali accumulati dalle attività illecite, legate in primis al traffico di stupefacenti e all’usura.

I dati della Dia relativi al numero di procedimenti di confiscaconfermano la tendenza: sono 85 nel biennio 2012-2013, erano 32 nel biennio precedente (+53), un dato che fa del Lazio la quinta regione per procedimenti dopo le quattro regioni del sud, storicamente interessate dal fenomeno mafioso. A livello di distretti giudiziari, nel 2013 sono 69 i nuovi procedimenti a Roma, che sale in classifica seconda dopo Palermo (e il dato è parziale: aggiornato al 30 settembre 2013).

Il Lazio sotto assedio: i dati dell’Anbsc Provincia per Provincia

In ambito nazionale Roma è la settima provincia, con 479 beni confiscati, di cui 118 sono aziende: quasi l’85% delle imprese confiscate in Lazio è nella sola provincia capitolina. Simbolo di come la metropoli, cuore politico ed economico del Paese, sia da decenni crocevia di investimenti e interessi criminali. La maggior parte dei beni (335, il 52% del totale regionale) è concentrata a Roma, che nella classifica dei comuni italiani sale al terzo posto dopo Milano e Palermo, e nei comuni dell’hinterland, la zona dei Castelli Romani. Qui lo Stato ha sottratto immobili un tempo nella disponibilità di cosche calabresi, clan camorristici e boss della banda della Magliana.

Ad Ardea e ad Anzio sono state confiscate due lussuose ville ad Enrico Nicoletti, ex cassiere della banda della Magliana, mentre a Grottaferrata, il terzo comune dei Castelli più interessato dalle confische, dopo Monterotondo e Pomezia, i beni appartenevano per la maggior parte all’ex re delle bische clandestine, Aldo de Benedettis. Un solo bene risulta confiscato a Nettuno, il primo ed unico comune del Lazio sciolto per infiltrazioni da parte della ‘ndrangheta nel 2005. A Roma le confische più significative colpiscono ristoranti, alberghi e caffè dai nomi prestigiosi, “lavanderie” intestate a prestanome che le mafie utilizzano come copertura per ripulire ingenti capitali illeciti. È il caso del celebre Café de Paris, storico simbolo della dolce vita felliniana: il bar era controllato dalla famiglia calabrese degli Alvaro di Cosoleto. Così come il noto ristorante George’s, sempre nella disponibilità degli Alvaro, o l’antico Caffè Chigi, confiscato in via definitiva ad un’altra famiglia ‘ndranghetista. L’elenco purtroppo è sconfinato, destinato a crescere: recentissima è la confisca del Caffè Fiume, a due passi da via Vittorio Veneto, eseguita dalla Dia di Roma.

La presenza delle mafie, e della camorra in particolare, risulta più strutturata e consolidata nella zona del sud pontino: Latina, con 93 beni, è la seconda provincia laziale per beni confiscati. Gaeta e Fondi (il primo consiglio comunale “non sciolto” per mafia, nonostante il pesante condizionamento da parte della ‘ndrangheta sull’attività amministrativa fosse stato dimostrato dal processo “Damasco 2”) sono i comuni più interessati dalle confische: a Fondi c’è uno dei più grandi mercati ortofrutticoli d’Europa, centro di grandi interessi commerciali e di lucrosi affari mafiosi. Gaeta detiene un piccolo record: qui, secondo l’Anbsc, il 100% dei beni risulta destinato e consegnato. Recentemente una confisca disposta dal Tribunale di Latina ha sottratto a clan camorristici operanti tra Napoli e Latina beni per un ammontare di quasi 50 milioni di euro.

Spostandoci nel Frusinate, terza provincia laziale per beni confiscati con 67 immobili e aziende, sono le note località di Anagni e Fiuggi (la città delle terme, eletta dal boss Cutolo a rifugio per la sua latitanza), ad essere più colpite dalle confische. La provincia è terra soprattutto di riciclaggio dei proventi illeciti in mano alla camorra, derivanti in gran parte dal traffico illegale dei rifiuti. Resta Viterbo, con soli 6 beni confiscati, la Provincia meno interessata dalle confische. Questo dato, purtroppo, non è garanzia di “immunità” dalle infiltrazioni mafiose: secondo le indagini il viterbese è infatti frontiera delle ecomafie.

 

Ancora poche le destinazioni

Nel Lazio sono 264 i beni destinati e consegnati agli enti, solo il 41% del totale, a fronte di una media nazionale del 54%. Beni, tuttavia, spesso lasciati all’incuria e all’abbandono, o gestiti con finalità che appaiono lontane dal riuso a fini sociali: la destinazione, infatti, non sempre è sinonimo di riutilizzo.Una problematica che la stessa Agenzia conosce direttamente: solo recentemente, dopo anni e molte fatiche, la sezione romana dell’Agenzia è stata trasferita nella sua attuale sede, in un grande appartamento confiscato in via definitiva. L’immobile era stato occupato abusivamente da un avvocato e da un centro benessere, costringendo l’Agenzia a versare per anni quasi 295.000 euro l’anno d’affitto per la vecchia sede, di proprietà della Provincia. Una beffa tutta italiana.

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L’Europa, le mafie e i reati ambientali

Eurojust, organismo Ue per la cooperazione giudiziaria, rivela che la mafia e i gruppi della criminalità organizzata sono responsabili della criminalità ambientale transfrontaliera. E paradossalmente, nonostante si stimino profitti illegali tra i 30 ed i 70 miliardi di euro l’anno (fonte Oecd), le statistiche mostrano che i crimini contro l’ambiente sono raramente perseguiti dalle autorità nazionali. Nonostante la necessità di un approccio transnazionale, il numero dei casi riferiti ad Eurojust è molto basso. Ma i delitti contro l’ambiente riguardano la società nel suo complesso: dalla salute dell’uomo e degli animali alla qualità dell’aria, del suolo e dell’acqua. La lunga lista dei reati ambientali comprende: rifiuti pericolosi esportati da Italia e Irlanda verso Stati terzi; l’inquinamento delle acque in Ungheria e Svezia; l’export illecito di lupi, scimmie e uova di uccelli.

Questo primo rapporto sui crimini contro l’ambiente si concentra su tre argomenti: traffico di specie in via d’estinzione; traffico illegale di rifiuti e acque inquinate. La relazione prende in esame le strutture nazionali di controllo, l’accesso alle competenze, così come le possibili soluzioni per affrontare queste sfide. Secondo quanto emerge a livello europeo: i proventi dei reati ambientali sono molto elevati, ma le sanzioni basse. Non si indaga abbastanza sul traffico illegale di rifiuti. Vi è un vuoto nel coordinamento delle autorità competenti sia a livello nazionale che internazionale. In larga misura, le autorità nazionali non riescono ad affrontare i casi in modo transnazionale. L’attuazione della normativa Ue a livello nazionale è diversa da uno Stato all’altro, fattore che ostacola un approccio transnazionale armonizzato. Alcuni Stati non hanno neppure strutture organizzative adeguate.

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Operazione “Caronte”: finalmente chiara la mafiosità di Vincenzo Ercolano?

Ventitré arresti e cinquanta milioni di euro sequestrati sono le cifre dell’operazione “Caronte” condotta dai Ros di Catania sotto il coordinamento dei magistrati Agata Santonocito e Antonino Fanara sul connubio tra mafia, politica e imprenditoria nel settore dei trasporti in Sicilia. In manette è finito il noto imprenditore catanese Vincenzo Ercolano titolare della ‘Geotrans Srl’ ed ex presidente della Federazione Autotrasportatori Italiana nella provincia etnea, che solo alle pendici dell’Etna conta circa 1500 addetti. Ercolano fa parte di una famiglia legata al mondo dei trasporti e nello stesso tempo a Cosa Nostra, il padre Giuseppe, detto anche “Zu Pippu”, era considerato da molti ‘il re degli ortofrutticoli’ e più volte coinvolto in inchieste di mafia, mentre il fratello Aldo e lo zio Benedetto Santapaola sono ormai da anni al 41bis, condannati all’ergastolo come capi di Cosa Nostra etnea. Nell’ordinanza di custudia cautelare emessa dal Gip anche i fratelli Vincenzo Aiello, già detenuto e condannato in primo grado nel processo “Iblis” a 22 anni per mafia, e Alfio Aiello, condannato in appello per associazione mafiosa.

Secondo gli inquirenti, l’asse Ercolano-Aiello operava nel settore logistico avvalendosi degli “imprenditori-affiliati” Francesco Caruso e Giuseppe Scuto, titolari di alcune ditte di trasporti, fornendo loro il sostegno negli affari avendone un notevole tornaconto. Tra gli interessi finiti sotto la lente della Procura di Catania guidata da Giovanni Salvi, anche il contratto stipulato, tra il 2005 e il 2006, dalla ‘Servizi Autostrade del Mare’ di Caruso con la ‘Amadeus Spa’, società riconducibile ad Amadeo Matacena, parlamentare Pdl e imprenditore calabrese attualmente latitante a Dubai già condannato in via definitiva a cinque anni di reclusione, più l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, per concorso esterno in associazione mafiosa, vicenda nella quale è stato coinvolto anche l’ex ministro Scajola, arrestato dalla Dia di Reggio Calabria, accusato di aver favorito la sua fuga all’estero. Matacena avrebbe fornito l’affitto di tre navi per permettere il transito dei tir e favorire il collegamento tra la Sicilia e la Calabria, per un costo complessivo stimato intorno a 120 mila euro al mese. Nonostante l’attività avesse ottenuto risultati notevoli, dopo circa 90 giorni il contratto venne interrotto e le parti si divisero.

Ercolano, qualche anno più tardi, proverà nuovamente ad usufruire degli ‘ecobonus’ europei per autotrasportatori che usano gli spostamenti marittmi, facendo il suo ingresso nel ‘Consorzio Ruote sul Mare’, senza però riuscirci in quando la società era già in fase di liquidazione. L’interesse verso gli ‘ecobonus’, aggiunge il Gip, aveva spinto la coppia Caruso-Scuto a prendere contatti anche con “esponenti politici di alto livello” che potessero in qualche modo aiutarli ad “accellerare le pratiche amministrative”. Nel 2008 fondano quindi il Partito Nazionale degli Autotrasportatori, con l’interesse di tutelare l’intera categoria della logistica e tramite l’ex deputato regionale Giovanni Cristaudo, condannato in appello a cinque anni per concorso esterno, sostengono alle elezioni europee del 2009 l’ex presidente della Regione Sicilia e leader del Movimento per le Autonomie Raffalele Lombardo, recentemente condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi per mafia nel processo Iblis. Durante la campagna elettorale vennero utilizzati i camion dell’PNA per pubblicizzare il logo del partito e l’immagine di Lombardo.

Nella lista degli affari della famiglia Santapaola-Ercolano c’era pure la fornitura della carne per la grande distribuzione. I tagli che finivano sui banconi degli hard discount Forté ed Eurospin Sicilia venivano controllati, secondo gli inquirenti, da Cosa nostra catanese tramite due imprenditori compiacenti.

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