Gli amici (vigliacchi) di Di Matteo
Due o tre cose che sentivo di dover scrivere su Nino Di Matteo, sui silenzi istituzionali e su tutta questa tiepidezza codarda in giro: potete leggerle qui.
I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.
Due o tre cose che sentivo di dover scrivere su Nino Di Matteo, sui silenzi istituzionali e su tutta questa tiepidezza codarda in giro: potete leggerle qui.
Questa mattina vale la pena leggere Luca Bottura:
Quando Marco Biagi fu trucidato dalle Brigate Rosse, era in corso uno scontro importante sulla riforma del Lavoro. Conosciamo i colpevoli: i terroristi, e chi, nelle istituzioni, trattò Biagi come un mitomane.
Nonostante queste responsabilità chiarissime, l’attenzione post-attentato si concentrò principalmente su Sergio Cofferati. E sulla Cgil, che sarebbe scesa in piazza (tre milioni o uno, non importa) col lutto nel cuore e l’infamante accusa di esserne la causa.
Non era vero allora. Non è vero adesso.
Criticare le riforme del Governo Renzi, quindi anche il lavoro del professor Taddei, è un esercizio tipico della democrazia. Scioperare pure. Fa parte della dialettica tra classi sociali – sì: ci sono ancora le classi sociali – di un Paese civile. Alzare il livello dello scontro è altro.
Lo sa perfettamente chi vuole sovrapporre la violenza verbale (vagheggiando quella fisica) alla protesta legittima, con lo scopo tra gli altri di mettere i sindacati in un angolo. Tutto già visto.
Intanto però la tentazione di lucrare su queste vicende titilla il Palazzo. Sarebbe facile usare strumentalmente la deriva eversiva come fece, ai tempi, Roberto Maroni, mettendo il cappello (Legge Biagi, invece che Legge 30) su una riforma che snaturava le idee del professore ucciso, mantenendo l’impianto liberista senza attivare le tutele sociali più profonde che Biagi aveva saggiamente previsto.
Sarebbe invece bello e utile se al Governo capissero da subito che una controparte democratica è una garanzia per tutti e che andrebbe legittimata, invece di smontarla a suon di hashtag e battute sui Ponti. In modo da combattere, insieme, i nemici veri.
I nemici di Taddei, della dialettica democratica, di chi ancora interpreta l’informazione come esercizio critico del potere. Perché a furia di disintermediare, l’impalcatura della libertà vien giù.
E ci finiamo sotto tutti.
Dopo l’inchiesta per corruzione, il deputato dem Marco Di Stefano, viene scaricato dal suo partito. Non solo il Pd lo lascia senza tavolo alla cena romana di finanziamento di Matteo Renzi del 7 novembre, invitandolo il giorno dopo, a sospendersi dal gruppo parlamentare di Montecitorio per evitare imbarazzi, ma anche il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, decide di mantenere le distanze da Di Stefano. La Regione si costituirà parte civile in caso di processo sulla presunta tangente di 1,8 milioni versata al parlamentare per l’affitto degli immobili a Lazio Service.
Da poliziotto a deputato, la carriera di Di Stefano colleziona veloci cambi di casacca e molti incarichi. Prima di cadere nell’oblio, ha fatto giusto in tempo a partecipare all’ultima Leopolda del 25 ottobre, coordinando un tavolo di lavoro sui pagamenti digitali. E’ stato invitato dallo staff organizzativo del ministro per le riforme e i rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, madrina dell’evento renziano. Considerato un “mister preferenze”, fu fondamentale per la vittoria di Pietro Marrazzo alla presidenza della regione Lazio.
Portò in dote, in quell’occasione, 14mila voti. Ora però, il parlamentare, trasmigrato dall’Udc al centro sinistra, grazie alla regia di Walter Veltroni, è più isolato che mai, perché deve fare i conti con la giustizia: secondo la procura di Roma avrebbe intascato una maxi tangente da un milione e 800 mila euro dai costruttori romani della famiglia Pulcini. L’indagine riguarda la vendita degli immobili dell’Enpam a una società riconducibile agli imprenditori romani, con una plusvalenza di 53 milioni di euro, il 50 per cento del reale valore. I magistrati romani contestano a Di Stefano una mazzetta presa quando era assessore al Demanio, Patrimonio e Personale della giunta Marrazzo, per l’affitto a Lazio Service, società controllata della Regione, di due edifici di proprietà dei Pulcini al prezzo di oltre 7 milioni di euro l’anno.
Il giallo del collaboratore – Antonio e Daniele Pulcini, secondo l’accusa, avrebbero versato una tangente di 300 mila euro anche al braccio destro di Di Stefano, Alfredo Guagnelli, di cui si sono perse le tracce dal 2009. Di Guagnelli si occupò nel 2011 la trasmissione Chi l’ha visto? e si scoprì che il giorno della sua scomparsa s’incontrò con Di Stefano nei pressi della Regione Lazio. Da qui si aggiungono nuovi particolari alla vicenda. Un testimone racconta al quotidiano Libero che l’uomo di fiducia di Di Stefano, prima di sparire nel nulla, sarebbe partito per Montecarlo per recuperare una somma di denaro in contanti: banconote da 500 euro per un totale di 2 milioni. Cifra che si avvicina alla tangente contestata al parlamentare del partito democratico. Proprio da Montecarlo, secondo gli investigatori, i Pulcini avrebbero condotto in Italiadocumenti e “valuta”. Guagnelli – continua il testimone – viaggiava molto, amava la bella vita, offriva viaggi e forniva donne e auto a politici tra cui Di Stefano.
L’ex poliziotto – Ex poliziotto, cresciuto nel quartiere Aurelio di Roma, inizia la sua carriera politica come consigliere comunali della Capitale nel ’97 in sella al Ccd (Centro cristiano democratico). Riconfermato nel 2001, si occupa di trasporti e ambiente. Nel 2003 diventa segretario provinciale dell’appena nato Udc di Pierferdinando Casini. Da qui in poi, Di Stefano cambia diverse volte partito. Nel 2005, prima di candidarsi alla Regione Lazio, dopo un’operazione di scouting, il cui regista era l’allora sindaco Walter Vetroni, lascia l’Udc per approdare al centrosinistra: viene eletto con la lista civica per Marrazzo con oltre 14mila preferenze. Un pacchetto di voti, ritenuti fondamentali per la vittoria di Marrazzo che, lo nomina assessore al Demanio e Patrimonio. Nel 2007 Di Stefano cambia nuovamente casacca ed entra nell’Udeur- popolari di Clemente Mastella. Ma un anno dopo, nel 2008, ci ripensa e rientra nei ranghi del Pd.
Mister 16mila voti – Con lui si assiste all’assunzione, senza concorso, di 900 precari di Lazio Service, società regionale creata nel 2005 dall’ex governatore Francesco Storace. Nel 2010 si ricandida in Regione, raccogliendo questa volta 16mila voti. Nonostante la sua presenza fosse guardata con sospetto dagli esponenti del Pd della prima ora, per i suoi numerosi salti della quaglia, è l’uomo giusto per il partito per guidare la Commissionespecialefederalismo fiscale e Roma Capitale. Un organismo considerato inutile e costoso che, infatti, viene sciolto in seguito allo scandalo Fiorito sui rimborsi regionali.
Primarie e imbrogli – Nel 2013 partecipa alle primarie per la Camera dei deputati. È il primo dei non eletti. Ed è proprio poco dopo le primarie, in un’intercettazione telefonica di gennaio riportata dal Messaggero, che annuncia “la guerra nucleare a partire da Zingaretti, li tiro dentro tutti. Sono dei maiali. (…) Ho fatto le primarie con gli imbrogli, no? Non è che so’ imbrogli finti….” E poi la minaccia: “Se imbarcamo tutti, ricominciamo dai fondi dei gruppi regionali. Sansone con tutti i filistei, casco io, ma pure gli altri”. Le ire di Di Stefano si placano solo ad agosto di quest’anno quando Marta Leonori viene nominata assessore dal sindaco di Roma Ignazio Marino, liberando il posto alla Camera. Da maggio per Di Stefano è scattato anche il vitalizio.
(fonte)
Un paese senza cultura facilmente si innamora dei briganti, convinto com’è che la prepotenza sia l’unica strada percorribile per affrontare tutte quelle dinamiche sociali che hanno la “lotta” come unica chiave di lettura. E così le bugie ripetute all’infinito alla fine diventano non solo vere ma addirittura veri e propri allarmi.
Andrea Colasuonno per Esse smonta le 9 balle più ascoltate sull’immigrazione:
1) “Vengono tutti in Italia” Gli stranieri in Italia sono poco più di 5 milioni e mezzo, ossia l’8% della popolazione. Solo 300 mila sono gli irregolari. Il Regno Unito è il paese europeo al primo posto per numero di nuovi immigrati con circa 560.000 arrivi ogni anno. Seguono la Germania, la Spagna e poi l’Italia. La Germania è invece il paese Ue con il maggior numero di stranieri residenti con 7,4 milioni di persone. Segue la Spagna e poi l’Italia. Siamo sesti inoltre per numero di richieste d’asilo (27.800). Da notare che il paese col più alto numero di immigrati è anche l’unico che in questo momento sta crescendo economicamente.
2) “Li manteniamo con i nostri soldi” Gli stranieri con il loro lavoro contribuisco al Pil italiano per l’11% , mentre per loro lo stato stanzia meno del 3% dell’intera spesa sociale. Inoltre gli immigrati ci pagano letteralmente le pensioni. L’età media dei lavoratori non italiani è 31 anni, mentre quella degli italiani 44 anni. Bisognerà aspettare il 2025 perché gli stranieri pensionati siano uno ogni 25, mentre gli italiani pensionati sono oggi 1 su 3. Ecco che i contributi versati dagli stranieri (circa 9 miliardi) oggi servono a pagare le pensioni degli italiani.
3) “Ci rubano il lavoro” “La crescita della presenza straniera non si è riflessa in minori opportunità occupazionali per gli italiani”, è la Banca d’Italia a parlare. Il lavoro straniero in Italia ha colmato un vuoto provocato da fattori demografici. Prendiamo il Veneto. Fra il 2004 e il 2008 ci sono stati 65.000 nuovi assunti all’anno, 43.000 giovani italiani e 22.000 giovani stranieri. Nel periodo in cui i nuovi assunti sono presumibilmente nati, negli anni dal 1979 al 1983, la natalità è stata di 43.000 unità all’anno. È facile vedere allora che se non ci fossero stati gli immigrati, 22.000 posti di lavoro sarebbero rimasti vacanti. Questo al Centro-Nord. La situazione è un po’ più problematica al Sud, perché in un’economia fragile e meno strutturata spesso gli stranieri accettano paghe più basse e condizioni lavorative massacranti, rubando qualche posto agli italiani. A livello nazionale, ad ogni modo, il fenomeno non è apprezzabile.
4) “Non rispettano le leggi” Negli ultimi 20 anni la presenza di stranieri in Italia è aumentata vertiginosamente, fra il 1998 e 2008 del 246% dice l’Istat. Eppure la delinquenza non è aumentata, ha avuto solo trascurabili variazioni: nel 2007 il numero dei reati è stato simile al 1991. Di solito si ha una percezione distorta del fenomeno perché si considerano fra i reati degli stranieri quelli degli irregolari che all’87% sono accusati di reato di clandestinità il quale consiste semplicemente nell’aver messo piede su territorio italiano.
5) “Portano l’Ebola” L’Africa è un continente enorme, non una nazione. Le zone in cui l’Ebola ha maggiormente colpito sono Liberia e Sierra Leone. Da queste zone non giungono immigrati in Italia dove invece arrivano da Libia, Eritrea, Egitto e Somalia. I sintomi dell’Ebola poi si manifestano in 3 o 4 giorni e un migrante contagiato non potrebbe mai viaggiare per settimane giungendo fino a noi. Infine il caso ebola è scoppiato ad aprile 2014, nei primi 8 mesi del 2014 in Italia sono arrivati circa 100 mila immigrati e neanche uno che ci abbia trasmesso l’Ebola.
6) “Aiutiamoli a casa loro” È la frase con cui i razzisti di solito si autoassolvono, come se aiutarli a casa loro non abbia dei costi e dei rischi, e come se i nostri governi non abbiano già lavorato per affossare questa possibilità. Nel 2011 il governo italiano ha operato un taglio del 45% ai fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo, stanziando effettivamente 179 milioni di euro, la cifra più bassa degli ultimi 20 anni. Destiniamo a questo ambito lo 0,2 del Pil collocandoci agli ultimi posti per stanziamenti fra i paesi occidentali. Nel 2013 il Servizio Civile ha messo a disposizione 16.373 posti di cui solo 502 all’estero, in sostanza il 19% di posti finanziati in meno rispetto al bando del 2011.
7) “Sono avvantaggiati nelle graduatorie per la casa” Ovviamente fra i criteri per l’assegnazione delle case popolari non compare la nazionalità. I parametri di cui si tiene conto sono il reddito, numero di componenti della famiglia se superiore a 5 unità, l’età, eventuali disabilità. Gli immigrati di solito sono svantaggiati perché giovani, in buona salute e con piccoli gruppi famigliari (poiché non ricongiunti). Nel bando del 2009 indetto dal comune di Torino il 45% dei richiedenti era straniero, solo il 10% di essi si è visto assegnare una casa. Nel comune di Genova, su 185 abitazioni messe a disposizione, solo 9 sono andate ad immigrati. A Monza su 100 assegnazioni solo 22 agli stranieri. A Bologna su 12.458 alloggi popolari assegnati, 1.122 agli stranieri.
8) “Prova a costruire una chiesa in un paese islamico” È l’argomento che molti usano perché non si costruiscano moschee in Occidente o perché si lasci il crocifisso nei luoghi pubblici. È un argomento davvero bislacco: per quale motivo se gli altri sono incivili dovremmo esserlo anche noi? E comunque gli altri non sono incivili. In Marocco i cattolici sono meno dello 0,1% della popolazione eppure ci sono 3 cattedrali e 78 chiese. Si contano 32 cattedrali in Indonesia, 1 cattedrale in Tunisia, 7 cattedrali in Senegal, 5 cattedrali in Egitto, 4 cattedrali e 2 basiliche in Turchia, 4 cattedrali in Bosnia, 1 cattedrale negli Emirati Arabi Uniti, 3 monasteri in Siria, 7 cattedrali in Pakistan e così via.
9) “I musulmani ci stanno invadendo” Al primo posto fra gli stranieri presenti in Italia ci sono i rumeni che sono oltre un milione. I rumeni per la maggior parte sono ortodossi. In seconda posizione ci sono gli albanesi, quasi 600 mila, per il 70% non praticanti (lascito della dominazione sovietica) e, fra i rimanenti, al 60% musulmani e al 20% ortodossi. Seguono i marocchini, quasi 500 mila, quasi totalmente musulmani, e ancora i cinesi, circa 200 mila, quasi tutti atei. Dunque in larga parte gli stranieri in Italia sono cristiani, oppure atei, solo in piccola parte professanti l’Islam.
Un articolo di Daniele Vicari:
L’ultima volta che sono venuto a Tor Sapienza è stato per sbaglio pochi mesi fa. Ero diretto alla prima comunione di Maria, figlia di un caro amico, alla Rustica, quartiere cuscinetto tra Tor Sapienza e l’autostrada Roma-L’Aquila. Distrazione al telefono e mi ritrovo nell’anello di via Morandi. Faccio il giro degli enormi palazzi un paio di volte, senza trovare la via d’uscita, e come succede nei film mi ritrovo nel passato, quando con un gruppo di pazzi all’inizio dei ’90 animammo l’estate per i bimbi proprio su questa via: giostrine, clown, musica, proiezioni. «Meno male che conosco le strade» dico a mia figlia seduta accanto per tranquillizzarla. Esco dall’anello e raggiungo facilmente via Longoni, dritto per la Rustica. Ma mi ritrovo in un posto sconosciuto, con decine di trans in pieno giorno che colorano la via, mia figlia è immersa nel suoi Ipod e non mi fa domande…
Ho vissuto 25 anni a ridosso di questa zona di Roma, a Pietralata, nella parte opposta dell’autostrada, ma quando l’altra notte le tv hanno trasmesso l’ormai famigerato raid contro il centro di accoglienza, mi sono svegliato vagando per il quartiere con la testa. E al mattino ho twittato la mia angoscia: #TorSapienza torna alle cronache. Il quartiere abbandonato da tutte le amministrazioni, la “discarica umana”. Allora? Aspettiamo il #morto?
Sarà per questo quasi inspiegabile attaccamento a un quartiere che ho frequentato per anni, che ora ci cammino in mezzo, non me la sono sentita di risolvere il mio personale rapporto con questo mondo semplicemente con un twitt. Anche perché nella semplificazione giornalistica mi sono ritrovato a dire: «perché quei centri non li mettono ai Parioli?». Che come provocazione magari funziona, ma non è esattamente il mio pensiero. Le chiacchiere stanno a zero, questa è una zona sotto assedio: polizia ce n’è un bel po’; tanti capannelli di persone; grida sconclusionate di donna che dice «Basta!» a ripetizione. Non la vedo, ma le sue grida interpretano questa atmosfera alla perfezione. Ora che questo luogo è diventato tristemente famoso nel mondo per il raid contro la cooperativa sociale «Un sorriso», tutto è più difficile, tutto è maledettamente scivoloso. Qui le ragioni e i torti si mescolano fino a essere irriconoscibili. L’unica cosa certa: troppi problemi che si sovrappongono.
E’ legittimo chiedersi come si sia mai potuto pensare di innestare in un quartiere come questo l’ennesima forma di disagio sociale. Ma chi le pensa queste cose? Chi si prende certe responsabilità? Magari, invece, chi ha deciso questa cosa avrà avuto le sue ragioni, l’edilizia pubblica viene utilizzata per scopi sociali e magari ai Parioli non ci sono case pubbliche… Le strade ad anello sono senza scampo e gira gira mi ritrovo davanti al centro di accoglienza «Un sorriso». C’è la polizia, ci sono i militanti dei movimenti che proteggono l’uscio. Dall’altra parte della strada musi lunghi che dicono no. Passo in mezzo come un fantasma. Nessuno si accorge di me. Provo un brivido freddo, un serpentello mi scorre lungo la spina dorsale: oltre quelle vetrate ci sono ragazzi che vengono da zone di guerra vere, dove la vita vale meno di zero. E sono stati ripescati in mare come tonni. Per loro quei musi lunghi sono l’Italia che non li vuole. E io sono italiano, sono coinvolto. Ma se la mia famiglia fosse lassù, dietro quei panni stesi al terzo piano? Asserragliata in casa per paura?
Qualche mese fa rimasi imbottigliato nel traffico in via Collatina, a un chilometro da qui. Tentando di capire dalla radio cosa stesse succedendo, scoprii che era in corso una protesta dei cittadini del quartiere, sentii quel gran pezzo di sindaco che fu Alemanno chiedere isterico: «Marino dov’è?». Si era presentato alla manifestazione e le televisioni locali non mancarono di immortalarlo in mezzo alle mamme con le carrozzine e le maschere contro la diossina mentre diceva nevroticamente: «Marino dov’è?». La “destra sociale”, quella che sa vincere le elezioni cavalcando il disagio popolare senza peli sullo stomaco, e che quando governa demolisce pezzo per pezzo il welfare, Alemanno, era li in mezzo alla gente del quartiere. Le mamme e i bimbi protestavano per oggettive condizioni inaccettabili di vita. Non ricordo altri politici di rango presenti. Con disastri di questo tipo, ipermediatizzati, come il terribile stupro e l’uccisione della signora Reggiani, si vincono e si perdono le elezioni o peggio si inaugurano cicli politici. I cittadini protestavano per i roghi tossici su via Salviati, appiccati dai rom. Ho visto spesso il fumo venire su passando dall’autostrada. A via Salviati c’è un campo nomadi dove si dice risiedano migliaia di persone anziché le 300 previste. Recentemente è stato fatto uno sgombero molto contestato del campo, ma un gran numero di Rom pare sia ancora li. A questa presenza difficile si aggiungono alcuni centri di accoglienza in zona, uno di questi è quello di Via Morandi preso di mira l’altra notte, e me lo sono appena lasciato alle spalle. Mi fermo per scrivere, mi nascondo come un ladro dietro un pilone di cemento.
Giro ancora in tondo e passo davanti alla sede di Antropos. Una associazione capace di sviluppare una quantità di attività sociali incredibile. 13 anni fa vi feci i provini per il mio primo film: «Velocità Massima». Vi trovai il protagonista e alcuni dei ragazzi di Tor Sapienza fecero le comparse nel film. Mi sembra chiuso il centro, non sono nemmeno sicuro di riconoscerlo. Non mi va di parlare con nessuno, tiro dritto.
Bisogna dire che passarci a piedi si capisce molta della rabbia dei cittadini. E’ sporco, ma come fanno i bambini a giocare qui in mezzo? Marciapiedi che improvvisamente finiscono nel nulla. Lampioni piantati al centro degli scivoli per disabili. Monnezza. Penso che se il posto in cui stai fa schifo, prima di prendertela con l’ultimo dei rifugiati, dovresti prendertela con te stesso che ci abiti e fai poco o nulla per migliorare la situazione, e magari pisci anche tu in quel cespuglio dove al mattino va a giocare a nascondino tuo figlio. Mi do ragione da solo, ovviamente, come tutti i benpensanti, ma c’è sempre il piccolo dettaglio che io non abito qui. Non abito nemmeno più a Pietralata che rispetto a questo posto è un luccicante quartiere residenziale, e me ne sono andato qualche anno fa perché spesso si fulminavano i lampioni, e passavo le serate buie alla finestra per essere sicuro che la mia compagna parcheggiasse e tornasse a casa senza rotture. Ora sono su un altro pianeta, quasi in centro a San Giovanni.
Pensieri in libertà e mi ritrovo a leggere il nome della strada: via Luigi Nono! Provo un momento di entusiasmo, è un genio della musica del novecento, un uomo impegnato politicamente, autore tra l’altro de «Il canto sospeso» musica lancinante e testi dalle «Lettere dei condannati a morte della resistenza»… solo ora mi rendo conto che il teatro di questo dramma sociale è una via intitolata al più isolato e mite tra i pittori italiani: Giorgio Morandi. Me lo ripeto ad alta voce, perché il nome suona strano a guardami attorno, lui è stato uno dei geni della pittura del XX secolo, con le immortali nature morte dipinte nella sua stanzetta bolognese. Qui le strade portano nomi di grandi personalità dell’arte contemporanea, involontariamente a suggellare la misera sconfitta di una idea di civiltà e di politica appiccicata con lo sputo sulla pelle di una società che sotto un velo sottile di retorica fard nasconde purulenze mai sanate. Ecco.
A sprazzi mi andrebbe di parlare con qualcuno, anche per uscire da questo soliloquio, ma mi freno, perché i media hanno già vampirizzato le peggiori nefandezze e irripetibili minacce che «i residenti» indirizzano ai rifugiati. Se ne potrebbe fare un catalogo che non sfigurerebbe nel dizionario del perfetto fascioleghista. Infatti si parla di «infiltrati» di gruppi politici di estrema destra o cose simili. Infiltrati? Certamente gente che getta benzina sul fuoco ce n’è. Credo che i raid razzisti vadano non solo criticati a parole, ma fermati senza tentennamenti, perché sono un crimine contro l’umanità, e mai come in questi casi va invocato lo stato di diritto (se esiste). Va bene tutto, ma in questa vicenda c’è un ma: MA perché qui vengono concentrate tutte le contraddizioni del mondo, senza risolverne nemmeno una?
Qui, nelle case dell’Ater (Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale), trenta e più anni fa arrivarono migliaia di persone cariche di storie difficili, vi furono concentrate situazioni spesso ai limiti. Quando arrivarono «questi qui» delle case popolari che ora fanno i raid contro i rifugiati, gli abitanti delle borgate limitrofe, come la Rustica, protestarono. Lo ricordo con esattezza, perché alla Rustica ci vivono molte persone originarie del paese in cui sono cresciuto, le case se le sono costruite negli anni ‘50 e ’60 con le loro mani, e su quelle case due o tre generazioni hanno buttato tutte le risorse familiari disponibili. Quelle stesse case, abusive e poi sanate, sono diventate un capestro per i loro proprietari a causa di Ici o Tasi varie, ma sono pur sempre case private, «dignitose», non case popolari prese «a sbafo», come si diceva degli inquilini di via Morandi: «Io lavoro, sudo e quelli si prendono la casa a gratis e poi vanno in giro con la mercedes», così si diceva. Ora la ruota gira, e quelli che furono protestati trent’anni fa protestano gli ultimi arrivati, che «mangiano a sbafo con i soldi nostri e buttano nei secchi dell’immondizia il cibo…». E’ un assurdo esperimento psico-sociale quello realizzato in questa assurda periferia, lontana dalle le zone «bene» della città, che si sono sempre sentite al riparo da ogni conseguenza diretta dai casini dei «borgatari». Però, come succede nei film catastrofici, da questo esperimento il virus potrebbe sfuggire e ora lo sappiamo tutti, siamo tutti avvertiti, le molotov contro il centro di accoglienza «Un sorriso» parlano chiaro.
E la politica? Mistero… l’unica cosa evidente è che c’è chi ha molto fiuto per queste situazioni, come Salvini. S’è visto bene a Bologna, è un ragazzo intelligente che piace tanto ai salotti televisivi, ma tanto tanto. Si dice che dreni i voti in libera uscita da Forza Italia, quindi è utile… L’attivismo razzistoide della Lega ha già imposto per venti anni campagne elettorali su «legge e ordine» e contro «lo straniero». Lo ricordiamo tutti, spero, che la Lega nacque a ridosso dell’arrivo degli albanesi sulle coste pugliesi nel 1991? Persino la sinistra «di governo» ha dato il suo bel contributo a quella tendenza con l’invenzione dei Cie.
Fa il suo, Salvini, bisogna dargliene atto: egli fa politica. Ma a parte alcuni «amici» di twitter che danno del fascista agli abitanti di un intero quartiere, e a parte qualche personalità della sinistra non di primissimo piano, cosa fa il resto della politica per sciogliere questo garbuglio?
E senza accorgermene i miei pensieri fluidificati dalla rabbia mi hanno teletrasportato al Lory Bar. Mi prendo il caffè che non è nemmeno accio. Devo ammettere che è la prima volta che provo disagio nella «mia» periferia. Guardo le persone che mi guardano, qui non passo inosservato. Sento dire che sta arrivando o è arrivata la Meloni, che i rifugiati li hanno già trasferiti in parte stamattina. Viktoria! Voglio andare via subito, a me certe «vittorie» danno ai nervi, non vorrei che si rivelassero delle immense débâcle.
Un po’ me lo merito con i miei misterici Ray-ban di essere un «osservato speciale». Uso la tazzina del caffè come scudo, mi proteggo dallo sguardo limpido di una ragazzina bionda seduta sul muretto, giovanissima. Io farei crescere qui mia figlia?
Due anziani discutono degli accadimenti ultimi, uno dei due dice guardando me: «Qua a Tor Sapienza sémo ventimila abitanti ar massimo in tutta l’ottava zona dell’Agropontino, ma come fai tra rifugiati, sbandati e Rom, a mettecene dentro n’antri due o tremila?». Perché l’ha detto a me? La cosa mi brucia. L’altro risponde solo «’nfatti», fumando una sigaretta elettronica. Mentre penso che il vecchio non ha tutti i torti anche se il suo discorso somiglia inevitabilmente a: «Non sono razzista ma…», mi do anche la risposta: «no, non ci farei crescere mia figlia qui»… non ci vivrei nemmeno io, piuttosto me ne andrei da Roma, forse tornerei a Collegiove, dove sono cresciuto, dove mia madre gestisce l’unico bar del paese. Ma improvvisamente mi viene da ridere, non riesco a trattenermi e credo di rischiare una coltellata da un tipo con il giubbottone di pelle nera che mi fissa, come faccio a spiegargli che rido perché a Collegiove, un paese di un centinaio di abitanti, in provincia di Rieti a 1.000 metri d’altezza, da qualche mese ci sono 30 rifugiati nell’albergo chiuso da sempre e aperto per l’occasione? 30 su 100. E come faccio a spiegargli che sono clienti di mia madre, che sono gentilissimi, brave persone con neonati al seguito scappate dalla Siria, e che pagano i loro piccoli debiti, che non la chiamano Gabriella, ma la chiamano MAMMA, esattamente come la chiamo io? E che quando me l’ha detto qualche giorno fa per telefono, mi sono pure un po’ ingelosito? Ma forse il giubbottone nero ha ragione, c’è poco da ridere, almeno qui a Tor Sapienza.
(Per inciso, io la conosco proprio bene Tor Sapienza, sì, e conosco romani con il cuore negro di bile e romani emigrati già da un pezzo dall’isola dell’etica. Tor Sapienza è quel posto dove i consumatori di droga, appena passa l’effetto, manifestano contro lo spaccio. Per dire. Non tutti, certo, prima che si inizi con la solita solfa.)
Non sempre sono d’accordo con lui e nemmeno lui con me, credo. Ma di giornalisti così se ne sente tanto bisogno, soprattutto quando mettono le mani in pasta in una criminalità così difficilmente decifrabile come quella romana. L’ultimo episodio è preoccupante, davvero.
Prosegue nell’aula bunker l’interrogatorio di Angelo Siino:
Ha mai conosciuto Aldo Ercolano?
Si, era figlio del cognato di Santapaola, lo conoscevo nell’ambito della zona industriale di Catania. Eravamo abbastanza confidenti tra noi così come con altri personaggi della mafia catanese.
Lei ha conosciuto Salvo Andò?
No, me ne parlò l’Ercolano quando mi disse che era venuto nella zona industriale a raccomandare la questione socialista che era in atto allora: la questione dei voti che dovevano andare ai socialisti (votazioni ’87), era già successo in una votazione precedente. Si doveva votare per un personaggio che non contava, Tony Barba, ma era un segnale da dare ai politici per dire noi votiamo socialisti. Si trattava di elezioni regionali.
Lei ha mai sentito parlare da Ercolano o da altri di un progetto di uccidere Salvo Andò?
Non ricordo bene, poi l’Ercolano mi aveva detto che suo padre che allora reggeva il mandamento di Catania che era contrario a fare iniziative contro Andò.
Il pm gli contesta una sua dichiarazione del 24 novembre 1999 al processo di appello Capaci. In quella occasione Siino diceva che Ercolano gli aveva detto che Andò prima si era preso i voti e poi si diceva che era amico del dott. Falcone e quindi doveva essere eliminato.
Si ricordo, la mia esitazione era che i due periodi erano diversi. Di questo progetto se ne parlava dopo l’uccisione di Falcone, Salvo Andò si professava amico di Falcone ed era molto critico nei confronti dell’omicidio perpetrato a Capaci. In quella occasione Ercolano diceva che si doveva ammazzarlo così come Martelli perché si erano fottuti i voti e poi tiravano i calci come gli asini.
Da chi ebbe queste informazioni?
Io ero codetenuto con Francesco Mangion vice rappresentante della famiglia di Catania che, riferendosi a Ercolano mi diceva: ma questo manco lo conosce Salvo Andò, che va dicendo? Sono tutte fesserie. Io lo ascoltavo senza interesse.
Lima con lei ebbe mai a commentare l’incarico a ministero della Giustizia che Martelli conferì a Falcone.
Me lo commentò in parecchie circostanze, quando io mi lamentavo dei detenuti liberati e poi subito riarrestati lui mi diceva: ma tu hai capito quello che hanno combinato gli amici tuoi? Vedi quello che sta succedendo, pensavate che ‘u preside, che era Andreotti, non lo capiva questa situazione? Si sarebbe vendicato… quel cane rognoso, così chiamava Falcone, ora è diventato primo dirigente del ministero della giustizia.
Lima le esplicitò a quale situazione si riferisse?
Si era la questione del decreto che aveva riportato i miei amici mafiosi in galera, quelli che avevano creato l’accordo con Martelli per farlo votare.
Nino chiede con riferimento alla strage di via D’Amelio, lei nel periodo successivo ebbe a commentare o ascoltare commenti da esponenti di uomini di Cosa Nostra.
Si, avvenne in più occasioni, furono soprattutto Pippo Calò e Bernardo Brusca a lamentarsi dicendo chi fu quella bella mente che gli venne in mente di fare questa cosa? Io non sapevo nulla. Sia Brusca che il Calò si lamentavano che loro non avevano saputo niente ed era stato il personaggio che si era preso questa responsabilità. Io dicevo: non lo so non sono alla mia altezza, non so chi possa avere dato questo input.
Brusca e Calò si lamentavano di qualcosa in particolare?
Si non capivano chi e perché aveva deciso una cosa del genere. Ho avuto modo di parlarne a Termini Imerese, lì ho incontrato Brusca, Calò e Montalto che mi dissero che non sapevano chi fosse stato il personaggio che aveva deciso di uccidere Borsellino, c’erano dei problemi che avevano portato all’accelerazione dell’uccisione di Borsellino. Confermo questa mia dichiarazione, c’era un sacco di gente che diceva che le cose dopo l’uccisione di Falcone si erano quietate e quindi perché avevano fatto quest’altra cosa che aveva portato al 41bis a tante persone? Questo me lo aveva detto Bernardo Brusca e Pippo Calò.
Ci furono altri commenti?
Non ricordo.
Lei ha conosciuto Marcello Dell’Utri?
Si l’ho conosciuto per una circostanza casuale, i fratelli Dell’Utri erano 3, uno di questi era compagno mio di scuola media, gli altri due erano liceali. Erano delle persone che sapevano giocare bene a calcio. Ho avuto modo di conoscerli. Con il fratello piccolo, che poi morì, ero compagno di scuola e avevo più confidenza.
Lei ha mai incontrato a Milano Marcello Dell’Utri?
Si una volta che andai a Milano usciva da un edificio di costruzione del periodo fascista insieme ad altri personaggi che sapevo essere residenti a Milano, o vicini o membri di Cosa Nostra. Io ero andato a Milano e successivamente in Svizzera con Stefano Bontate, siamo nel periodo antecedente agli anni’80, nel periodo in cui c’era Sindona a Palermo.
Quando vide scendere Marcello Dell’Utri riesce a indicare quella scena?
La scena la potrei dipingere, ma non ricordo con chi era, mi pare con personaggi di Cosa Nostra palermitana ma non ricordo chi fossero.
Lei il 15 settembre del ’97 ha riferito: in genere io attendevo in macchina il Bontade, vidi scendere il Bontate, un fratello Martello, forse Alessandro, Mimmo Teresi e uno dei fratelli Dell’Utri che mi fu presentato come Marcello.
Confermo.
Lei ha mai saputo se Marcello Dell’Utri avesse avuto rapporti finanziari con Vito Ciancimino?
Si c’è stato un momento che l’hanno avuti ma Ciancimino lo definiva un coglionazzo, mi venne detto anche da Stefano Bontate. Io dicevo: questo si è comprato la Venchi Unica, poi la Bresciana costruzioni, aveva fatto degli affari con Vito Ciancimino che era legato a un personaggio di Villabate, un consigliere comunale di Palermo della sua corrente. Questo me lo disse Vito Ciancimino e si riferiva ad affari avuti precedentemente a quel momento (fine anni ’70) li aveva avuto nella prima metà degli anni ’70. Anche Stefano Bontate mi parlò di questi rapporti tra Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri. Eravamo in una via famosa di Milano.
Lei nel verbale del ’97 disse: Stefano Bontate mi aveva detto di affari tra Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri nell’edilizia.
Si, la Bresciana costruzioni.
Lei quando era detenuto in relazione alle elezioni del 1994 ha avuto modo di parlare con mafiosi di rango così da avere notizie sulle indicazioni di Cosa Nostra?
Ho avuto modo di avere parecchi contatti all’interno del carcere di Termini Imerese, quando usciva il primo turno d’ora d’aria passava dalle celle e io ero soddisfatto perché tutti gli uomini di alto rango di Cosa Nostra passavano da me per avere consigli da me su questioni politiche ed altro. Io ero stato presentato da un certo Guarneri di Canicattì come uomo d’onore. In quelle occasioni mi venivano chieste indicazioni o mi dicevano quello che dovevano fare. Avevano detto a mia moglie che io dovevo far votare Forza Italia. Io avevo cercato di sminuire la cosa perché non volevo che mia moglie si occupasse di quella cosa. Io sempre con i limiti del 41bis ho avuto modo di sentire altre persone e di fare rinioni e quindi dissi a tutti che si doveva votare per Forza Italia. Anche all’aula bunker di Caltanissetta all’udienza preliminare Leopardo con Piddu Madonia mi disse: Angelo per chi dobbiamo votare? Io dissi forte Forza Italia, ma anche per Violante, per sviare l’attenzione.
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Che gioia poter comunicare che una nuova scuola è stata aperta a Gaza ed è a nome di Vittorio Arrigoni. L’Associazione per lo sviluppo “Ghassan Kanafani” comunica questa bellissima notizia dicendo che sono ben 98 i bambini registrati nella scuola materna e che possono contare su sette maestre assunte per l’ occasione. La lettera comunicato inizia così ” Compagni e amici in Italia, I nostri calorosi saluti a tutti voi da Gaza, dalla terra della fermezza e dell’eroismo.Calorosi saluti dai bambini della scuola materna “Vittorio Arrigoni” per l’anima di Vittorio Arrigoni, quei ragazzi ai quali, con il vostro sostegno, siamo riusciti a disegnare un sorriso sui volti….” e si conclude con un “promettiamo a tutti voi di tenere fede e mantenere i principi per i quali Vittorio il Ribelle ha vissuto e combattuto e vi promettiamo di insegnare ai nostri figli il patriottismo, il rispetto per l’umanità ed a resistere all’oppressione ovunque si trovi.”
Alla fine potrete trovare tutte le indicazioni per il contatto. L’asilo è stato costruito grazie anche alla raccolta fondi tramite la vendita del dvd “Restiamo umani – the reading movie”, scritto dallo stesso Vittorio Arrigoni.
Scrive Mariagiulia Agnoletto, psichiatra e coordinatrice dell’Associazione Salaam Ragazzi dell’Olivo Milano-Onlus, che dal 2001 collabora con l’associazione palestinese socio-educativa Remedial Educatioon Center con progetti di affido a distanza dei bambini/e dei villaggi e del campo profughi del nord della striscia di Gaza: “La mia esperienza nella striscia di Gaza è nell’incontro con i bambini/e e le loro famiglie e nel rapporto con i volontari e gli operatori (educatori, insegnanti, psicologi, clown, animatori) delle associazioni palestinesi psico-educative, che quotidianamente “resistono”, cercando di trasmettere, condividere con i bambini un attaccamento alla vita, una speranza per il futuro.A Gaza tutti i diritti del’infanzia sono negati quotidianamente: alla vita, alla libertà, alla salute fisica e psichica, alla casa, all’istruzione, al gioco, alla libertà di movimento. I bambini appaiono passivi, ritirati o più spesso tesi, con atteggiamenti di sfida, rabbia, che nascondono dolore, paura, frustrazione. Infatti “i bambini delle pietre non sono di pietra, soffrono, hanno paura”, come diceva un amico psichiatra palestinese. Sono bambini continuamene traumatizzati, quindi gli educatori palestinesi devono intervenire “durante il trauma” e cercare di aumentare la resilienza dei bambini: identificare il trauma, dare un senso all’evento e alla propria reazione emotiva, cercare di garantire loro una protezione di fronte agli eventi traumatici successivi, per evitare che il disagio psichico si strutturi in patologie. Permettere ai bambini di esprimere emozioni, bisogni, disagi, dare un significato alle proprie paure, angosce, aiutarli ad uscire dalla alienazione/rabbia, trovare soluzioni costruttive e specialmente riconoscere e stimolare le loro risorse positive (con teatro, danza, pittura, narrazione, clowneria, psicodramma, tecniche di rilassamento).Ho visto le maestre accogliere i bambini terrorizzati (come loro stesse), dopo una notte sotto le bombe, proponendo una narrazione singola e collettiva, come valore terapeutico della testimonianza e condivisione. Una possibilità di distinguere i fatti reali da quelli amplificati e deformati dalla paura, piuttosto che il disegno, come occasione per proiettare le conseguenze emotive del trauma. Ho visto costruire con i bambini le lanterne e gli aquiloni, con scritti e disegnati sopra messaggi di pace, giustizia, desideri, speranze … da far navigare in mare o volare in cielo, oltre l’isolamento di Gaza. Ho visto incontri tra madri e insegnanti per costruire, ideare, immaginare, imparare giochi, canzoni, racconti da utilizzare per sé e i propri bimbi nelle successive situazioni di paura, terrore.”
Restiamo umani
Doriana Goracci
Associazione per lo sviluppo “Ghassan Kanafani”- GKD
Indirizzo: Bait Hanoun – Al Shawa suburb
Email: Ghassan_k1972@hotmail.com
Telfax 2482540
(fonte)
Medioevo lombardo:
Una richiesta scritta ai 6.102 insegnanti di religione della Diocesi ambrosiana per avere la segnalazione dei colleghi e dei progetti che nella loro scuola trattano con gli alunni temi legati all’omosessualità e all’identità di genere. La lettera, riservata, è stata messa online sul portale a cui accedono solo i prof di religione con una password. E appena in Curia è arrivata la notizia che il contenuto della missiva stava per diventare pubblico, come d’incanto la lettera è sparita. Con la precisazione che si trattava solo di «un’indagine informale». Alcuni docenti di religione però l’avevano già stampata e si erano interrogati sul suo significato, prima di girarla a Repubblica.
«Cari colleghi — si legge nella lettera scritta dal responsabile di settore della Diocesi, don Gian Battista Rota — come sapete in tempi recenti gli alunni di alcune scuole italiane sono stati destinatari di una vasta campagna tesa a delegittimare la differenza sessuale affermando un’idea di libertà che abilita a scegliere indifferentemente il proprio genere e il proprio orientamento sessuale». Una lettera che pare dunque pensata per mettere in piedi un sistema di contromisure che “proteggano” gli ignari studenti dalla “campagna” di indottrinamento e dal confronto con i temi “sensibili” per la chiesa cattolica. «Per valutare in modo più preciso la situazione e l’effettiva diffusione dell’ideologia del “gender” – scrive la Curia – vorremmo avere una percezione più precisa del numero delle scuole coinvolte, sia di quelle in cui sono state effettivamente attuate iniziative in questo senso, sia di quelle in cui sono state solo proposte».
Detto ciò, la richiesta è chiara: «Per questo chiederemmo a tutti i docenti nelle cui scuole si è discusso di progetti di questo argomento di riportarne il nome nella seguente tabella, se possibile entro la fine della settimana». La Curia conferma quella che definisce «indagine informale mirata a conoscere i progetti scolastici relativi al tema della differenza di genere».Sempre don Rota, responsabile del servizio per l’Insegnamento religione cattolica, cerca di mettere un freno alle polemiche e innesta la retromarcia rispetto alla lettera che esprimeva preoccupazione di fronte alla «campagna per delegittimare la differenza sessuale»: «L’iniziativa è contestualizzata nell’ambito della formazione in servizio dei docenti. La richiesta di informazioni nasce dalla preoccupazione che gli eventuali discorsi su temi così delicati e all’ordine del giorno del dibattito pubblico, vengano sempre affrontati dagli insegnanti di religione con competenza e rispetto delle posizioni di tutti».
Appena il testo della lettera ha cominciato a girare, c’è stato chi fra i prof di religione ha deciso di ritirarsi dall’insegnamento e chi invece ha girato il documento alle associazioni Lgbt. «È incredibile che una Diocesi di una città moderna come Milano chieda agli insegnanti di religione di segnalare le scuole in cui si parla di identità e orientamento sessuale – commenta Maria Silvia Fiengo, editrice ed esponente del Movimento famiglie Arcobaleno – I prof dovrebbero trasformarsi in “spioni” per conto di Dio (o di chi per lui) sul lavoro dei colleghi, dipendenti dello Stato. Non si capisce sulla base di quale investitura la Chiesa metta il naso in iniziative culturali proposte dalle scuole su temi di attualità e interesse anche per i ragazzi».
(fonte)