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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

La famiglia che “riconosce” il pentito

Se vera è una gran bella notizia:

“Giuseppe Cimarosa e’ un giovane che cittadini onesti, associazioni e istituzioni non devono lasciare solo in questo percorso di riscatto intrapreso dopo la collaborazione del padre Lorenzo con la giustizia”. Lo ha detto il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero, dopo averlo incontrato ed essersi intrattenuto a parlare con il trentunenne, cugino del boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro. Il padre Lorenzo, 54 anni, e’ stato arrestato nell’operazione “Eden” e oggi e’ un collaboratore di giustizia.
Giuseppe ha detto al vescovo che tutti i componenti del suo nucleo familiare hanno condiviso la scelta della di passare dalla parte dello Stato e di voltare definitivamente le spalle a Cosa nostra.
A determinare la scelta dell’imprenditore in direzione del pentimento e’ stato proprio il figlio dopo avergli parlato la prima volta in carcere. Al vescovo, Giuseppe Cimarosa (che ha preso una dura posizione pubblica contro il superlatitante Matteo Messina Denaro), regista di teatro equestre e fondatore della “Compagnia del centauro”, ha raccontato la sua solitudine, la sua paura e quella che vive la sua famiglia: il fratello Michele, la mamma Rosa Filardo e la nonna Rosa Santangelo (zia del superlatitante Matteo Messina Denaro) che vivono con lui senza tutela.

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“Frantumare le rotule”. ‘Ndrangheta. Lombardia.

Che guaio può passare un benzinaio del Nord se, per caso, incontra e non esaudisce il desiderio di una cliente, particolare, una donna del Sud: la figlia di una famiglia di ’ndrangheta. Basta, è bastato, non aver dato la disponibilità a pagare col bancomat il rifornimento di carburante al di sotto dei 20 euro. Affronto insostenibile, da pagare col sangue del benzinaio, pur settantenne, e con un certo piacere nel riferirne i particolari. «Lo sgabello era di ferro! Tutte le costole cose… gli ha picchiato un pugno..Gli ha spaccato tutto il naso quel sangue ha sporcato pure noi, io avevo le scarpe piene di sangue».  Scarpe bianche appuntite, contro il costato, la milza, la testa del poveretto.

Le anime nere si muovono a Milano, nell’hinterland, in Lombardia come sulla punta dello stretto più a sud, Vibo Valentia. A colpi di piccone, sgabelli di ferro, calibro nove per «frantumare le rotule», proiettili in busta, auto incendiate. Una violenza che non sempre ha moventi solidi, ma che in quest’ultimo capitolo sulle ‘ndrine in Lombardia, scritto a opera del Ros e della Dda di Milano (tredici arresti tra rappresentanti della famiglia Mancuso, i Galati, e gli uomini della “Locale“ di Mariano Comense di Salvatore Muscatello coinvolti anche in subappalti in Expo) è brutale potere.

Così Luigi Malafonte il 21 settembre 2009 finisce sotto i tacchi di Antonio Galati e Michele Mazzeo (morto poi in un incidente d’auto) – «sembrava un cavallo quel giorno» dirà compiaciuto il suo compare di pestaggio – per aver rifiutato, alla Erg di Cantù, il bancomat per una spesa minima alla figlia, incinta, di Galati, la Rosina. Così un commerciante di autovetture di Cosenza, Isidoro De Ferraris, che azzardò forse a non dare il dovuto a Mazzeo della vendita, verrà inseguito fino a Milano, piazzale Loreto, e massacrato a colpi di manico di piccone dentro e fuori la pizzeria Dinky (11 luglio 2007)«Mannaggia l’ostia quante palate a quello! Dopo è scappato fuori, fuori cadde e picchiavamo tutti e tre lì a terra no? Era morto», dirà il solito Galati. E se non muore, il cosentino, è solo perché Mazzeo ha dato l’ordine di no, «non colpire in testa».

Ma questa ’ndrangheta milanese che non si è ripulita a Milano e le cui gesta tornano nelle intercettazioni alcuni anni dopo, non si ferma di fronte a inchieste, arresti, misure di prevenzione. E arriva fino alla direttrice del carcere di Monza, che nella sala colloqui verrà definita «la padrona di qua». Maria Pitaniello, secondo lo schema che la “colpa“ attribuita non è mai verificata prima di passare a decisioni sommarie, è sospettata dal Fortunato del clan Galati di avere ostacolato la domanda di trasferimento di questi il 6 marzo 2013 da Monza a Lauretana di Borrello, Palmi o Vibo Valentia. In realtà la direttrice ha fatto quel che deve, e il 13 aprile inoltrato l’istanza all’amministrazione penitenziaria. Particolare irrilevante per lo ’ndranghetista, che passerà all’intimidazione, facendo spedire alla funzionaria una busta con tre proiettili. E ancor peggio va al vigile urbano di Giussano, Luigi Galanti, che riconosce Fortunato Galati, in semilibertà con un lavoro fittizio in un posto “di famiglia“ come «La bottega del pane», a forzare un posto di blocco. Il vigile e la sua relazione ai carabinieri vengono collegati al ripristino della misura cautelare («Ti sembra che il vigile non gliel’ha detto ai carabinieri?!»). Sentenza emessa, in immediato, il 18 marzo 2013: e l’auto del ghisa finisce in fumo.

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Illuminati sulla strada della TAV

attenti al tavAll’integralista piddino Stefano Esposito (quello che ci ha riempito di bufale tecniche e allarmismi sconsiderati sulla protesta dei No Tav) ieri è arrivata un’illuminazione: a queste condizioni, dice, l’opera è antieconomica. Scemi noi allora a non esserci spiegati per benino e per tempo, si vede.

La multa di Saverio Masi

Siamo alle battute conclusive di un processo kafkiano di cui abbiamo sentito pochissimo parlare. Loris Mazzetti ne aveva scritto così:

Vi racconto, per i tg che l’hanno ignorata, una piccola storia, per chi lotta contro la mafia (Movimento Agende rosse, Antimafia Duemila, I nostri cento passi), una grande storia che ha come movente una multa di 106 euro ma in realtà riguarda la Trattativatra Stato e mafia.

È la vicenda di Saverio Masi maresciallo capo dell’Arma dei carabinieri rimosso dal nucleo operativo di Palermo, ora caposcorta di Nino Di Matteo, il pm, più volte condannato a morte da Riina, che coordina l’accusa al processo dove, per la prima volta, sul banco degli imputati siedono i capi della mafia insieme a politici e uomini delle istituzioni. Nel processo Masi è testimone.

I fatti. Nel 2001, dopo l’arresto di Benedetto Spera (uomo di fiducia di Provenzano), Masi individuò un contatore dell’Enelriferibile a chi gestiva la latitanza del capo di Cosa nostra. Il maresciallo fece rapporto, che fu totalmente ignorato. Nel 2010, come teste al processo Mori, denunciò un altro fatto: durante una perquisizione nella casa di Ciancimino (2005), un capitano dei carabinieri trovò il papello di Totò Riina con le 12 richieste della mafia allo Stato. Il papello non fu inserito nel rapporto perché i superiori dissero che era già in loro possesso. Ufficialmente risulta che lo scritto di Riina fu consegnato ai magistrati dal figlio di Ciancimino nel 2009. Al maresciallo Masi un superiore, regolarmente denunciato, consigliò di smettere di indagare su Provenzano, in cambio avrebbero trovato un posto di lavoro per la sorella disoccupata. Infine, a Masi, che per ben due volte si trovò sulle tracce di Messina Denaro, fu impedito nuovamente di indagare.

Il maresciallo capo non è un eroe, è un servitore dello Stato, che crede nell’onorabilità della divisa, nella Giustizia e soprattutto sa fare bene il proprio dovere, per aver chiesto l’annullamento di una multa di 106 euro presa con un’auto privata usata durante un’indagine “i capi sapevano che i mafiosi conoscevano le nostre macchine civetta”, rischia la radiazione dall’Arma. Il superiore che l’ha denunciato ha dichiarato che quel giorno lui non era in servizio. Nel processo di appello Masi è stato nuovamente condannato ma è caduta l’accusa di “falso ideologico”, i giudici hanno confermato che lui era in servizio.

Il 30 ottobre vi sarà la sentenza di Cassazione, un’eventuale condanna avrebbe il sapore, per uno che ha dedicato la vita alla lotta alla mafia, non una condanna a sei mesi ma alla morte civile: ricorderebbe più il Cile di Pinochet che l’Italia di Falcone e Borsellino.

Già l’8 luglio del 2013 Lorenzo Baldo (valente vicedirettore di Antimafiaduemila) aveva colto nel segno:

“I conducenti dei veicoli di cui al comma 1, nell’espletamento di servizi urgenti di istituto, qualora usino congiuntamente il dispositivo acustico supplementare di allarme e quello di segnalazione visiva a luce lampeggiante blu, non sono tenuti a osservare gli obblighi, i divieti e le limitazioni relativi alla circolazione, le prescrizioni della segnaletica stradale e le norme di comportamento in genere, ad eccezione delle segnalazioni degli agenti del traffico e nel rispetto comunque delle regole di comune prudenza e diligenza”. Basta rileggere il comma 2 dell’art. 177 del codice stradale relativo alla “circolazione degli autoveicoli e dei motoveicoli adibiti a servizi di polizia o antincendio, di protezione civile e delle autoambulanze” per farsi un’idea del processo paradossale approdato oggi in Corte di Appello a carico del maresciallo dei carabinieri Saverio Masi (presidente Daniele Marraffa, giudici a latere: Salvatore Barresi e Gaetano La Barbera). Come è noto nel 2011 il M.llo Masi è stato condannato (con rito abbreviato) a 8 mesi per falso materiale ed ideologico e per tentata truffa. Secondo l’accusa avrebbe falsificato un atto del proprio ufficio per far annullare una sanzione del codice della strada di 106 euro, riportata durante un servizio svolto con una vettura privata, nel 2008, quando era in forza al Nucleo Investigativo del Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo. “Usavamo le macchine di amici perché i mafiosi conoscevano le nostre auto di servizio” aveva raccontato Masi due anni fa durante la sua deposizione al processo Mori-Obinu.

Quando la sezione della Polizia Stradale di Palermo ha chiesto la conferma della versione riferita dal maresciallo, i superiori lo hanno deferito all’autorità giudiziaria asserendo che nessun ufficiale lo aveva mai autorizzato a far uso di una vettura privata per svolgere il servizio di polizia giudiziaria di quel giorno e che nessuna annotazione dell’autorizzazione era riportata sul relativo memoriale di servizio né sul foglio di viaggio. Gli ufficiali hanno inoltre affermato che l’utilizzo di mezzi privati sarebbe di regola escluso per i servizi di polizia giudiziaria e che, comunque, andrebbe specificamente autorizzato dai superiori nonché regolarmente annotato nei memoriali di servizio e nei fogli di viaggio. Un vero e proprio collage di falsità. Ma andiamo per ordine. L’articolo 177, comma 2, poc’anzi citato, parla chiaro: solo le auto che utilizzano lampeggianti blu e sirene sono esenti da contravvenzioni durante l’espletamento di servizi. Masi invece operava con auto privata senza alcun dispositivo acustico o visivo. Non ha quindi senso citare a mo’ di accusa il fatto che il sottoufficiale avesse richiesto l’annullamento della multa visto che utilizzava un’auto privata. Allo stesso modo la contestazione sollevata dai vertici dei carabinieri relativa alla rarissima concessione dell’utilizzo di auto private per l’espletamento di servizi di indagine viene smentita dagli stessi appartenenti alle forze dell’ordine.

La denuncia del Coisp
“Se non usassero le auto private, i computer privati e la cancelleria privata – ha scritto ieri in una nota Franco Maccari, segretario generale del Coisp, Sindacato Indipendente di Polizia –, se non usassero i propri soldi per rifornire i mezzi di carburante, per fronteggiare le più banali spese, per dare il massimo aiuto a chi viene soccorso e persino, a volte, per dare assistenza a chi viene arrestato, i Rappresentanti delle Forze dell’Ordine non potrebbero mai e poi mai garantire il servizio eccellente su cui gli italiani possono contare nonostante tutto. Nonostante a livello istituzionale non si faccia praticamente alcunché per fornire gli strumenti adeguati ai più fedeli Servitori dello Stato. Nonostante che, se serve a ‘scopi superiori e diversi’, quei fedeli Servitori sono i primi ad essere gettati in pasto a questa o a quella ‘causa’. La gente lo sa bene. Ed a chi non ci ha ancora riflettuto lo diciamo noi”. Il comunicato, pubblicato alla vigilia del processo d’appello al M.llo Masi, restituisce la verità dei fatti. “E’ fin troppo ovvio – ha specificato ulteriormente Maccari – che nessun superiore gerarchico potrà mai impartire l’ordine di utilizzare i mezzi privati dei sottoposti. E’ altrettanto ovvio che se e quando ciò accade, perché è inevitabile che accade, non si troverà mai scritto da qualche parte. Ma è altrettanto certo, e tutti lo devono sapere con grande chiarezza, che quando il servizio lo richiede, i Tutori dell’Ordine non si fermano di fronte a nulla, anche se c’è da rimetterci. E di questo gli italiani hanno prova ogni giorno. Figurarsi se le esigenze di un’indagine delicata e complessa quanto può essere quella contro la criminalità organizzata possono sottostare a questa o a quella problematica del parco auto. Contestare a qualcuno di non aver lavorato è una cosa, ma contestargli di aver usato un’auto privata senza autorizzazione scritta, ha dello sconcertante”. Dello stesso avviso gli avvocati Giorgio Carta e Francesco Desideri i quali, nella stessa nota, hanno spiegato che “da sempre, l’utilizzo di vetture private per servizio non è preceduto da alcuna autorizzazione, né viene annotato per iscritto, specie in quei reparti particolarmente esposti nella lotta alla criminalità organizzata”. In un altro Paese, di fronte a simili menzogne, ci si interrogherebbe sui reali motivi per i quali si assiste ad un effettivo accanimento nei confronti di un sottoufficiale dei carabinieri. Ma non in Italia. Forse non si vuole perdonare a Saverio Masi la “colpa” di aver alzato un velo su gravissime omissioni di alcuni suoi superiori responsabili della mancata cattura di Provenzano o di Messina Denaro? Oppure si vuole fare “azione preventiva” di discredito nei confronti di un importante teste al processo Mori e al processo sulla trattativa Stato-mafia? Il M.llo Masi è di fatto il caposcorta del dott. Di Matteo, pm di punta di entrambi i processi e già pesantemente minacciato, si vuole forse colpire ulteriormente anche lui? Certo è che un coacervo di apparati istituzionali ed extra-istituzionali sta facendo di tutto per ostacolare, se non addirittura bloccare definitivamente, tutti coloro che stanno cercando di fare luce sulla trattativa Stato-mafia e sul biennio stragista ‘92/’93.

Un processo kafkiano
In aula oggi si sono visti alcuni poliziotti del Coisp, qualche carabiniere e un esponente del Co.Ba.r. (organo di base di rappresentanza del personale militare), tra il pubblico un’insegnante in pensione venuta anche lei a manifestare la propria solidarietà nei confronti di Saverio Masi. L’avv. Carta ha chiesto  alla Corte di acquisire nuovi verbali di interrogatorio di testimoni appartenenti all’Arma che confermerebbero la falsità delle dichiarazioni rese precedentemente dai superiori di Masi, allo stesso modo è stato chiesto che i testi possano essere interrogati in aula. “Il processo si basa su una bugia colossale!”, ha ribadito il legale di Masi dopo aver sottolineato le incongruenze della sentenza di I° grado frutto delle dichiarazioni dei superiori del maresciallo. L’avv. Carta ha ricordato inoltre le richieste di acquisizione documentale rivolte ai vertici dei carabinieri, puntualmente inevase. Dal canto suo il procuratore generale, Salvatore Messina, si è opposto nettamente alle richieste della difesa bollandole come “intempestive”. Dopo una lunga camera di consiglio la Corte è rientrata rigettando tutte le richieste del collegio difensivo ritenendole “tardive” e prive di una “assoluta necessità”. A quel punto il M.llo Masi ha rinunciato alle dichiarazioni spontanee limitandosi a chiedere che venisse accettata l’acquisizione della copia del suo passaporto e di una relazione di servizio a dimostrazione della mancata contraffazione della nota di servizio. Di fatto vicino al timbro recante la dicitura del nominativo del suo superiore lo stesso Masi aveva aggiunto la scritta A.P.S. (assente per servizio) apportando una sua sigla dopo aver barrato il timbro. La richiesta è stata immediatamente respinta. Per il procuratore generale Messina il M.llo Masi avrebbe quindi compiuto i reati ascrittogli per non pagare la multa di 106 euro (!). Nella sua minuziosa arringa l’avv. Carta ha ribadito l’inconsistenza delle accuse sottolineando che a fronte di tanti anni di spese, ai fini investigativi, anticipate dal M.llo Masi  – e mai rimborsate dall’Arma – era totalmente assurdo focalizzare l’accusa su quella multa. “Il M.llo Masi non rischia la galera – ha sottolineato il legale – rischia la conferma della condanna che una volta diventata definitiva provoca la destituzione dall’Arma. Un danno enorme per lui, la sua famiglia e per lo Stato”. Ma quello Stato-mafia che giorno dopo giorno si appalesa in tutte le sue forme non intende minimamente processare se stesso. Questi ennesimi colpi di coda dimostrano la reale consistenza delle inchieste che a tutti gli effetti vanno a toccare i fili dell’alta tensione. “Il M.llo Masi – ha concluso l’avv. Carta – è un galantuomo che mi onoro di difendere, chiedo quindi l’assoluzione perché il fatto non sussiste”. La prossima udienza è stata fissata per martedì 8 ottobre Al di là di come andrà il processo e delle ripercussioni a catena che provocherà, resta la considerazione che anche il tempo è “galantuomo” e saprà restituire dignità e onore a chi ha avuto il coraggio di dire la verità.

L’eventuale condanna al maresciallo Masi sarebbe una macchia al vivere civile. E il nostro silenzio sarebbe un’onta.

Patteggia un altro “innocente”: Franco Nicoli Cristiani, ex vicepresidente del consiglio regionale della Lombardia

113339755-26feb395-c54f-499b-9713-34f0002d4740L’ex vicepresidente del consiglio regionale della Lombardia, Franco Nicoli Cristiani, esponente del Pdl all’epoca dei fatti, ha patteggiato a Milano una pena di due anni di reclusione nel procedimento con al centro la presunta tangente da 110mila euro pagata dall’imprenditore bergamasco Pierluca Locatelli per la costruzione della discarica di amianto a Cappella Cantone (Cremona). Il gup Vincenzo Tutinelli ha accolto l’istanza avanzata nelle scorse udienze da Nicoli e da un altro imputato: Giuseppe Rotondaro, ex dirigente dell’Arpa, che ha patteggiato un anno e otto mesi.

Sono stati condannati inoltre a due anni di reclusione altri quattro imputati giudicati con rito abbreviato e accusati di corruzione: Locatelli, la moglie Orietta Rocca Pace e due ex soci dell’imprenditore, i fratelli Antonio e Giovanni Testa. Avrebbero versato la tangente a Nicoli Cristiani, all’epoca esponente del Pdl, e a Rotondaro per ottenere l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) necessaria al via libera al progetto della discarica. Il gup ha disposto inoltre la confisca di circa 200mila euro.

Nella scorsa udienza il pm Paolo Filippini aveva chiesto la condanna a due anni e quattro mesi di reclusione per Locatelli, due anni e otto mesi per i fratelli Testa e un anno e due mesi per la moglie dell’imprenditore. Il gup, che depositerà le motivazioni della sentenza entro i prossimi 90 giorni, ha disposto quindi la confisca di 110mila euro a Nicoli Cristiani, pari al valore della presunta tangente incassata. Altri 100mila euro sono stati confiscati sul valore complessivo dell’area della discarica progettata da Locatelli, attualmente sotto sequestro in seguito alle indagini della magistratura.

“Il ridimensionamento della condanna rispetto alla richiesta del pm è appropriato – ha spiegato il difensore di Locatelli, l’avvocato Roberto Bruni – ma presenteremo ricorso in appello dopo aver letto le motivazioni della sentenza”. Nello stesso procedimento erano imputati, fra gli altri, l’ex presidente della Regione Lombardia e senatore del Nuovo centrodestra Roberto Formigoni e un ex assessore regionale all’Ambiente, Marcello Raimondi, prosciolti con la formula del “non luogo a procedere” assieme agli ex vertici della Compagnia delle opere bergamasca Rossano Breno e Luigi Brambilla.

Il filone del procedimento con al centro le presunte tangenti per oltre un milione di euro versate da Locatelli alla Cdo, su input di Formigoni, per ottenere in cambio delibere favorevoli al progetto della discarica di Cappella Cantone, in cui sono indagati fra gli altri l’ex governatore lombardo e Raimondi, era stato trasferito invece dal tribunale di Milano a quello di Bergamo, dove sarebbero avvenuti gli illeciti contestati.

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Storia di un ragazzo che emigrò da Palermo a Milano. E che protesse, a modo suo, un giovane signore.

Un vecchio articolo (dovrebbe essere del 2008)  che vale la pena non perdere:

Storia di un ragazzo che emigrò da Palermo a Milano. E che protesse, a modo suo, un giovane signore
di ENRICO DEAGLIO

Vittorio Mangano è morto giovane, neanche 60 anni. Ed è morto male. Carcerato da cinque anni, giallo come un limone per un tumore che gli aveva invaso il fegato, aveva 18 litri di acqua nella pancia l’ultima volta che gliela siringarono. All’inizio di luglio dell’anno scorso, viene trasportato dalla sezione di massima sicurezza di Secondigliano a casa, in via Petralia Sottana, Palermo. I funerali hanno seguito un costume in voga tanto a Palermo quanto nel New Jersey quando il defunto è accomunato a Cosa nostra. “Via i fotografi, rispettate il nostro dolore”, intima la famiglia. “Fotografate tutti, con discrezione”, dà ordine il magistrato. Poche persone, abitanti del quartiere, sono intervenute per l’ultimo saluto nella Chiesa di San Gabriele, quartiere Villa Tasca, i luoghi in cui Mangano aveva abitato e in cui, per diversi anni, aveva esercitato il “controllo”.Era il 23 luglio del 2000 e i giornali non diedero tanto spazio alla sua morte. D’accordo, era un boss ed era stato lo “stalliere” di Arcore. Ma non era un super boss, ed era sempre stato un tipo discreto.Non tutti i giornali, a dire il vero. La stampa controllata dal gruppo Berlusconi dedicò a Vittorio Mangano articoli commossi: era morto un martire, torturato dallo Stato con la carcerazione dura, era morto un uomo che aveva rifiutato di “barattare la dignità con la libertà”. Il Giornale, il Foglio, Panorama – tutti ispirati dalla penna del giornalista Lino Jannuzzi – erano concordi: Vittorio Mangano aveva affrontato il carcere con la potente serenità di un eroe risorgimentale. Che cosa chiedevano i suoi torturatori? Che denunciasse, ai magistrati comunisti, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Se l’avesse fatto, sarebbe stato libero e avrebbe potuto curarsi, ma lui non lo fece. Un eroe popolare, come il partigiano musicato nel “Ma mi, ma mi, ma mi quaranta dì, quaranta nott” da Giorgio Strehler. Gli stessi giornali del gruppo Berlusconi facevano notare che, nonostante condanne all’ergastolo per tre omicidi, traffico di stupefacenti, associazione mafiosa, estorsione, Vittorio Mangano non era un condannato definitivo, e quindi, un “presunto innocente”. Mi sono chiesto perché non lo avessero detto prima, ma forse l’avevano detto e mi era sfuggito. Ma, ragionando, mi sembra che la task force berlusconiana abbia avuto ragione nel tributare onori all’uomo d’onore. Vittorio Mangano, se (sotto tortura o sotto promessa) avesse parlato, sarebbe stato in grado di mettere nei guai tanta gente importante. Ma ora la storia era finita. E, come dicono a Palermo, “quando uno muore bisogna pensare ai vivi”. Mi auguro che abbiano pensato alla famiglia Mangano. Tutta questa vicenda è diventata ora, in campagna elettorale, argomento scottante, da quando la Rai ha trasmesso una dimenticata intervista al magistrato di Palermo Paolo Borsellino. L’aveva registrata il giornalista francese Fabrizio Calvi, nell’ambito di un’inchiesta sui “padrini” europei. Era il 1992, Paolo Borsellino appariva rilassato e non aveva difficoltà a parlare diffusamente della mafia, della sua ascesa a Milano, di Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, i primi due all’epoca personaggi sconosciuti al grande pubblico, il terzo invece noto per essere il magnate delle televisioni private. Disse che erano persone che gli erano note dalle segnalazioni di polizia, e su cui era in corso un’indagine a Palermo. Parlava tranquillamente, il magistrato; senza pompa, vestito con una maglietta, raccontava di traffici di droga e della strategia imprenditoriale della mafia siciliana. Non immaginava che due giorni dopo il suo amico Giovanni Falcone sarebbe saltato in aria; che lui ne avrebbe raccolto l’eredità, e che lui stesso sarebbe saltato in aria 50 giorni dopo. E non sapeva neppure, il giudice Paolo Borsellino, che un caro amico di Vittorio Mangano, l’imprenditore Salvatore Sbeglia, stava proprio in quelle ore mettendo a punto il telecomando con il quale sarebbe stato fatto saltare Giovanni Falcone.Nel 1992 Vittorio Mangano, aveva assunto la reggenza della famiglia mafiosa di Porta Nuova – una delle più numerose ed estese di Palermo – e lavorava a pieno ritmo. Un cinquantenne ben vestito e dai modi urbani; non aveva pendenze giudiziarie, poteva circolare liberamente e quindi gli venivano dati anche incarichi di rappresentanza, come il far giungere, attraverso un avvocato di Roma, 200 milioni al giudice Corrado Carnevale. Il suo periodo milanese, i suoi due anni trascorsi a casa di Silvio Berlusconi, gli avevano dato inoltre un certo carisma: Vittorio Mangano era un uomo che aveva conosciuto tante persone importanti. Strana storia. Per cercare di capirla, bisogna tornare indietro nel tempo, alla Milano degli anni Settanta. Anni difficili, per gli imprenditori. Non solo per le vaste agitazioni sociali e la prospettiva di un aumento elettorale del Partito comunista, ma anche per la diffusa violenza che dominava la metropoli. Le Brigate rosse sparavano, l’Anonima sequestri rapiva, la P 2 occupava il Corriere della Sera, la mafia aveva nelle sue mani i più importanti banchieri, Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano e Michele Sindona, il “salvatore della lira”. Cosa nostra era salita da Palermo a Milano in forze, perché a Milano si potevano fare buoni affari. Loro mettevano i loro metodi spicci di gestione, ma soprattutto portavano in dono due merci molto appetibili: il capitale e la protezione. A quei tempi, infatti, Cosa nostra era ricchissima e “liquida”, per il più redditizio commercio che l’Italia abbia mai avuto: acquisto di droga dall’est, raffinazione in Sicilia e spedizione negli Stati Uniti e in Canada. I siciliani avevano praticamente il monopolio del mercato nordamericano e spuntavano profitti da capogiro. I soldi dai cugini americani arrivavano nella forma più classica: assegni, con cifre che andavano da un milione di dollari in su. Non c’erano controlli bancari all’epoca, né la Banca d’Italia trovava curioso che signori che a malapena sapevano fare la propria firma sulla girata incassassero, senza muovere un muscolo della faccia, miliardi. Miliardi che ora avevano voglia di far fruttare. Scelsero Milano, la metropoli più aperta, pragmatica, la città che non respinge nessuno. E non era solo una questione di riciclaggio di denaro: i ragazzi di Cosa Nostra volevano riciclare se stessi. Volevano le belle macchine, volevano entrare in società, volevano essere dei borghesi come tutti gli altri. Era una grande colonia, quella della mafia siciliana a Milano, roba da farci un film, all’americana. La famiglia Grado controllava l’ortomercato e forniva l’eroina per il nascente mercato dei tossicodipendenti. Luciano Liggio organizzava i sequestri di persona dietro la rispettabile veste di commerciante di vino. Tommaso Buscetta si occupava di bische in accordo-scontro con la vecchia mala della città (e ancora oggi si parla di quando Pippo Bono perse un miliardo da Francis Turatello, nella bisca di via Panizza). I fratelli Bono (Alfredo, con una faccia da democristiano per bene, Pippo che girava in Rolls Royce) accumulavano buone amicizie con la finanza milanese e prendevano il controllo dei casinò del conte Borletti. Poi c’erano i Mongiovì, braccio locale della multinazionale della droga Cuntrera-Caruana. I cugini Salvo, i grandi esattori di Salemi, venivano discretamente ad ordinare le prime due Alfa Romeo blindate direttamente dal presidente dell’Alfa Antonio Massacesi. Ma il più appariscente della compagnia era un certo Filippo Alberto Rapisarda che, venuto dal niente della profonda Sicilia, aveva costruito quello che lui chiamava il terzo gruppo immobiliare italiano. Un tipo sanguigno, ben vestito, capace di improvvisi e violentissimi scoppi d’ira, Rapisarda aveva il suo quartier generale in via Chiaravalle, in uno splendido palazzo dagli ampi saloni e dai soffitti affrescati. Lo aveva dotato di telecamere e lo faceva controllare da un buon gruppo di guardaspalle. In via Chiaravalle, Rapisarda concludeva operazioni di borsa, acquisiva storiche aziende del Nord Italia, ma il luogo era anche un indirizzo conosciuto per gente che aveva problemi con la giustizia e che veniva a chiedere se c’era qualche buon affare cui partecipare. Se la sede fisica di Cosa Nostra a Palermo non è stata mai trovata, quella della sua filiale milanese era ben nota alla polizia. (A questo punto, per non dilungarci troppo in nomi e sigle, rimando ad un ottimo lavoro di due giornalisti, Peter Gomez e Leo Sisti che nel 1997 hanno pubblicato, dall’editore Kaos il libro L’intoccabile, Berlusconi e Cosa Nostra. Dove scoprirete, spesso sobbalzando, quante inchieste, quanti chilometri di intercettazioni, quante segnalazioni di reati fossero in atto allora sui nostri potenti di oggi). Ma che c’entrava Silvio Berlusconi – un giovane imprenditore che più milanese non si può – con questo mondo? C’entrava attraverso il suo “segretario particolare” Marcello Dell’Utri, che invece in quel mondo era molto inserito. E così successe che il giovane Berlusconi venne pesantemente minacciato, perché questo era il sistema dei siciliani. Misero una bomba ai suoi uffici, minacciarono di rapirgli il figlio. Una volta, a Palermo queste cose le chiamavano “fucilate di chiaccheria”. Ovvero: tu spari a uno, ma non per colpirlo, solo per fargli sentire il colpo che passa vicino. Lui si spaventa e allora si comincia a “chiacchierare”. Cioè, si diventa soci. In buona sostanza, Dell’Utri si fece garante della sicurezza di Berlusconi e, per rendere la cosa ufficiale, gli mise vicino un “tutore”. Era un ragazzo di Palermo, che lui aveva conosciuto sui campi di calcio. E così Vittorio Mangano prese possesso della villa di Arcore, una prestigiosa magione di 147 stanze che Silvio Berlusconi aveva appena comprato e aveva pagato poco, grazie alle arti del suo avvocato Cesare Previti. Vittorio Mangano, per prendersi cura del padrone, lo seguiva in molte delle sua attività: controllava la villa, curava i cavalli, mangiava a tavola con gli ospiti illustri del giovane imprenditore, si occupava della sicurezza dei figli Marina e Piersilvio. Nella grande villa aveva portato la sua famiglia e ospitava spesso molti suoi amici. Alcune volte questi amici rubavano un quadro, o un pezzo di argenteria. Spesso erano il fiore fiore dei latitanti di Cosa nostra, che ad Arcore evidentemente sapevano di avere un punto di appoggio. E un sera, visto che c’erano, decisero di fare un sequestro di persona di un ospite in villa, che però non riuscì. Così si scoprì che questo Mangano non era proprio uno stinco di santo e che della compagnia dei rapitori faceva parte anche Pietro Vernengo, questo sì un vero boss specializzato in droga. Ci fu un’inchiesta, Mangano venne accusato, ma in realtà non ebbe molti guai. Si trasferì stabilmente in un grande albergo di Milano, il Duca di Milano, fece per un po’ l’autista di Pippo Bono, rimase in buoni rapporti con Marcello Dell’Utri, commerciò droga e infine se ne tornò a Palermo dove, nel suo ambiente, era conosciuto come una persona importante, perché aveva buoni contatti con Silvio Berlusconi e Cosa nostra gli diede la reggenza della famiglia di Porta Nuova. Che, volendo fare un paragone indebito, è un po’ come se gli avessero dato la vicepresidenza della Confindustria.È passato alle cronache come lo “stalliere”, ma Mangano era un servo padrone. Fece bene il suo lavoro, perché Berlusconi non venne più tormentato, ma ancora oggi si possono trovare dei milanesi vecchio stile che ti dicono: “Sì, sarà anche bravo quel Berlusconi, ma non mi piace che abbia fatto allevare i suoi figli da un capo della mafia”. Poi cominciarono a venir fuori altre storie. Quel Filippo Alberto Rapisarda fece bancarotta e se ne scappò latitante. E Marcello Dell’Utri, che, con il suo fratello gemello Alberto era stato suo dipendente, lo seguì nella sua avventura. Storiacce: passaporti falsi, giri brutti, minacce e ricatti. State a sentire questa. Rapisarda se ne stava a Parigi con un passaporto intestato Dell’Utri e faceva una bella vita. Nel 1980 si presenta a lui un sequestratore sardo, tale Giovanni Farina di Tempio Pausania, che aveva rapito un bel po’ di persone ricche (in nome della rivoluzione: il suo riferimento ideologico era Antonio Gramsci) e gli chiede un passaporto perché ha voglia di cambiare vita. Rapisarda glielo procura e Giovanni Farina parte per il Sudamerica con un passaporto intestato a Marcello Moriconi, nato a Gualdo Tadino, provinca di Perugia. Lo prenderà l’attuale vice capo della polizia, Antonio Manganelli. Andrà in galera a Siena, uscirà. E solo l’altro ieri taglierà un pezzo di orecchio all’industriale bresciano Giuseppe Soffiantini.Una bella compagnia, in cui tutti sono amiconi. Ma poi succede che il Rapisarda litiga con Marcello Dell’Utri e si mette a raccontare un sacco di storie. Per esempio: che l’idea della televisione l’ha avuta lui e non il Berlusconi. Che la televisione stessa è stata finanziata da Stefano Bontade (negli anni Settanta il più potente capo mafia di Palermo) e che poi la stessa Cosa nostra ha fornito i miliardi per comprare i diritti dei film americani. In pratica, che Cosa nostra è socia del Biscione. Insieme a lui, qualcosa come 17 “pentiti” palermitani aggiungono dettagli sulle origini e sviluppi di questa curiosa intrapresa palermitana-lombarda. Che, se fosse vera, sarebbe per Cosa nostra il più grande colpo di genio. Ma sarà molto difficile andare a fondo della questione: pezzi di carta non ce ne sono, molta gente nel frattempo è morta, Berlusconi è l’uomo più ricco d’Italia, la sua società è da tempo quotata in Borsa e lui è l’uomo politico più glamour del Paese.La cosa si complica quando Berlusconi “scende in campo”. Si sa che lui era tentennante, ma alla fine venne convinto a “bere l’amaro calice”. Era il 1994 e, come ricorderete, prese un sacco di voti e divenne addirittura presidente del Consiglio. Oggi propone di cambiare la Costituzione, di limitare il potere dei giudici, di abolire il reato di falso in bilancio. Il suo amico Marcello Dell’Utri – che in pochi mesi gli ha costruito Forza Italia – nel frattempo, è diventato un “raffinato bibliofilo”. Nel 1994 sfiorò l’arresto, per mafia. Poi venne eletto deputato. La Procura di Palermo chiese il suo arresto (per mafia), ma il Parlamento ha votato contro. Siede anche all’Europarlamento. Ha avuto una condanna definitiva. Da anni, per difendersi e per spiegare, rilascia un’intervista alla settimana, più o meno. Molti discutono su quale sia la migliore. Per me è quella pubblicata dal Corriere della Sera il 19 giugno 1995. Marcello Dell’Utri usciva da 20 giorni di detenzione nel carcere di Ivrea; era stato arrestato per false fatture della Publitalia di cui era presidente. Ai giornalisti, leggermente allibiti, dichiarò: “Meglio D’Alema che tanti del Polo. Se vogliamo uscire da questa guerra continua che avvelena il Paese, ho la sensazione che D’Alema sia il più disponibile, quello che cerca il dialogo…”.Massimo D’Alema non lo deluse. Presidente della commissione bicamerale per le riforme istituzionali, chiamò a riscrivere la Costituzione proprio un Silvio Berlusconi all’epoca nel pieno di accuse di corruzione. Questi gli chiese solamente di promuovere delle leggi che non lo facessero andare in galera. Un po’ le ha ottenute. Tutte le altre le otterrà se vincerà le prossime elezioni.A conclusione di questa storia, mi sembra di poter dire che i ragazzi di Palermo che sbarcarono a Milano negli anni Settanta hanno sostanzialmente vinto la loro partita. Sono entrati in società, hanno investito i loro quattrini, non hanno trovato particolari resistenze da parte della borghesia del Nord. Pur disponendo di una massa enorme di documenti, nessun partito politico italiano ha mai sollevato il tema. Nessuno ha mai proposto un’inchiesta parlamentare. Così come 30 anni fa la borghesia del Nord accettò l’abbraccio della mafia che, tutto sommato, portava soldi; così oggi nessuno pensa che quello che si è unito si possa separare. Anche perché, a questi siciliani, se gli togli i picciuli, ti mettono le bombe. E l’Italia di oggi non ha voglia di combattere. A dire il vero, un uomo politico che sparò a zero su Berlusconi e la mafia c’è stato. Era Umberto Bossi, appena un anno fa. Oggi è il più fedele alleato di Berlusconi. Così andiamo alle elezioni, con un Berlusconi costretto sempre più ad alzare il tiro, perché i suoi vecchi amici gli tirano la giacchetta: “Silvio, Silvio, ricordati di noi…”, gli dicono. Esattamente come gli dicevano 30 anni fa. Poveracci, Silvio e Marcello: non deve essere stata una bella vita la loro, con tutte le persecuzioni che hanno subito. Non so perché, ma e me Silvio ha sempre dato l’impressione di essere ancora sotto tutela. Spero che la prossima generazione non sia costretta a studiare “giovinezza, opere e martirio di Vittorio Mangano”. Per intanto mi permetto di proporre a Paolo Guzzanti, Lino Jannuzzi, Stefano Zecchi, Vittorio Sgarbi, Tiziana Maiolo, Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Emanuele Macaluso, Vittorio Feltri di organizzare, su di lui, almeno un convegno di studi. In fin dei conti, è l’unico che non ha vinto.

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