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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

‘Ndrangheta in Lombardia: il politico PD

AddisiUn politico e due facce. Quella pubblica e quella della “malavita sbirraglia”. Un politico del Partito democratico. Ancora. Un affare: terreni industriali da comprare e riconvertire in residenziali. Paga la ‘ndrangheta, garantisce il consigliere comunale Calogero Addisi. Garantisce per sé e per i parenti che stanno in Calabria. Incassa voti nel comune di Rho e si fa comandare dal boss Pantaleone Mancuso che lo riceve (è il 2012) nella sua villa in contrada agro di Limbadi. Perché come spiega il collaboratore di giustizia Antonino Belnome “un locale è forte quando ha le sue radici in Calabria, il nord non conta niente senza la Calabria”.

Insomma, tradizione e affari. Da Vibo Valentia all’hinterland milanese. Spartito semplice: Addisi fiuta l’affare, media con la cosca e passa la palla all’imprenditore. Sul tavolo lui mette la promessa: “In Comune ci penso io”. Ma niente telefono perché “così mi arrestano”. Addisi conosce i rischi, eppure ci mette parola e contatti. Quelli di Antonio Galati, emissario lombardo dei Mancuso, “mafioso” dicono le intercettazioni, ricco anche, capace di buttare sul tavolo 300mila euro per il business. Il filo della storia è questo. C’è il politico a catena (della mafia): “Ma se gli ho detto, non ci sono problemi a Rho … ve li risolvo io”. Che disegna speculazioni edilizie. E c’è il politico (sempre lo stesso) che parla in pubblico davanti al consiglio comunale. E dice: “Con questo P.G.T. abbiamo cercato di ridisegnare la città, preservandola dalle brutture, dagli scempi maligni e dal consumo dissennato del territorio. Un risultato storico. Una medaglia per tutta l’amministrazione. Una nuova rivoluzione culturale insomma”. E poi c’è il giudice per le indagini preliminari che per Addisi dispone l’arresto. Sul punto scrive: “Addisi mente in quanto è ben consapevole non solo di avere interesse nel Pgt, ma anche del fatto che un’area, interessata dal Pgt, è stata acquistata con il denaro della ‘ndrangheta”. Benvenuti in Lombardia. Benvenuti nell’ultima storia di mafia, armi e politica. Perché questo racconta l’ordinanza di 800 pagine firmata dal giudice Alfonsa Maria Ferraro e che poche ore fa ha portato in carcere 13 persone accusate, a vario titolo, di associazione ‘ndranghetista, riciclaggio e abuso d’ufficio aggravato dal metodo mafioso. Accusa, l’ultima, che tocca all’ex consigliere comunale Calogero Addisi, parente dei Mancuso e già citato (ma non indagato) nell’indagine che nel 2012 ha portato in carcere l’allora assessore regionale alla Casa Mimmo Zambetti.

L’operazione “Quadrifoglio” coordinata dal pm Paolo Storari e dal Ros di Milano, comandato dal colonnello Giovanni Sozzo, fotografa il presente criminale nella regione più ricca d’Italia. Fotografa l’affare sul terreno di Lucernate di Rho. In sintesi: Galati, la ‘ndrangheta, secondo l’accusa, ci mette il denaro, ottenendo come contropartita il cambio di destinazione per rivalutare il terreno. Non solo. Accatastando intercettazioni e filmati, l’inchiesta mostra il controllo del territorio dei clan lombardi, la loro violenza palesa, la capacità, infine, di mettersi in tasca politici, funzionari pubblici, uomini d’affari, guardie penitenziarie, commercialisti. Professionisti, insomma. Tutti a disposizione. E’ il capitale sociale della ‘ndrangheta. Che ha permesso ai boss d’infiltrarsi nei subappalti di Expo 2015, attraverso una società riconducibile al fratello carcerato di Antonio Galati. Borghesia mafiosa mixata all’ala militare. Quella, ragionano magistrati e investigatori, che fa capo ad Antonio Galati.

Questa è la ‘ndrangheta che nella Lombardia dell’Expo si spartisce il territorio con regole e leggi proprie. Antistato che si fa Stato. Della partita è anche Salvatore Muscatello, boss ultraottantenne, eminenza grigia della ‘ndrangheta lombarda, protagonista dei maxi blitz degli anni Novanta (La Notte dei fiori di San Vito). Poi capo della locale di Mariano Comense nell’operazione Infinito del 2010, arrestato, condannato, messo ai domiciliari. E ora, tra il 2012 a questa mattina, capo dello stato mafioso lombardo, riverito e pagato. Nel suo bunker andavano tutti. Il nipote di Giuseppe Morabito, alias u tiradrittu, la moglie del boss di Vigevano, Fortunato Valle (“Quello – dice Muscatello- mi lavava i piedi”). Ci va Emilio Pizzinga, politico locale a caccia di voti, e padre di Francesco, finito in galera nel 2006 perché trafficava droga con la ‘ndrangheta di Africo. Pizzinga incontra Muscatello nel gennaio 2014. Il comune di Mariano Comense è appena stato commissariato dopo che 11 consiglieri hanno tolto la fiducia. A maggio ci saranno le elezioni. Pizzinga cerca voti e sa dove andare. Dice al boss: “Vedete se mi trovate preferenza! Se no, non si fa più niente dopo!”. E ancora: “A me hanno dato in mano il partito”. Il boss chiede: “Quale partito?”. Pizzinga risponde: “Forza Italia!”.

Par condicio rispettata, dunque. Pd e Pdl. La ‘ndrangheta non fa differenza. E se Pizzinga chiede voti, Addisi garantisce. Ma quando le cose vanno per le lunghe e la delibera non conferma la speculazione, il boss (Antonio Galati) rivuole i soldi e minaccia: “Ancora ci sono 300.000 euro in ballo, ora piano piano li prendo (…). Io ad Addisi glielo ho detto: stai attento a quello che facciamo qua, che io ti lego per il collo, ti metto alla macchina e ti porto in giro!”. Perché il legame (mafioso) non si scioglie e col tempo (breve) il cappio si stringe. Addisi lo capisce: “Tu e l’altro mi avete rovinato la vita (…), ho subito umiliazioni da tutte le parti, ero un grande uomo e mi avete rovinato la vita, e non sto parlando dei soldi miei, devo fare da garante dei soldi degli altri (…) io non so fino a quando riesco a tenere la cosa (…) perché so che succederà qualcosa di grave, lo sento, succederà qualcosa, mi ho rovinato la mia vita per non avere commesso mai un cazzo … “.

I timori di Addisi, che, secondo l’accusa, bene conosce le dinamiche mafiose, non spaventano Franco Monzini, imprenditore lombardo coinvolto nell’affare. Monzini conosce Galati grazie ad Addisi. Ben presto capisce chi è Galati: “Un mafioso”. Da ammirare addirittura. Intercettato Monzin confida: “La mafia se vede che una cosa funziona i soldi ce li mette, non diciamo cazzate, magari fa altre cose, per carità! Che conosco anche! Però se una cosa è una cosa seria la vede il mafioso come la vedo io, uguale, uguale anzi magari lui ha più mezzi e non deve andare in banca a piangere perché ci mette i suoi … “. Vero. Ma solo a metà. Spiega Addisi: “Conoscete una faccia di Antonio che non è quella vera (…) ti incapretta! tu credimi, ti incapretta e prima di farti fuori si diverte un po’, ma molto!”.

La violenza garantisce politica e affari. E’ così, scrive il giudice, che “si costituisce il collante del sodalizio atteso che la sua forza intimidatrice si è potuta estrinsecare anche in virtù di detti rapporti i quali hanno certamente cementificato i rapporti tra i sodali”. La storia cambia la maschera. Adesso è pura violenza mafiosa. Racconta Galati: “Lo sgabello era di ferro! Tutte le costole (…) gli ha spaccato tutto il naso, quel sangue ha sporcato pure noi, io avevo le scarpe piene di sangue (…) schizzava a tre punte, poi è caduto per terra (…) gli abbiamo rotto le bottiglie, sgabelli nei fianchi (…) io le scarpe le ho sporcate perché l’abbiamo picchiato in testa”. E ancora: “Mannaggia l’ostia quante palate a quello! Picchiavamo tutti e tre lì terra (…) Gliele abbiamo rotte, braccia (…) la prima botta che mi ricordo, che gli ho dato, alzò la mano per pararsi così (…) aveva un orologio al braccio di 30.000 euro e gli volò per aria”.

Succede in Lombardia. A Giussano, ad esempio, quando Fortunato Galati, sorvegliato speciale, non si ferma a un posto di blocco della polizia Municipale. Succede, come è normale, che il vigile Luigi Galanti segnali la cosa, che il fatto finisca sul tavolo del tribunale di Sorveglianza di Milano e che Galati, per questo, torni in carcere. Ma succede anche che ignoti diano fuoco all’auto del vigile con una molotov. Le intercettazioni chiudano il cerchio. Galati in carcere a colloquio con un amico. Dice il secondo: “L’altro giorno l’ha incontrato nel parcheggio. Dice che lo guardava al vigile e faceva finta di mettere la mano qua dentro”. Annotano i carabinieri: “Contestualmente con la mano destra mima di prendere qualcosa dall’interno della giacca all’altezza del petto, lato sinistro”. E che succede se Fortunato Galati, chiede e non ottiene il trasferimento dal carcere di Monza a un altro Calabria? Il pizzino al colloquio dice tutto. “Pitaniello Maria Casa Circondariale Monza”. E’ la direttrice del carcere. Per lei la ‘ndrangheta lombarda riserva una busta con tre proiettili 9X21. Benvenuti in Lombardia: 14 arresti. Oggi vince lo Stato. Perde la ‘ndrangheta.

Lombardia: chiedendo voti a casa del boss

ndrangheta-arresti-6751C’è chi chiede un aiuto per i familiari in carcere. Chi è in cerca di voti per farsi eleggere. E chi ha bisogno di una mano per mettere un freno a quelli che non conoscono più “le regole dei calabresi”. Salvatore Muscatello, invece, quelle regole le conosce bene. Da sempre. E per questo, l’ormai ottantenne capo locale di Mariano Comense (Como) non si sottrae mai alle richieste che gli vengono avanzate da parenti di boss dietro le sbarre, imprenditori in difficoltà e politici amici. Favori che servono a rimarcare il suo pieno potere sul territorio e a rafforzare il suo prestigio criminale. Perché Salvatore Muscatello non è solo un pezzo da novanta della ‘ndrangheta lombarda. Ma uno dei suoi “grandi vecchi”, come lo definiscono i giudici. Nonostante la sua famiglia sia stata colpita a luglio da un’importante indagine, lui rimane l’anello di congiunzione tra le ‘ndrine calabresi a quelle del nord. Un ruolo che l’età e le inchieste non hanno indebolito. Come emerge dall’operazione “Quadrifoglio”, condotta dai carabinieri del Ros di Milano e coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini contro la cosca Galati, che poche ore fa ha portato in carcere 14 persone. L’ultima istantanea scattata alla ‘ndrangheta nella Lombardia che corre verso Expo.

Un fermo immagine. Dove si distinguono nettamente i tratti di una criminalità che punta a nuovi affari, senza per questo rinunciare alle sue vecchie tradizioni. Come testimonia quel continuo via vai nel fortino  a due piani di via Al Pollirolo 5, dove Muscatello abita con la moglie e i figli. E dove da novembre 2012 è costretto agli arresti domiciliari, arrivati dopo la condanna a 17 anni nata dall’inchiesta “Infinito”. A fargli visita sono i rappresentanti delle famiglie di ‘ndrangheta più blasonate. Come Nadia Scognamiglio, moglie di Fortunato Valle, dei Valle Lampada. La cosca originaria di Reggio Calabria ma radicata a Vigevano, legata ai potenti De Stefano. La donna va a trovare Muscatello il 6 settembre 2013. Gli racconta del colloquio avuto in carcere con il cognato Antonio Domenico Spagnuolo. E’ preoccupata. Teme la confisca dei beni. E ha paura che suo marito venga trasferito dal carcere milanese di Opera a quello di Viterbo che comporterebbe più spese e più scomodità. La Scognamiglio torna a ottobre. E’ sempre più tesa. Perché adesso, a gravare, c’è anche una cartella esattoriale di Equitalia da 8mila euro. A fine chiacchierata, allora, Muscatello le dà dei soldi. La donna cerca di rifiutare: “Ma non voglio niente! Io voglio che state bene”. Inutile. Il boss ha deciso e taglia corto: “Ecco… ma lo voglio io”. Quando la Scognamiglio esce di casa, il patriarca spiega al nipote Stjven il motivo di quel generoso regalo: “E’ una persona che se la chiamo viene subito, ed io la ringrazio! Oh, il marito mi lavava pure i piedi”.

Un’altra ambasciatrice di tutto rispetto che arriva in casa di Muscatello è Patrizia Morabito nipote di Giuseppe Morabito, detto u tiradrittu, re di Africo, latitante per 12 anni e catturato nel 2004. Le microspie e le telecamere dei carabinieri catturano la donna mentre varca la soglia di via Al Pollirolo per due volte. L’ultima il 26 ottobre 2013. Anche lei è preoccupata per la situazione dei parenti detenuti. E anche per lei la famiglia Muscatello si dà un gran daffare per alleviare le tante spese. Con piccoli gesti. Ad esempio facendole riparare gratuitamente l’auto da un uomo a disposizione della cosca. Che viene redarguito perché inizialmente ha fatto pagare il lavoro alla Morabito.

Perché quello dell’aiuto ai parenti dei carcerati è un caposaldo inviolabile. I Muscatello lo offrono anche alle famiglie non direttamente legate alla loro locale. E lo pretendono quando sono loro ad averne bisogno. I conti vanno regolati. I debitori hanno l’obbligo di pagare. Sempre. Anche se i boss sono momentaneamente in cella. Lo spiega bene al padre Salvatore, Domenico: “Poi è successo che ci hanno arrestati … hai capito? Uno ha impegni per fatti suoi, quell’altro si guarda i fatti suoi ed hanno … ognuno ha paura … dice ‘devo vedere altre situazioni’ e si lascia andare, si lascia andare, si lascia andare e quelli prendono gamba, quando prendono gamba dicono ‘tanto questi qua ora non fanno più niente’”. Ne sanno qualcosa due fratelli titolari di una ditta di giardinaggio. Colpevoli, secondo i mammasantissima, di non aver aiutato la famiglia durante la carcerazione di Domenico Muscatello, e in debito di 700mila euro. Un debito che secondo i due è stato causato da un loro parente. Che viene convocato in casa dai Muscatello e pestato, davanti a donna Rosina, moglie di Salvatore, che scoppia in lacrime.

Ma ci sono altri imprenditori che fanno visita al capo locale di Mariano Comense per chiedere di vendicare i torti subiti. Come Francesco Defina (non indagato), attivo nella vendita di autoveicoli e ricambi, che si presenta al boss Salvatore nel luglio 2013. Spiega di aver ricevuto delle intimidazioni a scopo estorsivo. Colpi di pistola contro uno dei suoi negozi. Precisa che non andrà mai dai carabinieri a denunciare. Si lamenta dei cambiamenti generazionali all’interno della ‘ndrangheta che lasciano spazio ai “pisciaturi”, gli inesperti, che non conoscono le “regole dei calabresi”. Salvatore Muscatello individua e manda i suoi emissari a parlare con chi aveva infastidito l’imprenditore. Il messaggio è chiaro. E viene recepito con tanto di scuse.

In casa del boss vengono a portare i propri onori anche i politici. Emilio Pizzinga, che non risulta indagato nell’operazione di oggi, è uno di questi. Suo figlio Francesco è in carcere dal 2006 per l’inchiesta sull’Ortomercato, che portò alla luce i traffici di droga imbastiti con la ‘ndrangheta di Africo. Il politico locale, membro della Commissione Urbanistica di Mariano Comense, incontra Muscatello nel gennaio 2014. Alla guida del Comune è appena arrivato un commissario prefettizio, dopo che 11 consiglieri hanno tolto la fiducia. Le elezioni di maggio sono dietro l’angolo. Pizzinga è a caccia di voti. Bussa alla porta del boss: “Vedete se mi trovate preferenza! Se no, non si fa più niente dopo!”. Sottolinea: “A me hanno dato in mano il partito”. “Quale partito?”, domanda il capo locale. Il politico risponde: “Forza Italia!”.

Eccola la corte del boss Salvatore Muscatello. Ecco i legami dell’uomo che per una vita è stato al vertice della ‘ndrangheta in Lombardia. Come emerge dall’operazione “La notte dei fiori di San Vito” del ’97 e  l’inchiesta “Infinito” del 2010. O come dimostra la sua presenza al matrimonio del 2009 tra Elisa Pelle, figlia di Giuseppe, detto “Gambazza”, e Giuseppe Barbaro, figlio del defunto Pasquale. Fu dato proprio a Muscatello il compito di distribuire gli inviti tra gli affiliati della locale La Lombardia. Perché in quel giorno non si celebravano soltanto le nozze dei rampolli di due tra le più importanti famiglie di mammasantissima. Ma si conferivano anche le nuove cariche del Crimine, l’organo di governo della ‘ndrangheta. Oggi nuovamente indebolita. Ma non ancora sconfitta.

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In Lombardia mafia con il certificato antimafia

C’è anche un appalto della Tangenziale esterna est Milano (Teem), grande opera connessa a Expo2015, nell’inchiesta sulla ‘ndrangheta in Lombardia che oggi ha portato all’arresto di 13 persone, compreso un ex consigliere comunale del Pd di Rho, la città alle porte di Milano sul cui territorio sorgono i cantieri dell’Esposizione universale. Una società riferibile a Giuseppe Galati, uno dei presunti boss ammanettati dal Ros dei carabinieri, avrebbe acquisito lavori nell’appalto. Si tratta della Skavedil, un’impresa che “ha avuto la certificazione antimafia” per lavorare in due subappalti del valore di “450mila euro”, ha spiegato il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, nel corso della conferenza stampa alla quale hanno partecipato i vertici dei carabinieri di Milano e il capo del Ros, il generale Mario Parente.

Boccassini ha spiegato che l’impresa è riuscita ad ottenere la certificazione “ordinando che le sue quote nella società passassero ai suoi cognati”. L’impresa ha così ottenuto da una azienda di Modena, appaltante per l’opera, due subappalti. Secondo Boccassini, è difficile pensare che “poteva non sapere a chi si davano quei subappalti”. Il procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati, ha chiarito “ci sarà una segnalazione alla Prefettura che ha già svolto un lavoro imponente per l’Expo”.

Giuseppe Galati, già detenuto per traffico di stupefacenti, nipote dell’indagato Antonio Galati, avrebbe “continuato a gestire dal carcere, attraverso alcuni familiari, due società operanti nel settore edile, titolari tra l’altro di alcuni subappalti in alcuni cantieri della Teem”, si legge in una nota degli inquirenti. Nel procedimento, Giuseppe Galati è indagato per i reati di partecipazione ad associazione mafiosa, importazione e detenzione abusiva di armi da fuoco.

Dopo l’operazione Infinito del 2010, la più grande di sempre ‘ndrangheta in Lombardia, “nulla cambia, è una riflessione da fare”, ha commentato Boccassini. Riguardo all’operazione di questa mattina, coordinata dai pm Paolo Storari e Francesca Cellesi, si tratta di “un segmento di notevole importanza perché conferma quanto sancito dalla Cassazione con Infinito” e cioè dell’”esistenza in Lombardia delle locali (le articolazion i territoriali della mafia calabrese, ndr)” le quali hanno “autonomia nella nostra regione con un controllo capillare e pesante del territorio”. E quando l’organizzazione è in pericolo, “reagisce con una violenza inaudita”, ha spiegato il magistrato antimafia. Per uscire dall’associazione mafiosa ci sono due modi, “o con la morte o diventi collaboratore e ti dai allo Stato”.

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‘Ndrangheta in Lombardia: ecco i (nuovi) nomi

Sono due i provvedimenti restrittivi eseguiti in Calabria nell’ambito dell’inchiesta che ha portato a 13 arresti su richiesta della Procura distrettuale antimafia di Milano nei confronti di altrettanti indagati per associazione di tipo mafioso. Antonio Denami, 34 anni, è stato arrestato a San Costantino, nel vibonese. L’uomo è ritenuto essere in contatto con la famiglia Galati, originaria del vibonese ma da tempo stanziata a Como, considerata espressione in Lombardia della cosca dei Mancuso, operante nella provincia di Vibo. E’ accusato di associazione per delinquere semplice, porto abusivo di armi, minacce e danneggiamenti.
Il secondo provvedimento è stato notificato ad un altro vibonese, attualmente detenuto nel carcere di Reggio Calabria per esigenze processuali e già arrestato nell’ambito dell’operazione Infinito coordinata dalla Dda di Milano.

Nell’indagine “Quadrifoglio” sono coinvolti anche altri calabresi, residenti in Lombardia.

Al centro dell’indagine, diretta dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, ci sarebbero due sodalizi della ‘ndrangheta radicati nel comasco “con diffuse infiltrazioni nel tessuto economico lombardo. Accertati, tra l’altro, gli interessi delle cosche in speculazioni immobiliari e in subappalti di grandi opere connesse ad Expo 2015”. Un gruppo facente capo alla famiglia Galati, radicato nel comune di Cabiate (Como), ritenuto dagli inquirenti espressione in Lombardia della cosca Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia); e la locale di ‘ndrangheta di Mariano Comense (Como), guidata da Salvatore Muscatello, nonostante egli si trovasse agli arresti domiciliari, per la condanna recentemente riportata nel processo “Infinito”.

Tra i tredici indagati arrestati oggi nell’ambito dell’inchiesta “Quadrifoglio” figura un ex consigliere comunale di Rho. Si tratta di Luigi Calogero Addisi, 55 anni, originario di San Calogero (VV), residente a Rho (MI), eletto con il PD alle amministrative nel 2011 e anche parente della famiglia Mancuso che si era dimesso nei mesi scorsi, dopo che il suo nome era già emerso nell’inchiesta della primavera scorsa sulla presenza della ‘ndrangheta a Lecco e nella zona del lago di Como.
Gli altri arrestati sono: Fortunato Bartone, 41 anni, originario di Mileto (VV), residente a Giussano (MB); Antonio Denami, 25 anni, originario di Vibo Valentia, già agli arresti domiciliari per estorsione, Antonio Galati, 62 anni, originario di Mileto (VV), residente a Cabiate (CO), ritenuto alla guida dell’associazione mafiosa e proiezione in Lombardia della cosca Mancuso di Limbadi; Fortunato Galati, 36 anni, originario di Vibo Valentia, già detenuto per omicidio; Giuseppe Galati, 43 anni, originario di Castellana Sicula (PA), già detenuto per traffico di stupefacenti; Giuseppe Galati, 35enne figlio del presunto boss Antonio Galati, originario di Vibo Valentia, residente a Cabiate (CO), imprenditore nel settore dei compro-oro; Franco Monzini, 65 anni, originario di San Benedetto Po (MN), residente a Milano, imprenditore edile, protagonista di un investimento immobiliare in società occulta con Antonio Galati, insieme agli indagati Addisi e Vellone; Salvatore Muscatello, 80 anni, originario di Amato (Cz), già agli arresti domiciliari perché condannato per associazione mafiosa a seguito del processo “Infinito” quale capo della locale di ‘ndrangheta di Mariano Comense (CO); Alberto Pititto, 39 anni, originario di Vibo Valentia, commerciante di automobili a Mariano Comense e Cantù, ritenuto un referente della famiglia Muscatello; Matteo Rombolà, 27 anni, originario di Seregno (MB), titolare di un panificio a Mariano Comense, cognato del detenuto Fortunato Galati; Saverio Sorrentino, 53 anni, originario di Francica (VV), e ritenuto “braccio destro” di Antonio Galati; Luigi Vellone, 54 anni, originario di Serra San Bruno (VV), residente a Gessate (MI), imprenditore in diversi settori, protagonista di un investimento immobiliare in società occulta con Antonio Galati, insieme agli indagati Addisi e Monzini.

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Mi sono sentito sempre libero. Parola di Riina.

Schermata 2014-10-28 alle 10.57.36«A Montecassino io ci sono andato. Ci ho fatto il viaggio di nozze, ci ho portato a mia moglie. Una volta che ero libero, ho detto: ora ci vado… Poi sono salito verso Venezia. Io la vita l’ho presa così, mi sono sentito sempre libero». Ride Totò Riina passeggiando nel cortile del carcere di Opera insieme al suo compagno d’aria Alberto Lo Russo. Ride e, oltre a dire la sua su tutta la storia d’Italia dal Dopoguerra ad oggi, per la prima volta racconta anche la sua vita da latitante, quei 24 anni in cui il capo di Cosa nostra ha vissuto più o meno indisturbato non troppo lontano dalla sua Corleone, sposandosi, facendo tre figli, ordinando stragi e omicidi, stringendo patti con la politica e (forse) con gli apparati deviati delle istituzioni.

Niente a che vedere con la latitanza “povera” di Bernardo Provenzano, sorpreso in un casolare con ricotta e cicoria. Il Riina latitante che si racconta a Lo Russo è un uomo che si vanta di aver sempre beffato lo Stato camminando «in mezzo alla gente», di aver sempre mandato i suoi figli a scuola, di aver vissuto in eleganti appartamenti blindati e ville con piscina e di avere anche viaggiato, «senza rinunciare neanche un’estate ad andare a mare». «Come un uomo libero – dice a Lo Russo – oggi a Montecassino, domani a Caserta, domani là vicino Napoli, ma giravo, camminavo a Venezia. Ora tutte queste cose è uno sfottimento allo Stato… Io non ho voluto fare patti con la legge, ventiquattro anni, sono arrivato a ventiquattro anni e sei mesi. E vedi che loro mi cercavano notte e giorno. Non si potevano raccapezzare dov’ero… in questi posti dice che non c’ero perché ci vanno i turisti».

Il 16 aprile 1974 è il giorno delle nozze di Totò Riina. Lui è latitante già da cinque anni, lei è una bella ragazza ventenne di Corleone che avrebbe voluto fare la maestra. «Quando eravamo fidanzati seguivano a Ninetta pensando che quando si allontanava da Corleone veniva da me e invece ero io che andavo a casa sua». Ninetta, sorella di Leoluca Bagarella, decide di seguire Totò nella latitanza. I due vengono sposati da don Antonio Coppola in clandestinità in una villa tra Capaci e Carini, C’è Bernardo Provenzano e c’è anche Luciano Liggio che, nonostante sia latitante, non intende perdere l’occasione.

«A un dato momento mi sono sposato – racconta Riina a Lo Russo – e me ne sono andato in un hotel a mare. A padre Coppola non gli hanno potuto fare niente perché uno non è tenuto a sapere se sposa un latitante ». «Quando ci siamo sposati logicamente abbiamo organizzato il viaggio di nozze, quindi siamo andati dalle parti di Napoli e siamo rimasti una settimana, siamo andati a Montecassino, poi siamo andati a Venezia e siamo rimasti tre, quattro giorni. Poi quando è trascorso circa un mese siamo tornati a Palermo. Già avevo la casa, mia madre mi aveva comprato un appartamento con sette stanze a Palermo, tutto ammobiliato. Poi mi sono dovuto allontanare perché lo sapevano parecchi».

Ed eccoli i luoghi della latitanza di Totò Riina, tutti attorno al suo regno di Corleone. Prima a Mazara del Vallo, poi a Castelvetrano e a San Giuseppe Jato, sempre senza lesinarsi vacanze, ville, e affari: imprese, magazzini, cantine sui quali adesso la Procura di Palermo intende mettere le mani. «Poi me ne sono andato dalle parti di Mazara, sono rimasto molto tempo a Mazara, eravamo in estate, a Mazara avevo la villa, avevo tutte cose, un appartamento… io dappertutto avevo… a Castelvetrano, ad esempio, avevo un appartamento, un fabbricato di lusso, ognuno che arrivava diceva: minchia qua è un paradiso.

A San Giuseppe Jato ci facevo la vita. Ho pure lavorato con Binnu, ho fatto uno stabilimento, ho fatto sopra una casa di lusso, tutta corazzata, sotto c’erano due cantine. Io in questa casa ci stavo solo quando si andava a fare la fermentazione, quando facevano la vendemmia me ne andavo là, prendevo soldini buoni, quaranta milioni l’anno guadagnavo da là. Poi mi sono messo in società con uno di là che mi vendeva il vino ».

Il Riina latitante, negli anni in cui le strade di Palermo sono segnate dalla mattanza dell’ascesa dei Corleonesi, è uno che fa la bella vita a differenza di Provenzano. «Dire a Binnu, “ma perché non fai la bella vita”? Non gliel’ho mai detto perché mi pareva mortificante, umiliante». In latitanza Ninetta e Totò mettono al mondo quattro figli, Giovanni, Giuseppe, Concetta e Lucia. «Gira, gira, ventiquattro anni e mezzo e la stessa vita l’hanno fatta fare a mia moglie e ai miei figli, perché poi questi picciriddi dovevano studiare, io li mandavo a scuola, sempre a scuola li mandavo. Poi a scuola non ci sono potuti andare più e quindi abbiamo capito che la vita era questa e dovevamo affrontarla per quello che era».

Quando andava a scuola, però, Maria Concetta era la più brava della classe. Per il resto i piccoli Riina vivevano mimetizzati tra la gente, come tutti i ragazzi della loro età. Dal padre ricevevano la paghetta per andare a mangiare la pizza o per il campo di calcetto. «Durante la latitanza si sono creati le loro amicizie». Una sola avvertenza, niente compagni nel bel residence di via Bernini, nella villa con piscina dove Totò e famiglia abitavano nel ’93 quando Balduccio Di maggio indicò al Ros dove andare a prendere il capo di Cosa nostra.

«Non se li dovevano portare dentro. Se ne andavano fuori a giocare, frequentavano il bar, prendevano il caffè, una vita normale… quasi come spavaldi, cose da non credere. Poi gli ho fatto la piscina là dentro, cento milioni, allora i soldi c’erano». Ma dove sono ora i soldi di Totò Riina? È nel suo lunghissimo sproloquio con Alberto Lo Russo nell’ora d’aria che i pm del pool misure patrimoniali della procura di Palermo cercheranno le tracce del suo tesoro nascosto. È lo stesso Riina a dire: «I miei figli li ho fatti ricchi».

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Calcedonio Di Giovanni: Cosa Nostra esportata a San Marino

Sequestrati beni per mezzo miliardo di euro all’imprenditore monrealese Calcedonio Di Giovanni, la sua scalata al successo grazie alla mafia.Operazione della Dia di Palermo e Trapani: tra i beni sequestrati, centinaia di villette del villaggio Kartibubbo

Il suo successo sarebbe stato legato “indissolubilmente intrecciato con i destini delle famiglie mafiose di Mazara del Vallo”. La sezione misure di prevenzione del Tribunale di Trapani accoglie la proposta della Dia di Palermo e Trapani e mette sotto sequestro l’impero economico dell’imprenditore monrealese Calcedonio Di Giovanni: un valore strabiliante di 500 milioni di euro. Tra questi, ci sono anche un centinaio di case nel villaggio vacanze Kartibubbo a Campobello di Mazara. Ed è proprio a Kartibubbo che, secondo l’accusa, sarebbe emerso “il collegamento di Di Giovanni con uno dei principali artefici del riciclaggio internazionale, ossia Vito Roberto Palazzolo”.  (…)

Di Giovanni, viene descritto come “imprenditore spregiudicato” entrato in affari anche con mafiosi di Castelvetrano, ad esempio Filippo Guttadauro, cognato di Matteo Messina Denaro, e in contatto con Pino Mandalari, il commercialista di Totò Riina.

(…) Per tracciare la presunta pericolosità sociale di Di Giovanni gli uomini della Dia raccontano il suo recente tentativo di sottrarre il patrimonio alla scure delle misure di prevenzione. Quattro mesi fa, nel giugno 2014, avrebbe costituito in Inghilterra la società “Titano real estate limited” che si occupa di gestione di villaggi turistici con domicilio fiscale italiano nel villaggio Kartibubbo. L’amministratore della società, un mazarese, il mese scorso ha aumentato il capitale. Si è passati dagli originari 100 euro agli 11 milioni di euro versati dal socio “Compagnia immobiliare del Titano” con sede a San Marino. I soldi riguardano il ramo di azienda costituito da un centinaio di immobili nel villaggio turistico. Una manovra organizzata da Di Giovanni, sostiene l’accusa, per evitare il sequestro e mantenere saldo in mano il potere.

Ed invece il sequestro si è abbattuto sul patrimonio che comprende decine e decine di terreni e case in provincia di Trapani e Palermo. E una sfilza di società: “Titano real estate limited, “Compagnia immobiliare del Titano”, Il Cormorano, Fimmco, “Campobello park corporation, “Immobiliare La Mantide”, “Associazione orchidea club, “Selinunte country beach, alcune quote del “Selene residence” di Campobello di Mazara, “Parco di Cusa vita e vacanze, Dental house, Numidia srl. (…)

Buongiorno (solita) Lombardia

Tredici arresti in Lombardia e Calabria con l’accusa di associazione mafiosa in una inchiesta della Procura distrettuale antimafia di Milano diretta dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini.Gli arresti sono stati eseguiti nelle province di Milano, Como, Monza-Brianza, Vibo Valentia e Reggio Calabria.

I 13 arrestati sono accusati di associazione di tipo mafioso, detenzione e porto abusivo di armi, intestazione fittizia di beni, reimpiego di denaro di provenienza illecita, abuso d’ufficio, favoreggiamento, minacce e danneggiamento mediante incendio.

Al centro delle indagini del Ros dei carabinieri due gruppi della ‘ndrangheta radicati nel Comasco, con infiltrazioni nel tessuto economico lombardo. Accertati, secondo le indagini, gli interessi delle cosche in speculazioni immobiliari e in subappalti di grandi opere connesse ad Expo 2015.

Gli arrestati nell’operazione portata a termine dai carabinieri, secondo quanto si è saputo, avevano contatti con esponenti del mondo politico, istituzionale, imprenditoriale e bancario da cui ottenevano vantaggi, notizie riservate e finanziamenti.

In particolare avevano rapporti con un agente di polizia penitenziaria, un funzionario dell’Agenzia delle Entrate, un imprenditore immobiliare, attivo anche nel mondo bancario e con dei consiglieri comunali di comuni nel Milanese.

(Ansa)

“Brigada”: a Torino la mafia si fa rumena

Prima condanna al 416bis per una gang rumena, con riti di affiliazione e gerarchie:

Controllavano la prostituzione, i traffici di droga, racket, bancomat clonati e non solo. Imponevano con la forza i loro buttafuori nelle discoteche dei rumeni, così da controllarne le attività e ottenere parte dei loro ricavi. Altri locali erano obbligati a ingaggiare i loro cantanti, da cui ottenevano una parte dei compensi. Erano queste le principali attività della “Brigada”, organizzazione mafiosa rumena smantellata a Torino nel giugno 2013. Stamattina nell’aula bunker di Torino il gup Luisa Ferracane ha condannato quattordici appartenenti alla “Brigada” con pene dai cinque ai 15 anni di carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione, spaccio, sfruttamento della prostituzione, lesioni e un tentato omicidio. Si tratta della prima condanna per 416 bis nei confronti di un’organizzazione criminale proveniente dalla Romania. La pena più alta è andata a Eugen Gheorghe Paun, detto Coco, 34 anni, ritenuto il capo della “Brigada” dal 2011.

L’inchiesta. L’indagine è stata condotta dalla Squadra mobile di Torino, guidata dal vicequestore Luigi Silipo e coordinata dai sostituti procuratori della Dda di Torino Monica Abbatecola e Paolo Toso. Gli investigatori, che indagavano sul racket dei buttafuori, sono stati aiutati dalla collaborazione di un pentito, S.V.L., spaventato dalla violenza dei connazionali, con cui era in attività: “Ho timore che poi scattino delle ritorsioni verso mio figlio o verso altri miei cari”. Ha così raccontato l’evoluzione criminale del primo boss, Viorel Oarza, che dopo aver fatto il buttafuori, si è dato al contrabbando di sigarette, allo sfruttamento della prostituzione e alle rapine dei Tir intrecciando legami con la famiglia mafiosa dei Corduneanu, potente clan della regione moldava. Ha continuato a guidare il gruppo fino al 2011, grazie alla mediazione della moglie e alla complicità di una suora che gli aveva portato un telefono in carcere.

Il racket di buttafuori e cantanti. Bastava creare un po’ di scompiglio nei locali per imporre la propria “security”. Uno sguardo di troppo, qualche insulto e parte la rissa che i buttafuori presenti non possono controllare. Poi, con calma, si passa a proporre l’affare con nuovi gorilla, più forti degli altri. “Era un modo per avere dei vantaggi – spiega il collaboratore di giustizia – ad esempio il controllo delle attività dei locali, nel senso del controllo di chi entra e chi esce, dei clienti e dei fornitori; era un modo per farsi vedere forti, e ciò fa paura agli albanesi, fa paura agli italiani, ai gestori dei locali”. I gestori pagavano direttamente i boss, che poi giravano i soldi ai loro uomini trattenendo 20 o 30 euro per ognuno.

Ma c’era anche un racket dei cantanti romeni, “esplicitamente minacciati affinché non cantassero in locali diversi da quelli gestiti dal gruppo delinquenziale”: “Il diretto controllo dei cantanti più gettonati garantirebbe un più elevato numero di frequentatori, innalzando indubbiamente gli introiti dei loro locali”, si legge nell’ordinanza. E questo vuol dire parecchi soldi fatti con le dediche: “Vengono dati soldi ai musicanti e vengono fatte dediche alle famiglie. Chi vuole dimostrare di essere più forte da somme più alte”. I cantanti poi dovevano fare a metà coi gestori del locale.

Dalla faida alla “pax mafiosa. Tra il 2009 e il 2010 Torino e la sua periferia sono stati lo sfondo di una serie di agguati, sparatorie e omicidi legati allo scontro tra i vecchi controllori della prostituzione, gli albanesi, e i nuovi arrivati. Obiettivo principale erano i capi. Nell’aprile 2009 un commando guidato da Oarza spara a Nol Sheu. Gli albanesi rispondono il 17 gennaio 2010, quando il fratello Pal Sheu uccide un parente di Paun. Quasi due anni dopo l’obiettivo è proprio il boss “Coco”: il 2 dicembre 2012 un commando di albanesi va allo Zimbru e aggredisce il gestore: “Da parte di Niko”, dice un aggressore dopo averlo lasciato a terra in gravi condizioni. Ora però sembra essere scoppiata la “pax mafiosa”: durante il processo al boss albanese Nol Sheu, detto “Niko” per il tentato omicidio di Paun, quest’ultimo – chiamato a rispondere come teste – ha detto di non ritenere il rivale mandante della spedizione punitiva.

(fonte)

Sea Organization: per il prossimo miliardo di anni

La Sea Organization (o Sea Org) è un’associazione della chiesa di Scientology istituita nel 1968 da L. Ron Hubbard. I suoi membri vengono reclutati sia tra i dirigenti della chiesa di Scientology sia nelle singole Org (cioè le singole chiese nel mondo). Solo i membri della Sea Org accedono alle posizioni più alte delle organizzazioni più alte di Scientology. Questo è il contratto di iscrizione:

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