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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

La pavidità a sinistra rivenduta come garantismo

Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza pubblicano un articolo per L’Ora Quotidiano che coglie in pieno il vento del “neogarantismo” del PD che, a partire dal processo sulla trattativa, sembra passare troppo inosservato. Da leggere tutto, prima di giudicare:

Galeotto fu il pamphlet scritto dal giurista Giovanni Fiandaca, e pubblicato sul Foglio di Giuliano Ferrara l’1 giugno dell’anno scorso con il titolo “Il processo sulla trattativa Stato-mafia è una boiata pazzesca”, che sostiene una tesi machiavellica e contorta: non solo la trattativa tra boss e istituzioni ci fu (e fin qui siamo tutti d’accordo), ma fu un’iniziativa legittima e addirittura doverosa, trattandosi dello strumento attraverso il quale lo Stato cercò di assolvere al suo obbligo fondamentale, cioè preservare la vita dei cittadini. Se davanti ai cadaveri ancora caldi di Falcone e Borsellino, lo Stato trattò con la mafia – è la tesi del libello – ebbe ragione di farlo allo scopo di salvaguardare l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale. “Basta con l’antimafia gridata – implora Fiandaca – oggi la lotta alla mafia va affrontata su basi legislative innovative, serie, che chiudano una volta e per tutte la stagione degli eccessi di contrapposizione”.

Da allora, nulla è più come prima. Le parole del giurista hanno avuto l’effetto di uno squillo di tromba che ha chiamato a raccolta quanti, in Sicilia ma soprattutto nelle alte sfere istituzionali, vedono il processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia come il fumo negli occhi. Primo fra tutti Giorgio Napolitano. E difatti a Palermo, per discutere il pamphlet giustificazionista, si catapulta il suo più fido luogotenente, Emanuele Macaluso, totem vivente dell’area migliorista siciliana, ma soprattutto l’uomo che il generale Mario Redditi (ex capo di gabinetto al Sisde) intercettato al telefono con Mario Mori definì “il ventriloquo” del capo dello Stato. Non è passato che un mese dall’articolo del Foglio. Sotto le capriate di Palazzo Steri, sede della storica Inquisizione siciliana, Nenè Macaluso, il vecchio senatore comunista, battezza il trattato anti-pm di Fiandaca come la bibbia del nuovo garantismo di sinistra, infrangendo pubblicamente un tabù che da oltre vent’anni gravava sulle spalle del Pd, o almeno di quel pezzo di partito che ancora in qualche modo si sentiva erede del Pci di Pio La Torre: l’impossibilità di criticare le scelte della magistratura antimafia, senza incorrere nel rischio di essere immediatamente assimilati alla destra e alle tesi del berlusconismo. Dopo lo scontro scatenato da Napolitano con il conflitto di attribuzione nei confronti dei pm di Palermo, un’autentica manna per chi ha a cuore l’estraneità del capo dello Stato all’affaire che mette sotto accusa lo Stato.

L’alibi giuridico allo scontro politico

A sinistra, immediatamente, lo squillo è diventato fanfara. Allo Steri di Palermo si raccoglie un pezzo della cosiddetta intellighenzia siciliana: oltre all’autore del saggio sponsorizzato da Giuliano Ferrara, sul tavolo dei relatori c’è l’ex pm di Palermo Giuseppe Di Lello, componente dello “storico” pool antimafia di Giovanni Falcone, il segretario del Circolo socialista Alessio Campione (ex aderente alla sinistra del Psi di Lombardi e Signorile) e, nei panni del “portatore di dissenso” (ma non troppo) il giovane ordinario di diritto privato Luca Nivarra, che si professa orgogliosamente “comunista” e “marxista”. In platea, un occhiuto melting pot di accademici, studiosi, pezzi del fu Psi, metastasi del fu Pci, giornalisti, ex miglioristi migrati in fondazioni, ex socialisti riciclati in associazioni, circoli ed ex ideologi di professione ormai disoccupati. Risultato? In un festival di dotte citazioni filosofico-giuridiche, tra scrosci di applausi e urla di approvazione, il parterre dello Steri in tre ore fa a pezzi il processo di Palermo. Macaluso non perde occasione per attaccare i pm: “La questione è nel protagonismo: un processo a Mori pone chi lo affronta in una certa posizione particolare, quella di magistrato integerrimo. E una parte dei media concorre alla promozione di un eroe che osa sfidare i poteri. Penso che Mori è vittima di questa questione”. Persino Di Lello, ex senatore di Rc, icona della sinistra colta, fa sfoggio di scetticismo: “Quale sarebbe il filo che tiene insieme stragi e trattativa, il 41 bis, stabilizzato dopo pochi mesi dalla sua sospensione per i detenuti minori? Sarebbero Conso e Mancino i terminali della trattativa?”. E giù applausi.

Perchè questa voglia di dire addio, e per sempre, alla stagione del rigore antimafia, tacciato di “giustizialismo”, proprio mentre nell’aula bunker lo Stato tenta di processare se stesso? Si può parlare di un “laboratorio Palermo” dove l’accademia costruisce un alibi giuridico alla guerra (tutta politica) contro i pm di Palermo? E si può ipotizzare che Macaluso, che trascorre le vacanze con il capo dello Stato, sia il motore di questa operazione che passa per i media? E l’ambizioso Fiandacacosa c’entra? E l’insospettabile Di Lello?

Macaluso come D’Ambrosio e Mancino

Domande retoriche, ovviamente. Macaluso giura e spergiura che il suo garantismo è genuino e che le sue critiche alla procura di Palermo non hanno nulla a che vedere con Napolitano e con lo scontro presidenziale con i pm della trattativa. Anche se, sfogliando gli archivi, si scopre che il “ventriloquo” del Quirinale sostiene le stesse cose del trio Napolitano-Mancino-D’Ambrosio, proprio nei giorni delle telefonate top secret dell’ex ministro dell’Interno al centralino del Colle. Le date parlano chiaro: il 25 febbraio, il 5 marzo e il 7 marzo 2012, Mancino chiama D’Ambrosio. Si cerca il modo di “scippare” l’indagine ai pm di Palermo con la scusa di affidarne il coordinamento al Procuratore nazionale antimafia. D’Ambrosio: “Intervenire su Grasso”, con cui Mancino vorrebbe un incontro “in maniera riservatissima, che nessuno sappia niente”. D’Ambrosio: “Lo vedo domani”. L’8 marzo, mentre il Quirinale ipotizza questa exit strategy per Mancino, Macaluso sul defunto Riformista critica il “processo a Palermo che vede imputati il generale Mori e il colonnello De Donno” (ma gli imputati sono Mori e Obinu) e suggerisce: “Con l’aiuto della Procura nazionale antimafia occorre arrivare rapidamente a una conclusione”. Lo stesso giorno, dichiara al Corriere: “C’è una guerriglia tra poteri dello Stato, apparati investigativi e pezzi di magistratura. Guerriglia che continua e che fa delle vittime tra le quali non ho alcuna difficoltà a inserire Mori. La procura nazionale antimafia, guidata da un magistrato di valore come Grasso, dovrebbe prendere in mano questa situazione. Qui si chiamano in causa Scalfaro, Amato, Martelli, Mancino e ora anche Mannino, mentre a Palermo sono sotto processo Mori e De Donno (sono sempre Mori e Obinu)… Ci vorrebbe un punto di chiarezza e solo la procura nazionale può farlo”. Non pago di tanto zelo, il 15 marzo Macaluso si fa intervistare pure dalla rivistina ciellina Tempi: “Non è possibile che un paese viva chiedendosi per anni se c’è stata o no una trattativa, se Borsellino è morto per questo o no… Chiederei che si mettesse un punto. La procura nazionale antimafia, che ha tutti gli strumenti necessari per approfondire, perché non interviene per fare un po’ di chiarezza?… Mancino ha ribadito… che lui non sapeva nulla su una trattativa…”. Sono più o meno le stesse parole che D’Ambrosio, per conto di Napolitano, spendeva al telefono con Mancino, cercando di rassicurarlo. Solo un caso?

Ma questo è solo il prologo. Il successo del pamphlet negli ambienti della sinistra che conta ha gonfiato le vele di Fiandaca che, nella primavera di quest’anno, ci riprova. E pubblica, per i tipi di Laterza, un volume scritto a quattro mani con lo storico Salvatore Lupo, dal titolo: “La mafia non ha vinto”. È la conferma, stavolta arricchita da una prospettiva storica, della sua critica radicale al processo sulla trattativa Stato-mafia. Anche stavolta la presentazione a Palermo viene allestita a Palazzo Steri: a organizzarla è l’ex dirigente del Pci Vito Lo Monaco, presidente del centro Pio La Torre e parte civile nel processo sulla trattativa. Fiandaca ha ormai acquisito i toni del predicatore che non tollera dissensi. A Lo Monaco che, dopo aver auspicato un “dibattito sereno”, aveva osato: “Il libro ha grandi pregi, ma io credo che la discussione non possa partire soltanto dalla memoria dei pm, una quindicina di pagine in tutto, quando il processo è composto da decine di faldoni e migliaia di pagine”, il giurista replica furioso davanti a una sala attonita: “Lo Monaco, ma che obiezione è? Che senso ha? Non c’è bisogno di leggere migliaia di pagine di tanti faldoni, perchè nei faldoni ci sono tantissimi particolari e fatterelli che non assumono alcun rilievo ai fini della trattazione critica dei nodi di fondo posti dal processo sulla trattativa”. Poi si scaglia apertamente contro chi lo definisce un “giustificazionista”: “Siamo davanti a termini di tipo stalinista e fascista, perchè servono solo a screditare l’avversario”. Così predicando, il professore salta di presentazione in presentazione, vestendo ormai i panni dell’arguto polemista. Si avvicinano, intanto, le elezioni Europee.

Il crollo di un tabù

All’inizio di aprile, Macaluso torna a Palermo per festeggiare i suoi 90 anni e Massimo Accolla, ex giovane dell’area migliorista, raccoglie alla Gam (Galleria d’arte moderna) un plotone di vecchi amici ed esponenti della sinistra siciliana per rendere omaggio al grande vecchio della destra Pci. Anche stavolta il pubblico è d’eccezione: da Luigi Colajanni, europarlamentare all’inizio degli anni ’90, all’ex leader di Rc Francesco Forgione, presidente della fondazione Federico II, dal cuperliano Antonello Cracolici al deputato regionale Fabrizio Ferrandelli, dall’ex governatore della Regione Angelo Capodicasa al renziano Davide Faraone, dal sindacalista della Cgil Italo Tripi, fino al segretario dei democratici siciliani, Fausto Raciti. Non è una corrente, né un’area politica. Non è uno scampolo dell’ala migliorista del Pci. Non si può neppure definire una sorta di “cerchio magico” che fa capo a Napolitano, anche se al centro della corte brilla lo zio Nenè, il pupillo dell’inquilino del Colle. Che sia allora lo zoccolo duro del nuovo garantismo “rosso”? Anime e pezzi di quella sinistra che un tempo, nella Sicilia delle stragi e dei depistaggi, faceva dell’antimafia giudiziaria una bandiera di rigore e di giustizia. E oggi non nasconde più il fastidio per quello che Macaluso definisce con disprezzo il “populismo giudiziario”, l’ossessione delle manette. C’è la torta, lo spumante, ci sono le candeline. Baci, applausi, letture. Si celebra un compleanno, una stagione che fu, una generazione di ricordi; per una fetta della sinistra è il trionfo postumo di un’idea di riformismo garantista che finalmente ha l’avallo della massima carica istituzionale.

Ma c’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria. Si fa vivo, alla festa, l’immancabile Fiandaca, l’ex maestro di Ingroia che ormai nei salotti di Palermo si atteggia ad anti-Ingroia. Di questo neo-garantismo di sinistra è un improvvisato ma utile cantore: a Roma c’è chi se n’è accorto da tempo. Pochi giorni dopo aver fatto gli auguri al “ventriloquo” di Napolitano, attorno alla torta confezionata a Palermo, Fiandaca viene promosso da Renzi in persona al ruolo di candidato del Pd alle Europee per la Sicilia. Ed è a questo punto che l’Unità saluta, con fervore, la fine di un tabù: “È molto più di una candidatura – scrive Claudia Fusani il 15 aprile – È la fine di un tabù lungo vent’anni. Un tabù che purtroppo ha pesato tantissimo nei rapporti tra politica e magistratura e in parte responsabile di certi innegabili ritardi nella riforma della giustizia. La candidatura del professor Fiandaca, uno dei massimi esperti in Italia di diritto penale, nella circoscrizione Isole alle Europee nelle liste del Pd ha un significato che va molto al di là del prestigio e del peso del nome. Fiandaca, infatti, ha avuto il coraggio, e il merito di criticare l’impostazione del processo sulla trattativa tra Stato e mafia in corso a Palermo’’.

Coraggioso Fiandaca. Che però rastrella solo 76 mila voti e alle elezioni del 24 e 25 maggio viene solennemente trombato, incarnando l’ennesimo flop isolano dei democratici che piazzano invece a Strasburgo Caterina Chinnici, magistrato e figlia di magistrato (suo padre, Rocco Chinnici, è il consigliere istruttore di Palermo che fu massacrato dalla mafia con un’autobomba nell’83), capace di tesaurizzare un bottino di 133 mila voti. C’è tra gli elettori Pd la voglia di premiare ancora una volta un simbolo dell’antimafia? È uno schiaffo agli anatemi anti-pm del giurista che sbeffeggia la trattativa Stato-mafia? Contestato dai suoi studenti, snobbato dai siciliani, il professor Fiandacatorna a fare l’anti-Ingroia nel chiuso della sua aula universitaria e sparisce di scena. Come da copione, il Pd glissa sulla figuraccia inflitta all’accademico polemista.

La riforma della giustizia

Ma oggi il fantasma “fiandachiano” di un sinistra iconoclasta che divora i propri eroi antimafia aleggia nell’aula bunker e incombe sul processo della Trattativa. Uscendo dalle pagine del libro del giurista, il garantismo di sinistra è diventato ormai un indirizzo istituzionale che va da Renzi (suo l’imprimatur alla candidatura di Fiandaca) al ministro della Giustizia Andrea Orlando (migliorista in età giovanile, ha sponsorizzato anche lui il giurista palermitano), che trova concorde il presidente del Senato Pietro Grasso (“Quelli lì, avrebbe detto a Mancino riferendosi ai pm di Palermo, “danno solo fastidio”) e il candidato alla Consulta Luciano Violante (“originale” per lui l’idea di citare il capo dello Stato come testimone al processo sulla trattativa).

Ora, dopo la conferma della convocazione di Napolitano davanti alla Corte d’assise di Palermo, la nuova linea di Fiandaca e Macaluso è pronta a farsi agenda politica. La guerra con le toghe è a 360 gradi. E Re Giorgio ha già annunciato l’imminente riforma della giustizia. La novità? Manco a dirlo, sta nella svolta di Renzi: il Pd non più come partito fiancheggiatore di giudici e Procure, ma “partito che laicamente affronta il tema della giustizia” declinandola sotto il segno del garantismo. “Noi siamo garantisti sul serio – promette il premier – alla magistratura chiediamo di rispettare ogni norma a tutela dell’imputato”.

Quelli che ci stanno rovinando, in Italia, sono gli obbedienti: un’intervista

Si prepara a tornare in scena Giulio Cavalli, dopo una pausa artistica dovuta anche alla parentesi politica in Regione Lombardia. Lo fa con uno spettacolo liberamente ispirato alla vita di Marcello Dell’Utri, accompagnato dalle musiche di Cisco Bellotti, eseguite dal vivo. Lo spettacolo, insieme ad un romanzo, è una produzione sociale attivata su produzionidalbasso.com e conclusasi con successo. Il ritorno “molto teatrale” dell’attore, drammaturgo e scrittore di Lodi, partirà presto dal Nuovo Teatro Sanità di Napoli.

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Marcello è un giovane e intraprendente siciliano, nato da una famiglia borghese, ma decadente, del centro di Palermo. Marcello e il fratello Alberto vivono in simbiosi una giovinezza di lusso apparente, mentre subiscono le difficoltà economiche di un padre che si ritrova fuori gioco negli ambienti che contano, per l’arresto di alcuni elementi a cui faceva riferimento. Per questo Marcello cresce con un insito odio nei confronti della magistratura, vista come la causa della decadenza famigliare. Silvio è uno studente prepotente, egocentrico e scaltro che è stato educato dal padre ad una continua ossessiva ricerca delle scorciatoie ad ogni costo. Vive in un paese della provincia milanese, ma lo stesso giorno che ha l’occasione di accompagnare il padre nella banca in cui lavora, nel cuore della Milano bene, si innamora di questa città di eleganza, soldi e affari e decide di diventare, da adulto, un uomo a cui tutti sognano di stringere la mano. Vittorio è mafioso, figlio di mafiosi. Senza giri di parole e senza nascondenti anzi: con una venerazione assoluta per i codici medievali che gestiscono i meccanismi sociali e imprenditoriali di Cosa Nostra in Sicilia. E’ conosciuto tra gli amici per la sua abilità nell’esercizio della prepotenza che sia vocale, manesca o armata. Si diletta in missioni di prepotenza che lo rendono temuto e affascinante per molti e sviluppa un astio per la borghesia siciliana a cui aspira. Come la volpe con l’uva. Tutti e tre amano il calcio.

Perché hai scelto di attivare una produzione sociale per “L’amico degli eroi”?

Guarda, perché la produzione di uno spettacolo in un paese così complesso per le produzioni teatrali come l’Italia, complesso nel senso peggiore del termine, cioè ricco di condizionamenti politici, non è una cosa facile. Questi ultimi, bene o male, poi ne dettano la linea. “L’innocenza di Giulio”, spettacolo a cui io sono molto legato, ci ha raccontato perfettamente come essere ospiti di un teatro “stabile” nel circuito teatrale convenzionale, risultasse molto difficile per questioni politiche, che poi fondamentalmente sono delle beghe tra assessori, il “mestruo” di un dirigente dell’ufficio cultura, non c’è un isolamento concordato e organico. Allora, a questo punto, poiché il mio circuito è sempre di più fortemente politico, non partitico, e molte delle mie date non sono organizzate da un teatro, ma il teatro è solo il luogo che viene affittato da comitati cittadini o associazioni, ci siamo chiesti: perché non stringiamo un patto fin dall’inizio direttamente con loro? Inoltre, credo che andare in giro, come è capitato a me con il logo di Regione Lombardia su una produzione, sia anche abbastanza ipocrita. Purtroppo vieni macchiato come colui che ha intrattenuto rapporti con la pubblica amministrazione e che, avendo beneficiato di contributi, spesso a pioggia e non elargiti da una precisa scelta artistica, va in scena grazie a loro.

E tra l’altro se metti in scena uno spettacolo che racconta di “Stato e politica” potrebbe esserci anche un lieve conflitto d’interessi nel ricevere fondi pubblici…

Si, perché poi o tu mi produci “Andreotti” (L’Innocenza di Giulio, ndr) perché concordi sull’idea civile dello spettacolo o altrimenti non funziona. Il teatro civile solo in Italia è l’ammorbidente dell’indignazione generale. Nasce in realtà per “essere contro” qualcuno, ognuno con le proprie modalità. Il 99 per cento delle volte la postura di chi ti ospita, parlo di una pubblica amministrazione, è solo un attestato di fiducia per il teatro civile come se fosse avulso poi il tema che vai a trattare. Quando ho messo in scena “Linate” (monologo sul “disastro aereo” dove persero la vita 118 persone, ndr), spettacolo prodotto da tanti piccoli comuni, quelle amministrazioni concordavano con noi sul fatto che fosse stata una strage e non un incidente. Andreotti, invece, non concorda nessuno di quelli che lo hanno prodotto o che sono stati costretti a comprarlo, sul fatto che sia stato un criminale etico di questo Paese. Ti dicono che è giusto dare voce anche a Cavalli che lo considera un criminale.

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Quindi avevi bisogno del crowdfundig per poter raccontare di Marcello Dell’Utri?

Credo proprio di sì. Dopo aver fatto politica l’isolamento a livello artistico, intorno a me, si è acuito. Quello che mi ero costruito, e parlo anche delle relazioni economiche poi, è andato via via sparendo. Ma non per la posizione politica. Gli isolatori in Italia sono tutti coloro che hanno paura di dover prendere una posizione, non che non condividono la tua, e quelli che condividono il tuo punto di vista hanno paura di sclerotizzarsi su quest’ultimo. E’ banale tutto questo. Inoltre, la mia attività quotidiana di giornalismo o blogging, prende molto spesso posizioni nette. Ogni scritto, magari aumenta la fiducia e la vicinanza dei lettori ma fa crescere anche il sospetto da parte delle istituzioni. Quindi, anche se sarebbe molto più eroico dire di no, dal punto di vista economico, senza il crowdfunding, avrei fatto più fatica. Sarei dovuto scendere a un compromesso, anche taciuto o sottointeso. E poi, mi fa piacere sapere che c’è stata della gente, non necessariamente miei elettori, che la mia pausa artistica dovuta anche alla politica, l’ha vissuta con tranquillità e che si è resa disponibile nel partecipare con me alla produzione de “L’amico degli eroi”.

Credo ci sia un po’ di confusione su quello che artisticamente sei, forse proprio perché hai fatto politica, o perché fai un tipo di teatro particolare in Italia…

Perché qui abbiamo bisogno di categorizzazioni semplici e facilmente leggibili. I teatranti non mi amano, al di là delle mie posizioni politiche, dicono che Cavalli è un giornalista. Se fai l’attore devi fare solo l’attore e così via. Se decidi di esprimerti su diversi fronti, quasi nessuno ha le chiavi di lettura per osservare se c’è una coerenza di base, un filo rosso.

La produzione, comunque, comprende oltre allo spettacolo anche un libro…

Si, sembra che in questo Paese ci sia una guerra tra editoria tradizionale ed “editoria a km 0”. Perché devo essere costretto a scegliere? C’è il Cavalli scrittore, quindi romanziere, e allora il mio libro uscirà con “Rizzoli”, ad esempio, e quella è una strada che mi interessa percorrere. Poi c’è il libro che invece nasce da un mio spettacolo e che inevitabilmente non sarà mai un romanzo, perché nascono insieme. E quando le persone mi chiedono se lo spettacolo è tratto dal libro, io rispondo che non lo so. Questa è una semplificazione che abbiamo noi operatori culturali e penso il pubblico non abbia. Il mio poi è un teatro che va molto letto, è poco recitato, vado in giro a fare lo spettacolo per promuovere la parola. Sono fratelli spettacolo e libro, secondo me.

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Ma quando andrà in scena “L’amico degli eroi”?

Entro la fine del mese dovremmo essere pronti. Saremo a Napoli e sarà una sorta di “numero zero” al Nuovo Teatro Sanità, poi cominceremo a girare l’Italia.

Perché hai scelto di fare teatro civile?

Dario Fo mi dice sempre che noi teatranti facciamo sul palco quello che avremmo dovuto fare nella vita. Probabilmente io nella vita avrei dovuto fare il giornalista d’inchiesta e quindi uso il palco per questo. Ho sempre sofferto la mancata contemporaneità del teatro italiano. Mi annoia tutto ciò che è elegiaco, quindi ho sempre pensato che il teatro, con lo spettacolo e i suoi spettatori riuniti, dovesse avere la valenza di un’agorà e dovesse essere “sul pezzo”. Ad esempio, mi capitava spesso di discutere dell’andreottismo e mi chiedevo perché queste discussioni molto spesso ricche e stimolanti, non dovessero andare in scena… Poi, purtroppo, la mia vicenda privata mi ha spinto ad una certa specificità anche nei temi, che però sono quelli che amo…

Quindi l’aver ricevuto minacce mafiose e l’essere diventato tuo malgrado testimonianza hanno solo accentuato la voglia di approfondire certe tematiche?

Bè, sì, ma penso che avrei fatto gli stessi spettacoli, forse sarebbero stati più puliti dal punto di vista scenico perché avrei avuto meno ansia di difesa sul palco. I temi però sostanziali anche oggi sono questi: corruzione, criminalità, uno Stato che non è credibile e soprattutto un Paese a cui sono stati sottratti i termini per riuscire a capire e raccontarsi ciò che sta accadendo. “L’ amico degli eroi” è un mio ritorno molto teatrale, dentro non c’è ansia di raccontare la mia storia declinandola su questa storia, capisci? Quindi è meno documentale di quello che si aspettano, non ci interessa raccontare gli episodi che indicano come colpevole Dell’Utri, c’interessa raccontare un’umanità di cui Dell’Utri è paradigma e che su ampia scala e con diverse potenze si esprime nella quotidianità.

All’inizio della tua carriera, ti saresti aspettato di andare incontro ad una vicenda così complessa personalmente e professionalmente, scegliendo questo tipo di teatro?

Sai, il teatro civile è complessità. E’ raccontare un qualcosa sotto una visuale talmente inaspettata da poter riuscire a scoprire lembi di quella storia che ci sono sempre sfuggiti. E’ quindi inevitabile che i protagonisti di quei lembi, all’interno di questa complessità, non siano felici. Però non vedo differenza tra il proiettile spedito o la querela promessa, cioè non mi ha colpito di più la minaccia mafiosa rispetto ai detrattori organici con cui mi trovo ad avere a che fare. E me lo aspettavo, si. Del resto, quando ho scritto “Linate”, in parte abbiamo scontentato anche i familiari delle vittime, a cui era stato dato in pasto come unico colpevole un controllore di volo, invece abbiamo scoperto l’esistenza di colpe istituzionali, questo è servito ad un confronto civile tra le parti. Per cui poi abbiamo ricevuto pressioni dai controllori, dall’aeroporto di Linate, dall’ENAC, una cozzaglia di scarti politici parafascisti, ricevuto minacce dall’ENAV, che non ha adempito ai suoi doveri come ente preposto a controllare la sicurezza… Poi c’è il parente del familiare che affronta l’argomento a cuore aperto e si confronta con te, l’ENAV ti fa scrivere dall’avvocato; il mafioso invece ha metodi più brutali nella forma ma non nella sostanza. Io ho ricevuto atteggiamenti mafiosi anche da illustri componenti di associazioni antimafia e li trovo più pavidi di quelli che almeno avuto il coraggio di mandarmi la lettera minatoria. Tutti questi tasselli creano la complessità e non sono altro che gli spigoli di un dibattito. Gli spettacoli li scrivo per aprire un dibattito, altrimenti scrivo un romanzo. Se uno spettacolo mette tutti d’accordo penso di aver fallito il mio obiettivo.

Non è difficile però gestire il tuo lavoro e le complessità a cui vai incontro? Quanto incide sulla tua vita privata?

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Indipendentemente dalle minacce, la storia ci racconta che giornalisti, attori, drammaturghi, politici, che hanno deciso di seguire un professionismo nel proprio lavoro, sono sempre ben consapevoli che la propria vita privata sia intrecciata anche con esso. Mi spiego, i nostri intellettuali sono stati testimonianza (quelli credibili) di ciò che hanno scritto o prodotto. Solo in Italia esiste la figura dell’intellettuale ad interim nei dieci minuti di parentesi del programma in prima serata. Nel bene o nel male, per esempio, una figura controversa ma che non posso non amare, è stata Oriana Fallaci. Lo stesso Dario Fo è Dario Fo. Non è tutti i suoi spettacoli ma è lui. Nella sua storia, la vita privata, e quindi nel suo caso Franca Rame, è una componente essenziale come il più bel quadro che ha dipinto o il più bel testo che abbia scritto.

In una conferenza con Nino Di Matteo, nelle scorse settimane, al Teatro Apollonio di Varese, hai deviato il discorso legato alla scorta. Perché?

Perché non mi interessa parlare di scorta. Ne sono stato travolto dalla cronaca e poi quest’ultima si è fossilizzata in una simbologia per me senza senso. Inoltre continuo ad essere vittima del fatto di essere sotto protezione, dal punto di vista del giudizio pubblico. Ma questo è solo un tassello, un elemento della complessità e affezionarsi solo a questo è pericoloso, per me e per il mio lavoro ma anche per l’opinione pubblica. La stampa dimentica che tutti i prefetti sono sotto scorta e dovrebbe parlare di questo. La normalizzazione avviene non solo perché si parla di una situazione come la mia, ma perché non si parla delle altre. In Italia ci sono 800 persone sotto scorta e testimoni di giustizia rischiano la vita perché non riescono ad avere una tutela. Tu diventi l’attore con la scorta, il fenomeno da baraccone. Io sono sempre stato aspramente critico con il “savianismo” che si è voluto creare intorno alla figura di Roberto Saviano. Ma attenzione, non ce l’ho con Saviano, credo solo che il fenomeno, per molti versi indipendente da lui, gli sia sfuggito di mano. Per esempio che si parli di Giovanni Tizian, come giornalista scortato, ma si dimentichi che il padre di Giovanni è stato ucciso dalla ‘ndrangheta, significa adagiarsi su una spettacolarizzazione che oltre a rendere il banale importante, non ti fa vedere tutto il resto. Se apriamo una discussione sul fatto che in Italia la potenza del teatro è quella di disturbare ferocemente i potenti, allora è un confronto che mi interessa.

Sei stufo di essere legato a questo tipo di discorso, vero?

Si, sono diventato completamente intollerante e nel momento in cui mi accorgo che la scorta diventa motivo di stima, quasi sempre questa cosa getta una luce inquietante sulla persona che ho di fronte, che sia il Presidente del Senato o che sia il direttore del più importante teatro italiano. E adesso siccome fa parte della mia natura e del mio percorso artistico comincio a dirlo.

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E invece la scelta di occuparti di politica direttamente, dopo l’esperienza in Regione Lombardia, la rifaresti?

Si, l’ho fatta da uomo libero. Ho vissuto le appartenenze solo come un dovere di carta bollata per posizionarsi su una seggiola all’interno del Consiglio Regionale e perché penso che nella mia azione politica ci sia molto della produzione artistica e viceversa. Inoltre non credo che la stima in un campo debba essere collegata direttamente all’altra e quindi ho sempre apprezzato coloro che invece hanno giudicato buono un mio spettacolo e non buono un mio gesto politico. Però la rifarei. Io penso che questo sia un Paese che ha bisogno come il pane di visioni e di visionari nella politica. Non credo nell’antipolitica ma credo nell’ultrapolitica. Poi certo ho partecipato ad una legislatura deprimente e ho pagato lo scotto intellettuale, ma anche morale ed economico, quindi se tu mi dicessi lo faresti oggi, credo di no, però se la domanda è ti ricandideresti nel 2010 in quella situazione sì, lo rifarei.

Ho letto che hai condiviso e apprezzato il discorso del senatore dimissionario Walter Tocci, in disaccordo con il governo sul Jobs Act…

L’intervento di Tocci per me è cultura. La politica ogni tanto raggiunge i livelli della cultura. E io vengo stimolato nello scrivere con più impegno sapendo che esistono persone come Tocci. Quelli che ci stanno rovinando, in Italia, sono gli obbedienti.

Il problema poi nasce quando i disobbedienti non riescono a disobbedire fino in fondo, concretamente…

Il problema è che i disobbedienti acquistano valore nel momento in cui vengono seguiti. Io, per esempio, di mafia, posso cercare di parlarne nel modo più intellettualmente onesto possibile e preciso dal punto di vista documentale, ma poi la mia voce diventa importante e potente nel momento in cui fa rete. L’intervento di Tocci si fatica a leggere oggi in questo Paese. Inoltre, sulla contestazione del fatto che abbia votato comunque a favore e poi si sia dimesso, io dico che ho una grandissima idea di partito, vedo il partito con lo spirito e gli stessi valori di una comune artistica parigina. Il fatto di votare a favore e dimettersi, lo trovo coerente. Molto spesso i disobbedienti hanno il cattivo vizio, e capita anche a me, di non avere rispetto delle idee degli altri, di pensare cioè che la democrazia sia gestita da un peso numerico e qualitativo ed è la cosa che li rende in generale una minoranza cronica di questo Paese. E aver rispetto dell’idea che ritieni pericolosa e sbagliata degli altri perché espressa secondo dinamiche democratiche io lo trovo un gesto rivoluzionario. 

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Si potrebbe parlare di Pippo Civati allora in questo discorso…

Pippo è diverso. Lui ha avuto tra le mani e ha tra le mani, anzi forse aveva, strumenti molto più “ficcanti” di quelli di Walter Tocci. Il voto contrario di Tocci avrebbe cambiato questo Paese? No. Se Tocci avesse votato contro e fosse rimasto senatore avrebbe sicuramente toccato di più la pancia degli elettori del Paese e la sua sarebbe stata vissuta come scelta più radicale, io invece rivendico la radicalità del suo gesto, che rinuncia alla propria posizione, senza cadere, cioè rispettando il “luogo” che non condivide ma in cui è stato. Comunque questo è un Paese che non si salva con Tocci o con Civati, Vendola e Landini. Si salva se riesce a creare un blocco sociale. Non esiste un blocco sociale. Ancora una volta è tutto molto a cascata, è il leader che crea la base e non il contrario. In questo la forma partitica utilizzata con intelligenza e con etica rimane comunque la forma migliore.

Trovo, però, sia diventato piuttosto difficile poter poi sperare in un vero cambiamento politico e culturale in questo Paese…

In un Paese normale l’uscita di Tocci avrebbe dovuto far cadere in termini percentuali il PD. E’ vero che oggi in un’epoca di minus habens essere normale ti rende un intellettuale, però ha caratura politica il suo gesto, in un’Italia completamente “analfabeta”, che ha bisogno ancora di sentirsi dire che Dell’Utri è un mafioso. Non capisco come si possa pensare, infatti, che il processo sulla trattativa arrivi a qualche condanna, quando chiunque abbia un’infarinatura giuridica, ma anche semplicemente democratica, sa che difficilmente ci si arriverà e che il compito di Di Matteo e la valutazione su Nino di Matteo non è il riuscire a farli condannare ma l’essere riuscito a mettere per iscritto ciò che ha messo per iscritto. Quelli che celebrano Di Matteo non hanno nemmeno letto ciò che ha scritto. Lo celebrano perché la persona a rischio è quella con cui solidarizziamo molto più facilmente, ma non sono all’altezza dei contenuti che sta proponendo.

La tendenza all’omologazione politico – culturale è preoccupante e oggi sembra non esserci una credibile alternativa…

Infatti era l’idea di fondo di Licio Gelli, l’ha detto anche Di Matteo, ma è stato colto molto poco nel suo intervento a Varese. L’omologazione del Paese ne facilita il controllo. Ma ne facilita il controllo da un’oligarchia. Dal punto di vista culturale l’omologazione berlusconiana e quella renziana hanno gli stessi meccanismi. Stessa cosa per quella grillina. Sull’appiattimento culturale della polita io penso che il Movimento Cinque Stelle abbia delle responsabilità enormi. Tanto che il personaggio più spendibile del M5S è diventato un andreottiano nei modi, nella dizione e nei contenuti, come Di Maio. Quindi, non mi sembra si siano prodotte grandi interessanti novità. L’alternativa potrebbe essere un movimento politico che abbia una solida base culturale. Il problema è che non ci sono basi e visioni culturali dietro ai partiti.

Dietro a L’Altra Europa, però, le visioni culturali ci sono, o forse c’erano eppure in parte è stata un’esperienza deludente…

Certo perché poi anche quando c’è qualcuno che è portatore di valori culturali diventa spesso un cerimoniere di stesso. Abbiamo però comitati di cittadini che grazie allo studio, alla conoscenza e a visioni rivoluzionarie sono riusciti a bloccare progetti immensi, quindi l’attività politica ai livelli più bassi è ricca ancora di contenuti. Costa moltissime energie in tutti i sensi concretizzare un vero progetto politico.

Intervieni spesso sul tuo sito a proposito di Expo 2015. Cosa ne pensi? Perché non sei favorevole?

Bè, Expo per me è innanzi tutto una follia dal punto di vista economico ed imprenditoriale, perché in un paese in crisi, spendere così tante risorse (e non mi si venga a dire che sono risorse che vengono dal fuori perché significa comunque avere sprecato energie per raccogliere questi fondi), è irrispettoso. Expo oggi è una mancanza di rispetto per la situazione dello stato sociale italiano. Una scelta politica che ancora una volta è riuscita a far coagulare centro destra e centro sinistra, dimostrando che gli inetti sono sempre concordi. Dal punto di vista criminale, invece, è stata una grande festa per i presunti antimafiosi, che ancora una volta invece ci hanno dimostrato di non aver il coraggio legislativo (perché la criminalità organizzata nei lavori pubblici si sblocca con una legislazione che sia più severa) e hanno dimostrato anche di non riuscire ad amministrare. E’ un fallimento ambientale, un fallimento della classe dirigente, Pisapia incluso, e ancora una volta è una scatola preziosissima in cui al momento si cercherà di metterci dentro qualcosa di commestibile.

photo by inviaggioconlamehari.it

C’è una forte incoerenza tra i temi proposti e le politiche adottate per l’organizzazione dell’evento. Se ne parla poco di questo, non trovi?

Sì, e quelli di Expo non si possono incazzare con noi che abbiamo un ruolo pubblico o con gli italiani perché sono troppo poco interessati ai temi. Io ho avuto un confronto anche pubblico con il capo ufficio stampa di Expo che mi accusava di non affezionarmi ai contenuti. Però se il modus operandi e la scatola sono così putridi, la gente ha tutto il diritto di fermarsi sulla soglia e inorridire lì, senza volere entrare. Capisci?

Mi dicevi che Expo è stata per te anche una festa per presunti antimafiosi. Non hai molta stima dell’antimafia in generale, vero?

No, per niente. Dei movimenti antimafia in Italia per niente. Del resto sai, Lea Garofalo è stata lasciata sola dalla più grande associazione antimafia italiana, Libera. Ci sono però molte personalità antimafiose anche più “semplici” come la casalinga di Castel Volturno o la pensionata coscientissima milanese. Abbiamo una ricchezza enorme. Soltanto non credo molto nell’immagine di rete che ci viene proposta e che in realtà rete non è. E’ solo una suddivisione di potere e di interessi.

Bè, la scelta di Rosanna Scopelliti, presidente della “Fondazione Scopelliti” e personalità di spicco dell’associazione antimafia “Ammazzateci Tutti “, di intraprendere l’attività politica è stata molto discussa…

Non me la sento di dire che Ammazzateci Tutti è stata un’impresa fallimentare perché lei si è candidata. Ho conosciuto ragazzi che da giovanissimi hanno intrapreso l’”hobby dell’antimafia” grazie ad Ammazzateci Tutti, però sai, siamo un Paese che ha una classe dirigente pessima in tutti i settori, quindi non vedo perché non si possa dire che anche nell’antimafia abbiamo espresso una classe dirigente non altezza degli impegni che ha avuto. Anche perché attenzione, si sceglie di essere classe dirigente, io decido di essere drammaturgo, scrittore e attore, e mi occupo di quello, ma qualcuno che invece decide di essere classe dirigente se ne deve assumere le responsabilità. Io in questo momento non mi assumerei mai l’onere di essere classe dirigente di nessuno, al massimo un buon produttore di contenuti per chi mi legge e per chi mi viene a vedere a teatro.

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Caso Manca: a Viterbo va di scena una farsa

2Fuori dal processo i familiari di Attilio Manca, giovane urologo trovato morto in circostanze misteriose a Viterbo il 12 febbraio 2004. Dietro richiesta del pm Renzo Petroselli, il giudice Terzo ha infatti escluso dalle parti civili la famiglia Manca, rappresentata dai due legali Antonio Ingroia e Fabio Repici. Di fatto i familiari avevano facoltà di essere ammessi come parte civile al dibattimento, secondo il giudice, esclusivamente per il reato di omicidio colposo. Reato che però è ormai caduto in prescrizione, mentre l’unico che verrà contestato in aula sarà quello di cessione della droga che ha ucciso Attilio.
“E’ una vergogna inaudita – ha protestato l’avvocato Fabio Repici – Il degrado della giustizia sta arrivando a livelli cosmici e irredimibili”. Il legale difensore ha dichiarato che “l’atteggiamento tenuto ancora oggi dal pm Petroselli è la conclusione coerente dell’operato con il quale, dal momento del rinvenimento del cadavere di Attilio Manca, il pm ha dedicato tutti gli sforzi a processare moralmente il defunto trascurando di fare quel che doverosamente avrebbe dovuto al fine di ricercare la verità”.

Sul caso Manca sono molti ancora i tasselli mancanti che le precedenti indagini non hanno messo davvero in luce. Come il fatto che Attilio, urologo di innegabile fama, si trovava a Marsiglia proprio nello stesso periodo in cui il boss Bernardo Provenzano, allora latitante, vi andò per un’operazione alla prostata. Ben più di una coincidenza, secondo i familiari, che avrebbe portato il giovane medico alla morte, inizialmente archiviata come suicidio per overdose. Ma tante cose ancora non quadrano: come il fatto che la droga è stata iniettata nel braccio sinistro, mentre Attilio è sempre stato mancino, o che la siringa non riportava alcuna impronta, né di Attilio, né di altri. Indizi e circostanze che potranno essere esaminati in dibattimento anche per eventualmente vagliare la pista mafiosa, mai abbandonata dai familiari. Al processo l’unica imputata è Monica Mileti, accusata di spaccio per aver ceduto la dose di eroina ad Attilio.
I familiari saranno ascoltati dalla Commissione nazionale antimafia il 28 ottobre a Barcellona Pozzo di Gotto, durante una visita di due giorni nel Messinese.

Durissima la reazione di Angelina Manca, madre di Attilio che negli ultimi dieci anni non ha mai smesso di chiedere verità a una procura, quella di Viterbo, “che oggi ha ucciso mio figlio”, e lo ha fatto perché, ha detto in conferenza stampa, “non ha mosso un dito”, riferendosi ai magistrati che si sono occupati delle indagini, il procuratore capo Alberto Pazienti e il sostituto Renzo Petroselli “che hanno prodotto documenti falsi e detto cose false” solo per “mettere il marchio di drogato a un professionista serio come mio figlio”. “Oggi hanno dimostrato che la giustizia in Italia non è uguale per tutti” ha poi concluso con voce tremante e piena d’amarezza. La stessa che è trasparita dall’intervento dell’altro figlio Gianluca, fratello di Attilio, che ha parlato di una vera e propria “estromissione” della famiglia dal processo che si è finalmente aperto. “Oggi il tribunale di Viterbo ha scritto la pagina più buia della giustizia italiana” ma, ha poi sottolineato appellandosi ai presenti “dovete essere voi cittadini di Viterbo, voi cittadini italiani a prendere in mano una situazione così grave, perché evidentemente qualcuno non vuole che la verità venga fuori, allora dovete essere voi a pretenderla”. Certo è che, ha però precisato, “possono togliere la verità giuridica, ma non la dignità, nè ad Attilio, nè alla famiglia Manca”.
“Incomprensibile” e “aberrante” è per l’avvocato Antonio Ingroia l’ordinanza emessa all’udienza di oggi. “Aberrante perché ci sono fiumi di sentenze che dicono che la cessione di sostanza stupefacente è un reato che danneggia la salute di chi la riceve” e nel caso in cui si arriva alla morte “subentra il diritto dei familiari” di prendere parte al dibattimento in quanto “danneggiati indiretti di colui che ha ricevuto la sostanza”. “Io non credo – ha poi precisato – che ci troviamo di fronte a giudici incompetenti” perché oggi nel corso del processo “il giudice ha dimostrato fin dall’inizio di non avere nessun interesse a che si accerti tutta la verità sulla vicenda Manca”. “Sono cose – ha concluso Ingroia – che in 25 anni di carriera da pubblico ministero non ho mai visto”.

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Caso Manca: un po’ di luce

C’è voluto un pentito del clan dei Casalesi per dire quello che i familiari di Attilio Manca sostengono da dieci anni: che l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) in servizio all’ospedale “Belcolle” di Viterbo non si è suicidato con una overdose di eroina, ma è stato “suicidato” dalla mafia. C’è voluto l’ex killer Giuseppe Setola – un pentito “autorevole” e “di spessore”, come viene definito da Antonio Ingroia, legale della famiglia Manca – per “movimentare” il fascicolo dei magistrati di Viterbo e per portare la Direzione distrettuale antimafia di Roma – coordinata dal procuratore Giuseppe Pignatone – ad aprire un fascicolo di indagini preliminari “modello 45”, inserendo il caso “nel registro degli atti non costituenti notizia di reato”, ovvero nel registro “nel quale raccogliere quegli atti che riposano ancora nel ‘limbo’ della non sicura definibilità, ma che postulano una fase di accertamenti preliminari”.

Detenuto nel carcere di Napoli, nei mesi scorsi Giuseppe Setola ha voluto incontrare i Pm palermitani Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia – i magistrati che si occupano della Trattativa, particolare, forse, non secondario – per riferire di avere appreso da un compagno di cella che la morte di Attilio Manca – avvenuta a Viterbo l’11 febbraio 2004 – è da collegare all’operazione di cancro alla prostata alla quale, nell’autunno del 2003, fu sottoposto a Marsiglia il boss Bernardo Provenzano.

Le dichiarazioni di Setola sono state secretate e trasmesse alla Direzione distrettuale antimafia di Roma e alla Procura della Repubblica di Viterbo. Pignatone ora si sta muovendo su due fronti: acquisire informazioni sull’attendibilità del pentito presso la Procura di Napoli, e acquisire gli atti dell’indagine dalla Procura di Viterbo, in modo da avere una visione completa del caso. Dall’ipotesi di decesso per overdose – su cui è stato imbastito il processo che inizia domani a Viterbo – si potrebbe passare all’ipotesi di omicidio di mafia. La competenza, a quel punto, spetterebbe alla Dda di Roma. “Ritengo di fondamentale importanza – afferma l’avv. Ingroia – le dichiarazioni di Setola, visto lo spessore criminale dello stesso. Ho anticipato al procuratore di Roma l’intenzione di depositare una richiesta formale di apertura delle indagini per omicidio di mafia in danno di Attilio Manca, a nome e per conto della famiglia”.

A quel punto andrebbero chiarite diverse posizioni: per esempio quella di alcuni “amici” barcellonesi, strenui difensori della memoria di Attilio quando si parlava di “suicidio”, acerrimi accusatori (con ritrattazioni incredibili che gli inquirenti, evidentemente, non hanno notato) quando si è ventilato un coinvolgimento di Cosa nostra; la posizione del cugino della vittima, tale Ugo Manca, organico alla mafia di Barcellona (diversi precedenti penali e una condanna a quasi dieci anni per traffico di droga, con assoluzione in appello), di cui è stata trovata un’impronta palmare nell’appartamento dell’urologo; la posizione dell’ex capo della Squadra mobile Salvatore Gava, secondo il quale Attilio Manca – nei giorni in cui Provenzano era sotto i ferri a Marsiglia – non si sarebbe mosso dall’ospedale “Belcolle”, circostanza smentita clamorosamente alcuni mesi fa dalla trasmissione “Chi l’ha visto”; la posizione di alcuni poliziotti che – al momento del ritrovamento del cadavere – hanno redatto il verbale di sopralluogo, scrivendo che la vittima non presentava segni di violenza in tutto il corpo (versione contrastante con le foto); la posizione della prof.ssa Danila Ranalletta, medico legale che ha effettuato l’autopsia, la quale nel referto ha ignorato lo stato del volto (ridotto a una maschera di sangue), del setto nasale (deviato), delle labbra (tumefatte), dei testicoli (enormi e contrassegnati da un evidente ematoma).

Da chiarire la posizione dei magistrati che hanno portato avanti l’indagine: dovrebbero spiegare, tra l’altro, perché Attilio – mancino puro – è stato trovato morto con due buchi nel braccio sbagliato, quello sinistro; perché per ben otto anni non hanno ordinato il rilievo delle impronte digitali sulle siringhe (siringhe ritrovate con il tappo salva ago ancora inserito); perché senza uno straccio di prova hanno insistito per dieci anni sull’ “inoculazione volontaria” della vittima; perché non hanno ancora spiegato alcuni presunti retroscena relativi all’esame tricologico (l’esame sul capello della vittima per accertare assunzioni pregresse di stupefacenti): i magistrati sostengono che è stato effettuato e che è risultato positivo; i legali dei Manca affermano che agli atti non esiste c’è alcun esame tricologico (accusando quindi gli inquirenti di dire il falso); perché non hanno richiesto alle compagnie telefoniche i tabulati relativi all’autunno del 2003 per stabilire se davvero – come sostiene la famiglia Manca – il medico era in Francia mentre Provenzano veniva operato; perché non hanno richiesto altri tabulati telefonici ritenuti “interessantissimi” e attualmente depositati presso il Tribunale di Messina.

Secondo Antonio Ingroia “si può immaginare che la decisione di uccidere Attilio sarebbe maturata quando questi, accortosi della vera identità del ‘signor Gaspare Troia’, avrebbe espresso il suo dissenso a determinati personaggi che avrebbero fatto da tramite fra lui e Provenzano”. Tutto da verificare ovviamente. Ma è un tassello che potrebbe incardinarsi fra altri due tasselli: il primo riguarda una frase sibillina pronunciata da Provenzano lo scorso anno, quando l’ex parlamentare europeo Sonia Alfano andò a fargli visita in carcere: “Signor Provenzano, ricorda il giovane urologo Attilio Manca?”. E lui: “Hama mettiri mmenzu autri cristiani?”, dobbiamo mettere in mezzo altra gente? Una risposta criptica che l’on. Alfano traduce così: “Dobbiamo coinvolgere altre persone (oltre a quelle già compromesse) che hanno protetto la latitanza del boss?”. Già, perché “Binnu ‘u tratturi” ha trascorso un pezzo della sua quarantennale clandestinità proprio nella città di Attilio MancaBarcellona Pozzo di Gotto, “zona franca” per boss come lui. Nel libro “Un ‘suicidio’ di mafia” dedicato alla strana morte di Attilio MancaSonia Alfano, supportata da un investigatore a quel tempo impegnato nelle indagini su Provenzano, svela che l’urologo avrebbe utilizzato una struttura privata di quella zona per visitare il signor “Gaspare Troia”. “Zona franca” anche per Nitto Santapaola, il cui covo segreto fu scoperto dal giornalista Beppe Alfano, ucciso per questo l’8 gennaio 1993.

Il secondo tassello riguarda Ciccio Pastoia, ex braccio destro di Provenzano, che nel 2005, intercettato dalle “ambientali”, parlò di “un” dottore che ha “curato” il boss corleonese. Si riferiva ad un medico che lo avrebbe visitato in Italia prima dell’intervento – diagnosticandogli il tumore – e che lo avrebbe seguito, sempre nel nostro paese, nelle cure post operatorie? Non lo sapremo mai, almeno non da Pastoia: don Ciccio è morto “impiccato” nel carcere di Modena poco tempo dopo. La sua tomba è stata incendiata nel cimitero di Belmonte Mezzagno dopo il seppellimento. Oggi forse potremmo saperlo da Setola. Intanto la Commissione parlamentare antimafia il 27 e il 28 ottobre sarà a Barcellona. Primo argomento in agenda: il caso Manca.

(fonte)

Dovete solo dire grazie

Alessandro Gilioli scrive tornando su ciò che scrivevo proprio ieri su pensioni e Governo. Un po’ più incazzato, direi:

Il pensionato che riceve l’assegno più tardi non si deve lamentare, perché c’è chi la pensione non la vedrà mai.
L’operaio a cui aumentano l’orario a parità di salario stia zitto, perché ha uno stipendio fisso a fine mese.
Il cassintegrato si dovrebbe un po’ vergognare, che riceve dei soldi dallo Stato per non lavorare.
Il centralinista al call center l’ora ringrazi la sorte che il suo padrone non ha ancora spostato tutto in Romania.
Il giornalista precario a quattro euro a pezzo non lo sa come vanno le cose nell’editoria, con che faccia chiede di più?
Il cameriere di Eataly a 800 euro al mese tace perché al bar lì vicino pagano di meno e pure in nero.
E la colf romana a cui hanno ridotto la paga da 8 a 7 euro l’ora non sa che una polacca ne chiede solo sei?

o che questo accada per ignoranza e incuria, o per allegro spirito di distruzione, o per meditato proposito

“[…] incapaci di risolvere in sé innalzandola a maggiore e migliore potenza la esistente civiltà, la scalzano, e non solo soverchiano e opprimono gli uomini che la rappresentano, ma si volgono a disfarne le opere, e distruggono monumenti di bellezza, sistemi di pensieri, tutte le testimonianze del nobile passato, chiudendo scuole, disperdendo o bruciando musei e biblioteche e archivi, e facendo alte e simili cose, come si è visto e si vede, o che questo accada per ignoranza e incuria, o per allegro spirito di distruzione, o per meditato proposito. […]”

(Benedetto Croce da Filosofia e storiografia)

La tremarella del Parlamento davanti ad Israele

“Al Parlamento italiano mi sento di rivolgere lo stesso appello che abbiamo lanciato, con esito positivo, alla Camera dei Comuni britannica: riconoscere lo Stato di Palestina. Lo chiedo da cittadina israeliana, che ama il proprio Paese e che ha combattuto per difenderlo. Riconoscere ai palestinesi il loro diritto a vivere in uno Stato indipendente, a fianco d’Israele, non è solo un atto di giustizia ma significa essere davvero amici d’Israele, perché il nostro diritto alla sicurezza non è altra cosa dal loro diritto all’autodeterminazione”.

A parlare è una delle figure più rappresentative del mondo politico e culturale israeliano: Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, figlia di uno dei miti dello Stato ebraico: l’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan.

Yael Dayan è una delle 363 personalità israeliane che hanno firmato l’appello rivolto al Parlamento britannico per il riconoscimento dello Stato di Palestina. “Riconoscere uno Stato palestinese sulla base dei confini del 1967 – dice Dayan in questa intervista esclusiva all’Huffington Post – è essenziale per l’esistenza d’ Israele. Questa è l’unica politica che lascia nelle mani di Israele il suo destino e la sua sicurezza. Ogni altra politica contraddice gli ideali del sionismo e il futuro del popolo di Israele”.